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Caregiver Whisper 72

Mio padre Sebastiano è morto l'11 novembre 2016 per le conseguenze di un adenocarcinoma. A Lucia, mia madre, è stato diagnosticato nel 2014 il morbo di Alzheimer. Quando si è ammalato, mio padre ha iniziato a raccontarmi la sua vita mettendo, così, ordine anche tra le testimonianze confuse di mia madre. Lei ha disimparato cose elementari come vestirsi in modo corretto, lavarsi e mettere le cose in ordine. Io sono il suo caregiver. Come molti altri malati nelle sue condizioni, è spesso irascibile e aggressiva perché non ha più gli strumenti per decifrare cosa le succede intorno. In Caregiver Whisper racconto piccole storie di vita nella malattia, tra le mille difficoltà con cui mi sono dovuto misurare, il più delle volte da solo, e l'ironia che ci ha aiutato a non impazzire nei momenti più difficili. Questa rubrica è dedicata ai miei genitori, alle persone che mi sono state accanto in questo percorso e a chi si trova, come me, a guardare in faccia la realtà, cercando di elaborare un lutto che lutto ancora non è.


19 giugno 2016

Sono le otto e mezza e mia madre sta cercando di capire dove sia finito suo padre. Lei ricorda bene di averlo visto il giorno prima ma adesso non riesce più a trovarlo. Quando, qualche giorno fa, mi ha raccontato questa storia, poco dopo essersi svegliata, le ho spiegato che si trattava solo di un sogno e lei si è tranquillizzata. Oggi, invece, crede che sia successo davvero. Lo sa perché, insieme a suo padre, c’erano anche quelle altre tre persone che vivono nel nostro stesso appartamento: «Possibile che sono tutti spariti e qui siete rimasti solo voi due?», chiede. In questo momento sta alzando la voce perché le nostre risposte non la convincono e, anzi, inizia a sospettare che io e quell’altra (mio padre, che non riconosce) l’abbiamo fatto fuori. Per questo, ha minacciato di chiamare i Carabinieri se non ci muoviamo a dirle tutta la verità.

M: «Ma guarda che stiamo già dicendo la verità.»
Mio padre, intanto, rientra in camera e inizia a piangere angosciato, gridando a sua volta: «Oi mamma, che guaio grosso, che guaio grosso!»
L: «Questa domanda non l’ho fatta solo adesso, ce la facetti pure all’inizio.»
M: «Ma’, è che la risposta è sempre quella: in questa casa ci siamo solo io e Sebastiano, cerco di spiegarle con un tono calmo e rassicurante.»
L: «Ma se c’erano anche mia madre e mia suocera accanto a papà, che cazzo stai dicendo?»
M: «Ma non è che l’hai sognato?», chiedo cercando (invano) di farla rinsavire. «Qui c’è solo Sebastiano, non c’è nessun altro perché sono morti tutti vent’anni fa.»
Ma mia madre non mi ascolta nemmeno, visto che è concentrata sulle lamentazioni di mio padre: «Ma che guaio hai passato tu, me lo vuoi dire? Che guaio hai passato?»
M: «È che ti sta dicendo la verità e tu non gli credi.»
L: «Statti zitto tu», mi dice in modo brusco. Poi riprende a rivolgersi a mio padre: «Faccio una domanda e tu ti arrabbi, spiegami perché? Cos’hai da nascondere?»
Io, intanto, capisco che è inutile parlare perché tanto mia madre non ci ascolterà finché non le diremo quello che vuole sentirsi dire.

L: «Poi si mette a chiange. Che chiangi, che chiangi? Io una domanda ti ho fatto. Non ti ho mica buttato nu sasso addosso, scusa. Se non la faccio a te la domanda, che eravamo noi due, a chi la devo fare?»
Mia madre, adesso, inizia a raccontare di nuovo quello che per noi è un semplice sogno ma che lei crede sia successo per davvero.
L: «Ti ricordi che noi siamo arrivate e lui era seduto in basso? Questo mi è rimasto in testa. Che l’ho visto seduto in basso ed era un po’ arrabbiato. Che noi siamo andati a un’altra parte, più in alto, io e te, e lui è rimasto lì. E così ho chiesto: “senti ti ricordi”? Che aggio fatto? Mica ho detto che l’hai ammazzato tu o hai detto questo o hai fatto quest’altro. Ma che cazzo, non posso fare una domanda? Ma che cavoli. Anche per farmi capire. Puoi dire: senti tu forse hai capito male, ti sei dimenticata. Perché facite tanti miracoli? Almeno ditemi qualche parola io mica dico che site state vuje ad ammazzarli. Ho detto che ti ricordi che è stata l’ultima volta che siamo andati e lui poverino era… seduto. In basso. Neanche in alto sulla sedia. Teneva ‘na cosa più bassa.»
M: «Non è che l’hai sognato?», ci riprovo.
L: «Ti ho detto di no.»
M: «Magari è stato solo un sogno.»
L: «Senti, fammi finire di parlare. Lui è rimasto giù perché doveva fare quello che doveva fare e io e lei siamo andati più su e basta. Io questo mi ricordo e basta. Una cosa che mi ricordo io mica ho detto l’avete ammazzato voi. Ma che caspita, non posso fare una domanda? Anche solo per liberarmi la testa, ecco.»

Credo che mia madre non l’avrebbe potuto dire in modo migliore. Forse, in questi momenti di delirio, il malato di Alzheimer cerca davvero solo questo: di riuscire a liberare la propria testa. Dalle domande, da quello che non torna, da tutto quello che non riesce a capire, dalle cose che appaiono diverse, dalle parole che continuano a ripetersi e da quelle che sfuggono. Mia madre vuole solo liberarsi la testa e né io né mio padre sappiamo cosa fare per poterla aiutare a essere di nuovo libera.

L: «Che ci vuole a dire: “ecco, senti Lucia, sì è vero”? Stava seduto e aspettava lu mierico, mi sembra perché lo dovevano fare medicare, non lo so… parlare col dottore… e lui non stava seduto sulla sedia stava seduto su una cosa più bassa e noi due – dice rivolta a me –, io e lei – dice indicando mio padre –, siamo andati a un altro, un altro più in alto. Per visitarsi lei. E poi basta, non mi ricordo più niente. Però mi ricordo che stavamo là.»
M: «Ma non è che se non ti ricordi più nulla è perché l’hai sognato e qui si è interrotto il sogno?», riprovo per l’ennesima volta. Nella mia ingenuità, infatti, penso che se ha funzionato una volta, potrebbe funzionare di nuovo.
L: «No, no e ancora no.»
M: «Magari è così e, visto che in questi giorni non stai prendendo le pastiglie, adesso pensi che sia una cosa successa realmente.»
L: «No, era vero.»
M: «Dai, allora ti dico come stanno le cose: sono usciti tutti quanti di casa e torneranno, ma non sappiamo dirti quando.»
L: «C’era il signore lì vicino a lui che aspettavano stu dottore che doveva scendere e basta. Questo me lo ricordo bene. Allora noi l’abbiamo salutato perché lei doveva andare a fare la visita da un’altra parte.»
S: «Ma che stai dicenno
L: «Eh no, statte zitta! Non dire che sono cretina perché io me la ricordo bene questa cosa qua. Ma io non lo so, facite tanti cazz di miracoli cumm se l’avisseva ammazzat vuje. Una domanda non si può fare? Una, per liberarsi. Anzi, gliel’avevo fatta un’altra volta a lei se si ricorda.»
M: «Non ti accorgi che è tuo marito, è Sebastiano, e non una lei?»
L: «Ma io non parlo né del marito né di altri, parlo proprio di lei. C’era solo io e lei. E lui che ci aspettava lì. Ma non è che l’avete ammazzato per davvero e non me lo volete dire? Mica vi faccio niente, ma almeno adesso ditemelo così lo so e non ci penso più.»

Allora ho detto che suo padre si trovava fuori, ho finto di chiamarlo al cellulare e ho digitato il numero di Sebastiano. Quando il telefono appoggiato sul mobile in cucina ha iniziato a suonare ho detto, fingendomi dispiaciuto: «Mannaggia, Maliotto ha lasciato il telefono qui a casa.»
L: «E non gli puoi lasciare un messaggio?»
M: «Cosa gli devo dire?»
L: «Di chiamarci quando può, che non si è fatto più sentire…»
Poi, una volta “lasciato” il messaggio, mia madre si è calmata: «Non potevi farlo prima?», ha chiesto.
M: «Scusa, è che non ci ho proprio pensato.»
Poi è tornata in camera e ha iniziato a sistemare le sue cose, spostandole dal comodino all’armadio e viceversa. Mio padre, seduto accanto a me con la testa tra le mani, si chiede se questa è vita. Io non rispondo nulla e penso che, adesso, è questa la vita che ci tocca vivere. E l’unico modo per non impazzire anche noi è di viverla un giorno alla volta.

© Marco Annicchiarico

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