Mio padre Sebastiano è morto l'11 novembre 2016 per le conseguenze di un adenocarcinoma. A Lucia, mia madre, è stato diagnosticato nel 2014 il morbo di Alzheimer. Quando si è ammalato, mio padre ha iniziato a raccontarmi la sua vita mettendo, così, ordine anche tra le testimonianze confuse di mia madre. Lei ha disimparato cose elementari come vestirsi in modo corretto, lavarsi e mettere le cose in ordine. Io sono il suo caregiver. Come molti altri malati nelle sue condizioni, è spesso irascibile e aggressiva perché non ha più gli strumenti per decifrare cosa le succede intorno. In Caregiver Whisper racconto piccole storie di vita nella malattia, tra le mille difficoltà con cui mi sono dovuto misurare, il più delle volte da solo, e l'ironia che ci ha aiutato a non impazzire nei momenti più difficili. Questa rubrica è dedicata ai miei genitori, alle persone che mi sono state accanto in questo percorso e a chi si trova, come me, a guardare in faccia la realtà, cercando di elaborare un lutto che lutto ancora non è.
15 marzo 2018
Lucia è entrata ufficialmente nella terza e ultima fase della malattia. La neurologa che si è occupata di lei in questi ultimi due anni ieri ha convocato davanti alla Direzione Sanitaria i suoi parenti più stretti per parlare dell’attuale situazione e di quello che accadrà a breve. Come sempre, ero l’unico interlocutore. Il fatto è che, come ha detto lo stesso direttore: «Nelle famiglie a volte succede che la malattia di una persona faccia scoppiare le patologie in senso lato degli altri componenti».
Quando il Dirigente Sanitario ha iniziato a spiegare quali sono gli ultimi peggioramenti che mancano, chiedendo se ne fossi consapevole, ho risposto di sì. Ho letto molto sul tema dell’alzheimer e ho vissuto, seppur a distanza, il decorso dei genitori del mio migliore amico; quindi so benissimo quello che accadrà e sono già pronto. Anche se poi, ogni volta che accade qualcosa di nuovo, mi accorgo di non essere mai pronto davvero.
Mi spiegano che «ci sarà un cambio di referente perché la neurologa ha trovato inopportuni certi atteggiamenti – non miei e nemmeno di Lucia – e pensa non ci siano più le basi per poter seguire con tranquillità sua madre». Ora attendo la chiamata del geriatra che se ne dovrà occupare. Mi spiace perché se io e Giorgia – la badante che mi dà una mano part-time – siamo riusciti a gestire Lucia a casa, nonostante le numerose crisi e i deliri costanti, il merito è anche della neurologa che si è sempre resa disponibile, trovando il tempo per suggerire letture e atteggiamenti, via mail o per telefono.
La demenza, di solito, ha un percorso di malattia che dura in media una decina d’anni; qualcuno, più “fortunato”, se la cava con tre mentre altri riescono ad arrivare anche a venti. Riuscire a definire l’esordio permette di stabilire qual è la prospettiva e quale il percorso della malattia. L’alzheimer, mi dicono in modo greve, è progressivo e non emendabile. E ho sorriso perché questo, il fatto che non si può curare, è l’unica cosa che noi caregiver sappiamo quando viene diagnosticata la malattia. Ed è l’unica cosa che, di solito, ci viene detta. Ma anche se lo so bene, a volte è come se me ne dimenticassi. Ci pensa sempre un nuovo peggioramento di Lucia a ricordarmelo. Solo in quel momento, infatti, divento consapevole che tutto quello che ho fatto e che continuo a fare non serve a tornare indietro né a stabilizzare la situazione: è solo un accompagnare mia madre nel suo ultimo (e doloroso) percorso.
Mi spiegano che c’è una prima fase, quella “primitiva”, in cui il malato dimentica le cose e inizia a perdere la memoria; questa è la fase più gestibile. Dura di solito intorno ai tre anni e solo un occhio attento può capire che qualcosa non torna: è la fase che mio padre ha vissuto in solitaria.
«Di norma viene ben tollerata e, quasi sempre, è il coniuge anziano che riesce a compensare e a governare la situazione.»
Poi il dirigente cita degli studi “interessanti” che dimostrano come i coniugi che si occupano di un malato di demenza, nella maggior parte dei casi (e le percentuali sono davvero elevate), si ammalano e vengono a mancare. In questa fase, se non è la malattia del coniuge, avviene comunque qualcosa che, all’improvviso, rompe l’equilibrio. Nel caso di Lucia sono stati i ricoveri (quasi) contemporanei di mio zio – suo fratello – e di mio padre.
Dopo l’operazione di Sebastiano, Lucia è entrata nella seconda fase, quella collegata ai disturbi comportamentali, nei quali rientra la difficoltà a riconoscere le persone. Solo chi non frequenta la famiglia può pensare che la malattia sia cominciata improvvisamente, ma così non è.
«Il malato di alzheimer non ha consapevolezza della malattia e così riversa il suo stress all’esterno: ecco perché non è di certo lui che non riconosce il coniuge ma è quest’ultimo che non è chi dice di essere. In questo percorso, faticoso, si cerca di limitare i problemi caratteriali con i farmaci – questo perché, non di rado, la malattia scatena l’aggressività dell’individuo – ma per tutti gli altri aspetti è il contesto che deve essere in grado di contenere la situazione.»
A questo punto interviene l’assistente sociale che aggiunge: «E dagli scambi tra lei e la neurologa, mi pare di poter dire che lei ha puntato molto sugli aspetti di contenimento della relazione, cercando strategie e organizzandosi, creando relazioni e adattando l’ambiente intorno a sua madre. Su questo ha fatto un investimento importante e faticoso, e non è una cosa da tutti.»
Guardo la sedia vuota alla mia sinistra e penso che è proprio vero: non è una cosa da tutti.
Ora Lucia ha concluso la seconda fase ed è entrata in quella più faticosa da gestire, dove l’unica domanda che ci si pone è «fino a quando potremo gestirla a domicilio e con quali modalità?».
Questa, continua, è la fase cosiddetta “internistica” della malattia, caratterizzata da problemi funzionali.
«Come ha notato, c’è un maggior rischio di cadute dovute a un equilibrio ormai precario che in parte è determinato dai farmaci e in parte dall’avanzare della malattia. Ma lo sa meglio di noi che se sua madre non assume i farmaci, la gestione diventa impossibile.»
E come se stilasse la classifica dei tre dischi più venduti della settimana, con distacco e delicatezza, elenca quelli che saranno i prossimi (ultimi) problemi: il rifiuto del cibo, a causa della difficoltà a deglutire (la famosa disfagia); la relativa malnutrizione, che causerà le infezioni più frequenti; l’immobilità, con conseguenti piaghe da decubito che la spingeranno in un circolo vizioso difficile da gestire e che si chiuderà col decesso per le conseguenze che questo deficit ha sulle funzioni vitali.
Erano tutte cose che avevo letto ma sentirle snocciolare sapendo che si sta parlando di mia madre è come ricevere un pugno in faccia. Poi, per risollevarmi il morale, mi hanno rassicurato: «Se quella che ha vissuto pensa sia stata la fase più pesante, quella che arriverà adesso sarà ancora peggio.»
Mi spiegano che in questa terza fase, dove il percorso del malato è piuttosto chiaro, nonostante la fatica esiste un egoismo affettivo del caregiver che lo spinge a tenerlo in casa ma senza essere in grado di fornire le cure adeguate.
«Perché, da adesso in poi, gli interventi su sua madre saranno sempre di più interventi di carattere sanitario. Lei è lucido e ha un’ottima visione della situazione, quindi sa già che quello che sta facendo ora è accompagnare Lucia al suo destino. Ora deve prepararsi a tagliare quel cordone ombelicale che si è ricostruito in questi due anni.»
La cosa migliore sarebbe una degenza temporanea, per valutare la situazione e trovare la terapia adatta: «Perché modificare la terapia stando a domicilio è un gran pasticcio, è una cosa che andrebbe fatta in un ambiente in cui si può monitorare e controllare quotidianamente ogni parametro.»
Il problema è che l’equilibrio raggiunto con mia madre è talmente precario che qualunque intervento potrebbe spezzarlo. Anche la rete che ho creato attorno a Lucia, grazie alla collaborazione dei miei amici e del Cafè Alzheimer, adesso ha maglie larghe e serve a ben poco. Per fare un esempio, le ex colleghe di mia madre hanno smesso di chiamare perché non si capisce cosa Lucia voglia dire e lei stessa, quando le chiedo se vuole parlare al telefono, inventa scuse per mascherare la sua incapacità di trovare le parole giuste per farsi capire.
È per questo che, stanco di gestire questa situazione da solo, sono andato in giro per la città a cercare un aiutante; è straniero e, anche se non spiccica una parola di italiano, è disposto a restare a casa 24 ore al giorno, 7 giorni su 7. Così, da due giorni ho assunto in nero un Cicciobello per provare anche la doll therapy; ora Lucia divide il suo tempo tra me, Giorgia e questo bambolotto che ha scelto in un negozio di giocattoli. Le azioni reiterate più volte al giorno, il continuo svuotare armadi e cassetti creando dei piccoli fagotti, forse consuetudini che si riallacciano a quando confezionava panettoni alla Motta (il cosiddetto “passato emozionale”), sono state accantonate. Adesso, la maggior parte delle volte, si avvicina al bambolotto e inizia a baciarlo, a parlargli, a chiedere e raccontargli cose, confuse e senza senso. Giorgia e la mia amica Giovanna la prima volta sono rimaste un po’ impressionate. A me, invece, abituato ai suoi deliri, sembra tutto normalissimo.
Così, anche questa sera Lucia ha sistemato il bambolotto sul cuscino accanto al suo e mi ha detto di lasciarlo lì, sotto le coperte, per non fargli sentire freddo.
L’ho spogliata e le ho messo la vestaglia con un po’ di fatica (questa sera non capiva che senso avesse spogliarsi per poi rivestirsi) e quando le ho sollevato le gambe per metterla a letto, ha detto che prima o poi mi deve dare un pugno. Me lo dice spesso perché per lei è una cosa divertente, così rido anch’io.
«Ma tu adesso dormi?»
«No, lavoro un po’ in cucina e poi vado a dormire nell’altra camera.»
«Ah, non devi dormire qui?»
«No, dormo di là.»
«Allora lui può restare qua tutta la notte?»
«Certo, non è un problema.»
«E quell’altro, se n’è ghiuto?»
«Sì, siamo rimasti solo noi tre.»
«Ma prima gli hai detto cinque o sei?»
«No, gli ho detto sette o otto.»
«Ah. Ma gli hai detto domani?»
«Sì, domani.»
«Vabbuò. Adesso la vedi che fa “grascica”.»
«Va bene lo stesso», rispondo in modo vago ma deciso, non sapendo di cosa stiamo parlando.
Poi manda un bacio e io mi chino a baciarla sulla fronte; ride e mi dice di dare un bacio anche a lui, al bambolotto. Così faccio il giro del letto, bacio anche quel volto di vinile e scatto una foto.
«Hai visto che bello che è?», chiede.
«Ovvio, ha preso tutto da me.»
Lei mi guarda, ride e non risponde.
Ma quando sto per uscire mi chiama:
«Uagliò, ma quindi diventerà grasso pure lui?»
© Marco Annicchiarico
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