Mio padre Sebastiano è morto l'11 novembre 2016 per le conseguenze di un adenocarcinoma. A Lucia, mia madre, è stato diagnosticato nel 2014 il morbo di Alzheimer. Quando si è ammalato, mio padre ha iniziato a raccontarmi la sua vita mettendo, così, ordine anche tra le testimonianze confuse di mia madre. Lei ha disimparato cose elementari come vestirsi in modo corretto, lavarsi e mettere le cose in ordine. Io sono il suo caregiver. Come molti altri malati nelle sue condizioni, è spesso irascibile e aggressiva perché non ha più gli strumenti per decifrare cosa le succede intorno. In Caregiver Whisper racconto piccole storie di vita nella malattia, tra le mille difficoltà con cui mi sono dovuto misurare, il più delle volte da solo, e l'ironia che ci ha aiutato a non impazzire nei momenti più difficili. Questa rubrica è dedicata ai miei genitori, alle persone che mi sono state accanto in questo percorso e a chi si trova, come me, a guardare in faccia la realtà, cercando di elaborare un lutto che lutto ancora non è.
27 maggio 2016
In soli due mesi, come un esperto commediografo che rimette mano a un manoscritto che non lo soddisfa del tutto, mia madre ha riscritto parte della storia della sua vita. Da qualche giorno ha iniziato a farlo anche con la mia. Questa settimana nella sua testa sono scomparse alcune tracce che mi riguardano: il mio lavoro, la mia ex e, a cascata, tutto il resto. Oramai, per la maggior parte del tempo, è convinta che io non sia suo figlio. Spesso mi dice che sa che abbiamo un grado di parentela ma non ha la minima idea di quale possa essere esattamente il nostro rapporto.
Per fare un solo esempio, qualche giorno fa, mentre stavamo facendo colazione al bar sotto casa, mi sono accorto di aver dimenticato i giornali per mio padre sul tavolo della cucina: glieli porto ogni mattina in ospedale, per dargli modo di distrarsi un po’. Così ho lasciato Lucia seduta al tavolino, indaffarata con una brioche, e sono salito a casa. Quando sono tornato al bar, dopo nemmeno due minuti, mia madre era davanti al bancone a parlare con Francesca, la barista. Quando sono entrato, si sono girate verso di me e poi Lucia ha chiesto: «È vero o non è vero?»
M: «Che cosa, mà?»
L: «Che vivi con noi da tanto tempo.»
Le ho sorriso, un po’ imbarazzato, e ho guardato la barista che aveva una faccia strana. Poi, mia madre ha continuato: «Come ti dicevo, lui è un cugino lontano che adesso vive da noi. È come se fosse un fratello, è bravo, ma è stato tanto sfortunato, poverino.»
Io faccio segno a Francesca di non farci caso, di fare finta di niente mentre mia madre riprende a dirle che, anche se sono un bravo ragazzo, sono ancora scapolo: «Ma senti un po’, ma perché non ci fai un pensierino?»
Quando usciamo dal bar, fingo di avere fretta solo per evitare di rispondere a domande di cui non conosco la risposta, dicendo che dobbiamo andare a prendere il tram prima di perderlo. Il resto della giornata lo passeremo in ospedale insieme a mio padre.
Quando torniamo verso casa, Lucia è tutta sorridente. La guardo, e le chiedo se mi riconosce.
Lucia mi guarda a sua volta e sorride: «Certo che ti riconosco, che domande che fai! Ma fammi capire, a me che cosa vieni?»
M: «Non riconosci che sono Marco?»
Ride e mi dice che ho sempre voglia di scherzare. In questi giorni ho notato che quando qualcuno mi chiama Marco a volte sembra quasi che le dia fastidio. Davanti agli altri, però, non dice mai nulla, forse perché ha paura di essere giudicata o derisa. Così, quando restiamo da soli, inizia.
L: «Ma fammi capire, tu dove sei stato in tutti questi anni?»
M: «Non te lo ricordi?»
L: «No, non mi ricordo.»
M: «Sono stato prima a Torino e poi in Sicilia.»
L: «Ah sì?»
M: «E non ricordi che ti chiamavo tutti i giorni?»
L: «E parlavi con me?»
M: «Sì, parlavo prima con te e poi con il papà.»
La conversazione finisce qui, seduti su un tram che ci sta riportando verso casa. Lucia guarda fuori e mi chiedo a cosa stia pensando: dentro, intanto, sento crescere l’ansia.
Quando torniamo a casa, mia madre riprende con le sue domande.
L: «Ma Marco lo sapeva che fingevi di essere lui?»
M: «Non sto fingendo di essere lui, sono davvero Marco; proprio che non mi riconosci?», chiedo con un tono di voce tranquillo e spaventato allo stesso tempo.
L: «Guarda, se Marco viene quando ci sei anche tu te lo faccio dire da lui.»
M: «Scusa, ma se hai dei dubbi, perché non hai chiesto qualcosa oggi in ospedale?»
L: «Ieri mi veniva da chiedere dov’è mia madre, dov’è finito Marco, ma non ho chiesto nulla perché poi ridono e mi prendono in giro.»
M: «Ma no che nessuno ti prende in giro.»
L: «Che ne sai tu? In ospedale mi hanno sempre riso in faccia.»
M: «Vabbè, potevi chiedere a tuo figlio.»
L: «Ma che cazzo dici?»
M: «Dico che potevi chiedere a lui chi sono.»
L: «Ma che cazzo dici? Io non ho mai avuto la pancia. Quindi quello non può essere mio figlio.»
M: «Scusa, e Sebastiano?»
L: «E che cazzo c’entra adesso Sebastiano? Io e lui non siamo ancora andati a letto insieme, quindi che figli e figli? Ma che cazzo dici?»
M: «Ah, scusa, è che non ricordo bene adesso che parentela avete.»
L: «Tu non ti devi permettere di dire certe cose, cristo eleison…»
Mentre me ne resto zitto e inizio ad apparecchiare la tavola, mia madre continua a brontolare nella sua camera. Mi chiedo come farò a farle prendere la terapia se resta così arrabbiata.
Poi, a un certo punto, ritorna con un album con alcune fotografie di quando ero bambino: «Ecco, guarda qua? Sei tu questo? Non lo vedi che siete diversi? Avanti, adesso fammi vedere come dimostri che sei mio figlio.»
© Marco Annicchiarico
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