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Caregiver Whisper 45

Mio padre Sebastiano è morto l'11 novembre 2016 per le conseguenze di un adenocarcinoma. A Lucia, mia madre, è stato diagnosticato nel 2014 il morbo di Alzheimer. Quando si è ammalato, mio padre ha iniziato a raccontarmi la sua vita mettendo, così, ordine anche tra le testimonianze confuse di mia madre. Lei ha disimparato cose elementari come vestirsi in modo corretto, lavarsi e mettere le cose in ordine. Io sono il suo caregiver. Come molti altri malati nelle sue condizioni, è spesso irascibile e aggressiva perché non ha più gli strumenti per decifrare cosa le succede intorno. In Caregiver Whisper racconto piccole storie di vita nella malattia, tra le mille difficoltà con cui mi sono dovuto misurare, il più delle volte da solo, e l'ironia che ci ha aiutato a non impazzire nei momenti più difficili. Questa rubrica è dedicata ai miei genitori, alle persone che mi sono state accanto in questo percorso e a chi si trova, come me, a guardare in faccia la realtà, cercando di elaborare un lutto che lutto ancora non è.


02 marzo 2016

​​Negli anni quaranta Nicola, il nonno di mio padre Sebastiano, era uno dei pochi che a Zungoli possedeva quattro cavalli. Così, durante il periodo della semina, capitava spesso che gli altri contadini lo chiamassero, pagandolo per lavorare il loro terreno.
S: «In questo modo i soldi giravano. Per darti un’idea, per arare un giorno intero mio nonno si faceva pagare in tutto cinquanta lire.»
M: «Con cinquanta lire, se non ricordo male, potevi comprare cinque pacchetti di Alfa, no?»
Sorride e dice di sì, traducendo il prezzo in uova (poco più di otto).
Poi mi spiega che lui passava molto tempo a casa di suo nonno, in campagna. Lo seguiva anche quando andava dagli altri contadini perché mia nonna lavorava la terra e non lo voleva lasciare da solo a casa. Sebastiano, cresciuto senza padre, era un bambino un po’ irrequieto e suo nonno cercava di colmare quell’assenza, senza riuscirci più di tanto.
S: «A me faceva piacere seguirlo perché, quando andavo con lui, mi dava sempre qualche soldino.»
Il nonno di Sebastiano, quando era il tempo di fare la mietitura e la trebbiatura, prendeva degli operai per farsi aiutare. Aveva la vigna, l’uliveto e faceva l’olio. Aveva anche il grano e tutto sommato stava bene.
Poi mio padre si ferma, sposta il giornale che ha davanti a sé, e racconta che uno dei ricordi più nitidi che ha di quando era piccolo riguarda i bombardamenti. In campagna avevano fatto costruire un tunnel che partiva da casa dei suoi nonni e andava a finire sotto a un pagliaio.
S: «Quando sentivamo arrivare gli aerei in lontananza, mio nonno veniva subito a cercarmi e mi faceva infilare lì sotto insieme agli altri; anche se avevo solo cinque anni, correvo dritto fino in fondo, più veloce di tutti.»
Nicola, il mio bisnonno, era stato nominato Cavaliere dell’Ordine di Vittorio Veneto perché aveva combattuto durante la prima guerra mondiale. Benché ne fosse molto orgoglioso, la cosa che più gli faceva piacere era l’assegno annuo vitalizio di 60 mila lire che percepiva in due rate semestrali, una a giugno e una a dicembre. A mio padre non raccontò mai nulla della grande guerra, forse per evitare che associasse le sue storie a quelle di mio nonno, il papà di Sebastiano. Una volta soltanto si lasciò scappare che, se aveva fatto ritorno, era stato solo per miracolo.

Questa mattina hanno chiamato per fissare il ricovero di mio padre: entrerà in ospedale il 10 marzo e il giorno successivo sarà operato. Gli toglieranno il tumore con l’esofago e una parte dell’intestino. Anche se non lo dà a vedere, è molto preoccupato. Forse è per questo che, da qualche giorno, racconta più spesso episodi che riguardano la sua vita. Credo lo faccia per esorcizzare la paura.
Due giorni fa siamo stati al doppio incontro con l’oncologo e il chirurgo; ci siamo andati in taxi perché, all’ultimo momento, nessuno si era reso disponibile per accompagnarci.
Sebastiano avrebbe preferito non operarsi perché ha paura che la sua vita possa cambiare del tutto, ovviamente in peggio. Il chirurgo, però, gli ha spiegato per filo e per segno cosa succederà se non si opera: il rischio è che il tumore continui a crescere, facendo chiudere l’esofago. Dopo l’operazione, l’hanno rassicurato, potrà tornare a mangiare, pasti più frequenti e meno abbondanti.
S: «E il vino lo potrò bere ancora?»
C: «Un bicchiere a pranzo, perché no?»
S: «Quindi come adesso.»
Mi giro verso di lui e, mentre ci scambiamo uno sguardo d’intesa, penso “Certo, un bicchiere alla volta”, ma mi trattengo, sostituendo quella frase con un sorriso di complicità.

Quando finisce di lavare in bagno un po’ di biancheria, Lucia ritorna in cucina e prende tutto il necessario per preparare i peperoni ripieni. Poi ci guarda, sorride, e chiede di cosa continuiamo a parlare.
S: «Gli sto raccontando di quando ero piccolo, di mio nonno Nicola, della guerra.»
L: «E perché?»
S: «Per raccontargli qualcosa di me. Tu non gli vuoi raccontare nulla?»
L: «E che l’aggia raccuntà
S: «Digli che facevi quando eri piccola, con le tue amiche.»
L: «E che gli importa a lui?»
M: «A me interessa. Vi sto registrando.»
Lucia ride e dice che allora si impegnerà per non dirmi nemmeno una parolaccia.
L: «Ricordo che d’estate, quando ero libera andavo con Maria Silvina a raccogliere i gelsi lungo la via nova; facevamo una scorpacciata sotto il sole e tornavamo a casa sempre con le mani e lu muss tutto rosso.»
Negli altri giorni, continua, andava spesso alla riola, sotto al convento. Lì, in aprile, facevano una fiera del bestiame e vendevano gli animali, pecore, mucche, maiali e asini.
L: «Spesso ci trovavi anche tuo padre.»
Poi mia madre scoppia a ridere perché si accorge che, da come ha formulato la frase, potrebbe sembrare che anche mio padre facesse parte degli animali; così dice che no, non era quello il senso, «Ma alla fine ci siamo capiti, no?»
S: «Pensa che all’Ascensione si portavano tutti gli animali sotto il ponte e venivano benedetti dal sacerdote.»
L: «Venivano a prendermi alcune amiche, Tilde, Geppina e sua sorella Michelina. Mi preparavo e poi prendevo il maiale e andavamo laggiù.»
M: «Il maiale?»
L: «Sì, i miei tenevano un maiale in casa, dormiva nello scantinato. Lo portavamo con noi, a passeggio, come fosse un cane, con una corda a mo’ di guinzaglio. Lui mangiava l’erba e noi giocavamo a campana; chi sbagliava usciva fuori. Ci si riuniva quasi tutti i giorni e ci si divertiva con poco. Un anno avevamo due maiali: uno ce lo siamo mangiato e l’altro l’abbiamo venduto.»
M: «Ah, è per questo che, quando ero piccolo, dicevi sempre “crisc puorc che sabat te venn“?»
Lucia ride e dopo risponde: «Sì, lo tenevamo a ingrasso e alla fine lo si vendeva a peso.»

Poi Sebastiano spiega che in quegli anni ogni famiglia allevava in casa almeno un maiale, per avere quello che poteva servire durante l’inverno. Lo si acquistava a maggio, durante una fiera, e lo si faceva ingrassare quanto si poteva. Poi, quando lo si macellava, si faceva una grande festa.

Del maiale, come dice il detto, davvero non veniva buttato nulla. Ne ricavavano salsicce, capocollo e prosciutto. Con lo stomaco e parte della cotenna riempivano i cotechini mentre i piedi e le orecchie venivano usati per dare sapore alle minestre. Dentro una caldara veniva scaldata l’acqua che serviva per pulire la pelle e togliere le setole; queste venivano poi vendute al calzolaio.
Invece con il sangue facevano il famoso sanguinaccio o la pizza di sangue mentre il grasso veniva sciolto con la sugna per poi essere utilizzato per cucinare al posto dell’olio. I resti del lardo sciolto, che al paese vengono chiamati cecul, ossia i ciccioli, venivano usati per insaporire vari tipi di pizze.

M: «Posso dire che, se togliamo le salsicce, il capocollo e il prosciutto, il resto mi fa un po’ schifo?»
S: «Eh, ma se vivevi in quel periodo, ti saresti fatto piacere qualsiasi cosa pur di mangiare.»
L: «Uagliò, nun te la piglià, ma mi sa che pure tu al maiale avresti fatto un po’ schifo, specie con quella barba così lunga ca te ritruov… Ma vuoi che te la taglio io?»

© Marco Annicchiarico

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