Mio padre Sebastiano è morto l'11 novembre 2016 per le conseguenze di un adenocarcinoma. A Lucia, mia madre, è stato diagnosticato nel 2014 il morbo di Alzheimer. Quando si è ammalato, mio padre ha iniziato a raccontarmi la sua vita mettendo, così, ordine anche tra le testimonianze confuse di mia madre. Lei ha disimparato cose elementari come vestirsi in modo corretto, lavarsi e mettere le cose in ordine. Io sono il suo caregiver. Come molti altri malati nelle sue condizioni, è spesso irascibile e aggressiva perché non ha più gli strumenti per decifrare cosa le succede intorno. In Caregiver Whisper racconto piccole storie di vita nella malattia, tra le mille difficoltà con cui mi sono dovuto misurare, il più delle volte da solo, e l'ironia che ci ha aiutato a non impazzire nei momenti più difficili. Questa rubrica è dedicata ai miei genitori, alle persone che mi sono state accanto in questo percorso e a chi si trova, come me, a guardare in faccia la realtà, cercando di elaborare un lutto che lutto ancora non è.
23 ottobre 2016
mattina
Mia madre sta cercando il grembiule ma non si trova. Ieri sera, quando aiutavo mio padre ad andare in bagno, deve averlo nascosto da qualche parte in camera e nessuno dei due se n’è accorto. Così, dopo una ricerca sommaria, mia madre perde di nuovo le staffe. Colpa sua, ripete, perché ha lasciato tutto a portata di mano quando lo sa bene che ci sono quelle puttane che entrano ed escono da casa portando via tutto quello che possono. Ma, promette, adesso non capiterà più.
L: «Ho sbagliato io e vaffanculo. Oh, ma ti faccio vedere se capita ancora. Per la Madonna, sono arrivata a questa età e che cazzo, non sono mica rimbambita.»
La voce di mia madre, tremante, svela tutta l’ingiustizia che pensa di avere subito.
S: «Lucia, guarda che stai facendo tutto tu.»
L: «E certo, come no.»
S: «Ieri sera, dopo cena, avevi in mano il grembiule e te lo sei portato di là: dove l’hai messo?»
M: «Lucì, hai già guardato nel cassetto?»
S: «Vergognati.»
L: «No, non mi vergogno.»
S: «Vergognati invece per tutta la gente che ti sente.»
L: «Non mi vergogno perché è la verità.»
S: «Ma che cazzo vuoi?», chiede mio padre chiudendo la frase con una bestemmia.
M: «Papà, lascia perdere, ti prego, lascia perdere.»
L: «Da te non voglio proprio niente.»
S: «E allora vaffanculo. Ma è mai possibile?»
M: «È possibile e come, lo sai papà, lascia perdere, te l’ho già detto, che se no è peggio e lo sai bene.»
L: «Così cosa fai? Dai, faccio così e cosa fai? Facite chello che cazz vulite vuje e io sono sempre messa da parte, sempre.»
E mentre mio padre alterna dei laconici «Oi mamma» a delle sonore bestemmie, porto fuori mia madre a fare un giro in metropolitana. Per dirla alla Concato, anche questa sarà una domenica bestiale.
pomeriggio
Sono circa le tre del pomeriggio e sono fermo davanti a un’edicola insieme a mia madre. Lucia ammira le riviste appoggiate una in fila all’altra e poi dice «Guarda che bella questa». In copertina c’è il volto di Albano e un titolo che parla (ancora) del triangolo tra lui, Romina Power e la Lecciso. La compro, già sapendo che sfoglierà la rivista distrattamente, guardando le foto e leggendo a voce alta solo i titoli in grassetto, prima di abbandonarla sul mobile in cucina. Riprendiamo il nostro giro in direzione del Parco Trotter. L’idea è di farla distrarre un po’ per lasciare rifiatare Sebastiano, da solo a casa, vittima dell’ennesima sfuriata giornaliera. Oggi a mio padre tocca “recitare” la parte di mio nonno.
Nei fine settimana è tutto sempre piuttosto complicato; la badante, che aiuta solo part-time, non c’è e gli unici che passano a salutare i miei genitori sono mia zia Lina e mio cugino Eugenio.
Lungo il tragitto mia madre si lamenta perché prima, con suo padre, si poteva parlare liberamente mentre in questo periodo non si riesce più, visto che se la prende per ogni cosa che gli si dice.
«A volte faccio finta di niente perché, cosa vuoi, ha la sua età. Ma io pure sto invecchiando, non è che son sempre giovane e non posso stargli dietro come un tempo. Ma perché è tutto chiuso?»
«È che oggi è domenica.»
Ma lei, come se nemmeno mi avesse fatto la domanda, riprende. Ora, la sua voce è quella che conosco, calma; ragiona con lucidità e tranquillità. Nulla a che vedere con la Lucia che questa mattina ci ha svegliato alle sei e mezza.
«Insomma, ci sono giorni buoni e giorni cattivi – dice –, cosa devi fare, non è una novità. Lo dovrebbe sapere anche lui.»
Io pronuncio poche frasi di circostanza, cercando di non contraddirla. Le lascio credere che quello che in questo momento è nella sua testa sia reale. Mettere tutto in discussione creerebbe solo un nuovo contrasto.
Continua dicendo che suo padre è cambiato molto in questi ultimi mesi e lei non lo riconosce più. Mi verrebbe da dire “che strano, eh?”, ma mi limito a pensarlo.
«Da quando ha lasciato la mamma per mettersi con quella zoccola, è diventato un’altra persona.»
Il suo discorso segue una logica ineccepibile: se un passante dovesse ascoltare quello che dice, non troverebbe nulla di sbagliato e, anzi, le darebbe anche ragione.
Ma il tipo che ci passa accanto, anziché ascoltare, inizia a starnutire in modo rumoroso, una, due, tre volte.
Così mia madre cambia espressione, si gira e, invece di dire “salute” (come farei io), gli urla dietro: «Uè, guarda che non sei mica a casa tua.»
«Scusi?», chiede basito lo sconosciuto.
«Scusi un corno, cafone.»
Io chiedo scusa e allontano mia madre prendendola sottobraccio, dicendo di non mettersi a discutere per strada che non si sa mai chi si può incontrare.
«Ma l’hai sentito a quello?»
«Ma che te ne frega, mica ti ha fatto qualcosa!»
«Ma tu in mezzo alla strada ti metti a fare così a quel modo?»
«Se mi scappa, sì.»
«Vabbè, ma che lo chiedo a fare a te, sei cafone come lui.»
sera
Da almeno quarant’anni qualcuno ha abbandonato un passeggino giù in cantina. In tutto questo tempo ci sono state mani che l’hanno spostato da una parte all’altra negli spazi comuni ma, a oggi, nessuna di loro ha mai trovato il coraggio (o, forse, la voglia) di buttarlo via. Adesso è stato appoggiato in una rientranza del muro, dove non dà fastidio a chi passa. A me capita di notarlo ogni volta che scendo per cambiare l’orario di accensione della luce delle scale. Quando lo vedo appoggiato al muro, mi viene in mente uno di quei film di paura che ho visto quando ero bambino, uno di quelli che ha come protagonista una bambola di ceramica su una nave che scompare nel triangolo delle Bermuda. Altre volte, invece, mi fa pensare a qualcosa tipo Kingdom Hospital, la serie televisiva creata da Stephen King e ispirata all’altra serie omonima girata da Lars Von Trier.
Anche se è rotto e, quindi, del tutto inutilizzabile, è come se qualcuno l’avesse messo lì di proposito, per non staccarsene, quasi fosse un pezzo da collezione. Così, nonostante in tutti questi anni abbiano pulito molte volte gli spazi condominiali, buttando sedie rotte, un carrello del supermercato, degli stendibiancheria e dei tavolini, lui è rimasto sempre lì.
In quest’ultimo anno mia madre ha smesso di scendere da sola giù in cantina perché a volte le chiavi non funzionano; si vede, dice sempre a mio padre, che mi hai dato quelle sbagliate. Lui finge di cambiarle e poi gliele restituisce, sempre le stesse, dicendo «Prova un po’ a usare queste, adesso dovrebbero andare bene.»
Lucia, ogni volta che passa davanti a questo passeggino, lo guarda e dice che è bello.
«Peccato che sia rotto.»
Quando le chiedo, scherzando, se lo vuole portare su, risponde di no.
«E che me ne faccio? Mica ho la pancia io! Adesso non mi serve ma magari, un giorno, chissà…»
© Marco Annicchiarico
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