Mio padre Sebastiano è morto l'11 novembre 2016 per le conseguenze di un adenocarcinoma. A Lucia, mia madre, è stato diagnosticato nel 2014 il morbo di Alzheimer. Quando si è ammalato, mio padre ha iniziato a raccontarmi la sua vita mettendo, così, ordine anche tra le testimonianze confuse di mia madre. Lei ha disimparato cose elementari come vestirsi in modo corretto, lavarsi e mettere le cose in ordine. Io sono il suo caregiver. Come molti altri malati nelle sue condizioni, è spesso irascibile e aggressiva perché non ha più gli strumenti per decifrare cosa le succede intorno. In Caregiver Whisper racconto piccole storie di vita nella malattia, tra le mille difficoltà con cui mi sono dovuto misurare, il più delle volte da solo, e l'ironia che ci ha aiutato a non impazzire nei momenti più difficili. Questa rubrica è dedicata ai miei genitori, alle persone che mi sono state accanto in questo percorso e a chi si trova, come me, a guardare in faccia la realtà, cercando di elaborare un lutto che lutto ancora non è.
Immagine da Calando di Roger Olmos (Logos, 2015)
04 luglio 2017
In un articolo del 5 giugno intitolato “Domandare. La magnifica capacità infantile che perdiamo da adulti”, Annamaria Testa, citando questo studio inglese, scrive che “una bimba di 4 anni può fare anche 390 domande al giorno, più di una ogni due minuti”. “La propensione a domandare – aggiunge – decresce con l’accesso alla formazione scolastica, per spegnersi progressivamente nel corso degli anni di scuola. […] Tornare a far domande da adulti è difficile”.
Quando l’ho letto ho sorriso, pensando che dovrei farle conoscere Lucia, mia madre; lei, quella “magnifica capacità infantile”, non l’ha persa per nulla. Domandare, anzi, è la cosa che fa con più frequenza (insieme a spostare gli oggetti in posti improbabili).
Come i bambini, anche Lucia “domanda per sapere, per capire e (a volte) per inventare” una storia che non conosce. In questi ultimi mesi si limita a fare domande semplici perché ha perso la capacità di domandare in modo efficace. Tutto questo, a causa dell’alzheimer.
“Domanda per ri-costruire un mondo”, quello confuso dei suoi ricordi. E quando la risposta non è convincente, ripete la domanda fino a quando non inizia a darsi una risposta da sola; quella, nel giro di poche ore, diventerà la sua nuova realtà.
Mia madre, nei momenti di particolare “forma”, è capace di ripetere la stessa domanda anche per due ore di seguito, a intervalli di pochi minuti. Ma non domanda a tutti, solo alle persone con cui avverte una certa confidenza, quelle che sa che non la prenderanno in giro. Quelle persone, dopo la morte di mio padre, siamo rimasti io e Giorgia, la badante che mi aiuta part-time. Degli altri non si fida.
Ogni domanda che mia madre pone diventa, per me, un’occasione di invenzione perché, a quello che chiederà, dovrò dare una risposta fantasiosa ma verosimile, che sia in grado di lasciarla tranquilla.
All’inizio era molto difficile. Come quel giorno quando, guardando mio padre sdraiato in un letto d’ospedale, lei era convinta che fosse sua madre e continuava a chiedere agitata e incredula: “ma com’è possibile che adesso mia madre ha il pisello? Perché nessuno mi ha detto niente?”.
C’era chi trovava la cosa divertente, tanto da ridere in faccia a lei e a mio padre, e c’ero io che cercavo prima di farle capire che non poteva essere sua madre e poi di trovare una risposta che potesse essere credibile. Senza riuscirci.
Domandare è l’unico modo che ha un malato di alzheimer per tenere a bada le proprie paure.
Io non so cosa prova mia madre quando perde le staffe e inizia a sbraitare e insultare, non lo posso nemmeno immaginare.
Ma capisco che quella reazione nasce dal non riuscire a capire quello che ha intorno, dal non ritrovare più alcun punto di riferimento, dalla paura di stare per impazzire.
Ecco: quello che provo a fare da più di un anno, è cercare di darle dei punti di riferimento, che cambiano ogni giorno in base al suo umore, punti di riferimento che esistono solo nella sua testa ma che riescono a tenerla quieta.
Come quando un amico chiama al telefono per sapere come sta mia madre e io mi allontano; lei viene da me e inizia a chiedere Marco dov’è.
«È uscito», rispondo.
«E senza salutarmi?»
«Ti ha salutato quando eri in bagno, possibile che non l’hai sentito?»
«E quell’altro, dov’è quell’altro con la barba che prima era qui?» (sono sempre io)
«È uscito anche lui. Ci hanno lasciato soli ma hanno detto che tornano presto. Vuoi che li aspettiamo in piedi?»
Lei risponde sempre di no e inizia a prepararsi per andare a letto. Le basta un tono calmo che le dica che tutto va bene, che non è stata né abbandonata né dimenticata. Poi, una volta a letto, guarda la foto di suo marito, mio padre, e dice che quello sì che era un uomo, non come me o i suoi figli che nemmeno passano a trovarla. Io la guardo, sorrido, e le dico che ha ragione. Poi si mette sotto le coperte e, certe sere, chiede scusa se mi ha rovinato la vita.
È in quelle sere che tutto cambia e la fatica emotiva e fisica che mi accompagna quotidianamente svanisce. Anche se non è più così, in quei momenti torniamo a essere una madre e un figlio. Certo, fino al risveglio, fino alla prima delle prossime 390 domande.
© Marco Annicchiarico
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