Mio padre Sebastiano è morto l'11 novembre 2016 per le conseguenze di un adenocarcinoma. A Lucia, mia madre, è stato diagnosticato nel 2014 il morbo di Alzheimer. Quando si è ammalato, mio padre ha iniziato a raccontarmi la sua vita mettendo, così, ordine anche tra le testimonianze confuse di mia madre. Lei ha disimparato cose elementari come vestirsi in modo corretto, lavarsi e mettere le cose in ordine. Io sono il suo caregiver. Come molti altri malati nelle sue condizioni, è spesso irascibile e aggressiva perché non ha più gli strumenti per decifrare cosa le succede intorno. In Caregiver Whisper racconto piccole storie di vita nella malattia, tra le mille difficoltà con cui mi sono dovuto misurare, il più delle volte da solo, e l'ironia che ci ha aiutato a non impazzire nei momenti più difficili. Questa rubrica è dedicata ai miei genitori, alle persone che mi sono state accanto in questo percorso e a chi si trova, come me, a guardare in faccia la realtà, cercando di elaborare un lutto che lutto ancora non è.
Immagine da Calando di Roger Olmos (Logos, 2015)
20 dicembre 2015
Ieri il corriere è passato per consegnare i pacchi che ho fatto spedire ai miei genitori. Da quando sono andato a vivere in Sicilia, ogni anno per Natale spedisco quella che giù viene chiamata “la truscia”: in italiano si può tradurre più o meno con “fagotto”. Dentro ho messo un po’ di tutto: una latta con dell’olio, dei formaggi, tre salami, l’origano, il rosmarino, i capperi, i pomodori secchi, il finocchietto selvatico che tanto piace a mio padre, dei biscotti e due cassette con arance, limoni e mandarini. Mia madre, contenta, riempirà una busta con delle arance e chiederà il permesso per darne un po’ ai vicini di casa: «È che lei è vegetariana e sono sicura che almeno queste se le mangia.»
A casa sembra tutto normale. Dopo l’ultima visita, a mio padre hanno detto che deve essere ricoverato per ulteriori accertamenti. Si è parlato di colonscopia e di gastroscopia, per il 26 e il 27 dicembre, e ci sembra un po’ strano che possano fissare degli esami proprio in quei due giorni. Hanno detto che in teoria non è niente di grave, che possiamo stare tranquilli, che si tratta solo di controlli di routine. Sebastiano mi ha chiesto, nel caso dovessero slittare gli accertamenti, se posso restare qualche giorno in più, per aiutare Lucia quando lui sarà in ospedale. A differenza delle altre volte che sono passato a trovarli, ho notato che in alcune occasioni è lui che si mette a cucinare; ha “rubato il mestiere” a Lucia, per aiutarla con le piccole dimenticanze che iniziano a comparire di tanto in tanto all’improvviso. Così, per fare un esempio, quando lei si mette a preparare la pasta a mano come ha fatto ieri, mio padre l’aiuta e poi si mette ai fornelli al posto suo, mentre lei coordina stando seduta su una sedia in cucina.
Mentre stiamo per imbottigliare l’olio, Lucia tira fuori un ricordo che era già venuto fuori in questi giorni nei loro racconti, un ricordo che riguarda un certo Angelo Maria. Abitava al paese dei miei, davanti al Castello normanno che si trova nella piazza principale, in una palazzina che, diversi anni dopo, sarebbe diventata la sede dell’ufficio postale. Ricordo ancora che, quando avevo sì e no tredici anni, andavo lì a spedire le cartoline ai miei compagni delle scuole medie.
Angelo Maria era quella che si dice una brava persona, amata da tutti. Il giorno in cui è morto ha pianto tutto il paese e, da quello che raccontano i miei, non è di certo un modo di dire.
L: «Sì, davvero. Quando è morto Angelo Maria ha pianto tutto il paese. Madonna come piangevano.»
S: «Ogni volta che ci vedeva passare, ci faceva segno con la mano e diceva “venite qui, venite che vi do un po’ d’olio”. Aveva delle giare piene e, con un coppino, a turno ci riempiva le mani.»
L: «Noi eravamo piccoli. Lui ci chiamava e ci faceva mettere le mani unite come quando devi bere. Poi ci metteva dentro l’olio per farcelo portare a casa e noi eravamo tutti felici.»
S: «Alla fine non è che ne riuscivi a portare chissà quanto a casa, perché quello colava dalle mani. C’era chi si metteva a correre e chi andava piano. C’era anche qualcuno che, se aveva dietro una fetta di pane, lo faceva colare sopra.», dice sorridendo.
L: «Eh, ma anche se era poco a noi sembrava molto.»
Sorride anche Lucia e, con un dito, assaggia l’olio appena arrivato: «Ma sai che è buono?.»
M: «E che ti credi, che ti mandavo un olio cattivo?»
S: «Sai, in quegli anni ci si accontentava proprio di poco, anche di quelle poche gocce d’olio. Poi c’era chi non aveva nulla, quindi non ci lamentavamo mai. Facevano tutti il pane in casa e poi lo portavano in uno dei tre o quattro forni che c’erano in paese.»
M: «Mà, vedi? Tu invece mai una volta che ti sei messa a fare il pane per me e papà; ma come dobbiamo fare con te?»
L: «Uagliò, avessi fatto tu quello che ho fatto io…», replica ridendo.
M: «Ma poi com’è morto questo Angelo Maria?»
L: «Mi sembra che è morto di un brutto male, vero Vastià?»
S: «È morto di peritonite. Allora non era come oggi che subito capiscono cos’hai. Capitava spesso che i dottori sbagliavano la diagnosi oppure capivano la malattia solo quando oramai non c’era più nulla da fare. Molte malattie non le conoscevano nemmeno.»
L: «Ricordo che la mattina in cui hanno fatto i funerali eravamo a scuola. Quando è passata la processione ci siamo affacciati alla finestra e abbiamo visto passare tutte quelle persone che piangevano. C’era una fila che non finiva più.»
S: «Ne ho visti di funerali in quegli anni ma tutta quella gente insieme l’avevo vista solo per le feste di paese.»
L: «Ora in quella casa ci abita la figlia di Jolanda che si è sposata a non mi ricordo chi…»
M: «Ma non ho capito, facevi anche tu il pane in casa o no?»
L: «Sì, non sempre, ma lo facevo. Aiutavo mia madre in tutti i mestieri mentre lei lavorava sempre alla macchina da cucire. Pulivo la casa, anche se non mi piaceva molto, e facevo da mangiare. Mi sembra che qui non vi siete mai lamentati del mangiare o no?»
S: «Chiedile di quando ha bruciato la pentola.» dice mio padre mentre Lucia inizia a ridere.
M: «Cioè?»
S: «All’epoca non c’erano le cucine come oggi. Facevi da mangiare nel camino. C’era un treppiedi in ferro battuto e sopra ci mettevi una pentola di terracotta o di rame.»
L: «Io avevo messo a cuocere due patate con un po’ di pasta. Ho messo la pentola sopra il camino e dovevi mescolare sempre se no si attaccava tutto. In quel momento è passata una mia amica e mi ha chiamata, per sapere cosa facevo da mangiare. Sono stata lì davanti per poco, pochissimo tempo. Solo che la pasta si è attaccata e la pentola si è bruciacchiata un po’. Così mia madre ha preso la pentola e tutto e l’ha buttata in mezzo alla strada, ma non mi ha preso.»
Mentre Lucia riprende a ridere, le chiedo cos’è successo dopo.
L: «Niente, ho rifatto da mangiare. E da quel giorno però sono sempre stata attenta.»
M: «E ti ha detto qualcosa quando ha buttato la pentola?»
L: «No, no. I miei non parlavano molto; le è bastato buttare la pentola in strada per farmi capire che avevo sbagliato e che non dovevo rifarlo più.»
S: «Mica è come oggi. All’epoca, anche mia madre o mio nonno, se dicevano una cosa, erano guai…»
M: «Quindi, per capire, se la mamma sbaglia a cucinare qualcosa, dobbiamo buttare la pentola di sotto?»
S: «Forse è meglio se di sotto buttiamo direttamente lei.»
L: «Mica mò vi voglio. Stasera vi metto un po’ di veleno nel mangiare e poi vediamo chi è che butta a chi.»
© Marco Annicchiarico
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