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Caregiver Whisper 50

Mio padre Sebastiano è morto l'11 novembre 2016 per le conseguenze di un adenocarcinoma. A Lucia, mia madre, è stato diagnosticato nel 2014 il morbo di Alzheimer. Quando si è ammalato, mio padre ha iniziato a raccontarmi la sua vita mettendo, così, ordine anche tra le testimonianze confuse di mia madre. Lei ha disimparato cose elementari come vestirsi in modo corretto, lavarsi e mettere le cose in ordine. Io sono il suo caregiver. Come molti altri malati nelle sue condizioni, è spesso irascibile e aggressiva perché non ha più gli strumenti per decifrare cosa le succede intorno. In Caregiver Whisper racconto piccole storie di vita nella malattia, tra le mille difficoltà con cui mi sono dovuto misurare, il più delle volte da solo, e l'ironia che ci ha aiutato a non impazzire nei momenti più difficili. Questa rubrica è dedicata ai miei genitori, alle persone che mi sono state accanto in questo percorso e a chi si trova, come me, a guardare in faccia la realtà, cercando di elaborare un lutto che lutto ancora non è.


26 novembre 2018

In questi due anni di convivenza forzata e solitaria, mia madre e io abbiamo attraversato momenti davvero difficili. Spesso, quando ci penso, non posso che ritenermi fortunato se siamo riusciti ad arrivare indenni (almeno all’apparenza) fino a questo punto. Ci sono stati momenti di (altrettanta apparente) tranquillità dove bastava far ridere Lucia per tenerla buona e altri in cui ho pensato che anch’io stavo per impazzire. Ogni giorno si trattava di trovare un nuovo (precario) equilibrio, aspettando la fine di un’altra giornata piena di deliri e di allucinazioni.

In questi ultimi undici giorni, come ho ormai imparato grazie a questa continua altalena che è l’Alzheimer, Lucia è tornata in un periodo buio e sta attraversando un’altra delle sue crisi violente, forse la peggiore. È come se si stesse chiudendo in sé stessa, mostrando una rabbia e una cattiveria che non le sono mai appartenute e che da mia madre non ti aspetteresti mai. Il problema, questa volta, è che ha manifestato la sua rabbia anche fisicamente. Era già successo, per due volte, con il lancio di una sedia nei miei confronti. Ma erano stati due episodi isolati e i suoi occhi, seppur spenti, manifestavano solo tanta paura. In questi giorni, i suoi occhi sono diversi, il suo stesso volto è diverso.

Questa mattina, prima Giorgia e poi io, abbiamo provato in tutti i modi a tenerla quieta. Assecondare, spostare l’attenzione, cercare di capire qual è la sua realtà e provare a rassicurarla, dare valore alle sue opinioni, cercare il contatto fisico, tenerla occupata con qualche attività piacevole, usare un tono di voce basso e dolce, parole chiare e lente, frasi brevi, semplici e affermative accompagnate da gesti che mostrino calma, distrarla in qualche modo, cercare di entrare in empatia, farle ascoltare una delle sue canzoni preferite, dimostrarle affetto e vicinanza. Poi, visto che la sua reazione era sempre la stessa, rabbiosa e violenta, nel pomeriggio ho adottato una tecnica che mio padre utilizzava con mia madre nei suoi ultimi mesi di vita (i lettori con un malato di demenza in casa sono pregati di non ripetere questo esperimento): l’ho guardata dritta negli occhi, ho sbattuto con forza una porta e le ho urlato in faccia che aveva rotto i coglioni e che doveva finirla di rompere le palle. Lei mi ha fissato in silenzio ed è rimasta ferma davanti alla porta di casa, chiusa a chiave dall’interno. Sono andato in cucina, ho bevuto un caffè e ho aspettato che mi raggiungesse, ma lei è rimasta ferma davanti a quella porta per altri dieci minuti. Così sono andato in camera mia pieno di sensi di colpa, pensando che probabilmente avevo solo peggiorato la situazione.

È stato in quel momento che lei è entrata ed è venuta a sedersi accanto a me.
L: «Quindi stiamo qua?», ha chiesto con un tono di voce tornato tranquillo, quasi arrendevole.
M: «Solo per oggi. Tua madre torna domani. Viene domani mattina con Eugenio.»
A ogni mia frase seguono almeno dieci secondi di silenzio, per darle modo di rispondere. Se non dice nulla, aggiungo un pezzo in più, cercando di “agganciarla” in qualche modo.
M: «È andata a Viareggio. Sono lì per trovare Antonio Zì Masto
[Lui, come mia madre, ha avuto l’Alzheimer ma da qualche anno ha finito di soffrire. I suoi deliri ruotavano attorno ai tedeschi, alle deportazioni e al cercare di nascondersi o scappare. Le ultime telefonate in cui ho parlato con sua figlia Lina, la madre della mia amica Sara, sono state un piangere continuo: «Io so cosa stai passando», mi disse. È anche per questo che spesso evito di sentirla]
M: «Sai Lucì, è ricoverato in ospedale. Zia Silvina ha chiesto a tua madre se andava da lei. Ora però sta bene. Deve restare in ospedale per accertamenti. Non hai freddo?»
L: «Chi, tu?»
M: «Io no, tu? Domattina torna tua mamma. Passano a prenderci con la macchina. Lei e Eugenio. Ci prendono e andiamo a casa. Portiamo anche la tua roba. Siamo arrivati solo ieri sera.»
L: «Non mi viene in mente.»
M: «Fa niente, non ti preoccupare. Ieri abbiamo mangiato da Linella. Poi siamo tornati qua. Hai visto anche a Enrico Musiani. Poi abbiamo mangiato il minestrone. E poi siamo andati a dormire.»
L: «Insieme?»
M: «Eh, ti piacerebbe», dico per farla ridere ma lei non ride più. «Cos’è questa faccina qua? Che hai Lucì?»
L: «Chi sa. Che nun ce la fazz.»
M: «A fare cosa?»
L: «Adesso devo… Non lo so. Non è vero sicuro per me. Poi le si riempiono gli occhi di lacrime.»
M: «Ci vestiamo, così stai più calda?»
L: «Spiegami che succede» mi dice all’improvviso, con lo sguardo basso e un tono dimesso.

Madre mia, ho pensato, e che ti devo dire? Che vederti così è una sofferenza che non riesco a raccontare a nessuno? Che non esiste modo alcuno per farti stare meglio e non ho la più pallida idea di cosa fare per poterti donare un po’ di quiete? Che a volte ancora mi chiedo perché tutto questo sia dovuto capitare proprio a te che sei sempre stata buona e generosa con tutti, anche quando non lo meritavano? Che quando parlo di te alla psicologa è come se guardassi di spalle un’altra persona che racconta i suoi problemi di convivenza con la propria compagna a cui non vuole più bene ma poi basta solo sentire pronunciare il tuo nome che tutto si spezza e diventa un cadere continuo? Che a volte mi è capitato di pensare che forse preferirei saperti morta piuttosto che in tutto questo dolore che ti attraversa e che non so placare in nessun modo se non per pochi minuti?

Così ho guardato “L’indomabile piumino”, il disegno che Zerocalcare ha realizzato nel mese di novembre per il calendario di Internazionale e le ho sorriso prima di inventare una storia inverosimile, resuscitando i nostri morti fino alla terza generazione, sistemandone qualcuno al lavoro, qualcun altro in vacanza, alcuni in campagna a zappare la terra e altri ancora fuori dal paese. Lei mi ha guardato con gli occhi tristi e scuri e ha detto con un filo di voce incerta: «Non so. Va bene. Credo quello che dici tu e non a quello che ho nella testa.»

L’ho guardata e non sono riuscito ad abbracciarla perché sarei scoppiato a piangere. Le ho pizzicato la guancia dopo un minuto di reciproco silenzio e poi lei ha aggiunto frasi smozzicate e senza senso, dove risaltava il fatto che deve capire qualcosa, se sbaglia qualcosa, che ha lasciato e visto questa, e ha detto come mai pensava tutto. Poi ha singhiozzato.
L: «Non sono stanca.»
M: «Non sei stanca! Ti senti forse un po’ confusa? Hai forse mal di testa?»
L: «Ho tutto.»

Io non me lo riesco proprio a immaginare come si possa sentire mia madre, anche perché non so immaginare nemmeno come mi sento io. Non me lo chiedo, non mi pongo il problema. La guardo e l’unica cosa certa e triste è che, anche se non ha la minima idea di chi io sia, lei si fida di me che invento sempre storie diverse, in base al momento e al suo umore.

Così le ho messo uno dei miei maglioni più grandi per farla stare al caldo e siamo tornati in cucina dove, per circa un’ora è rimasta in piedi e non ha fatto altro che parlare in un linguaggio vulcaniano che ignoro. Poi, prima che mi mettessi a preparare la cena, ha sorriso di nuovo. E io con lei.

© Marco Annicchiarico

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Una replica a “Caregiver Whisper 50”

  1. Grazie, la forza fisica e psicologica ti sono di grande aiuto.
    Ti ammiro perché continui in questo difficilissimo percorso, invece io sto decidendo insieme a mia mamma, la vera caregiver, di cercare una sistemazione in un ricovero per il babbo. Scelta difficile.

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