Mio padre Sebastiano è morto l'11 novembre 2016 per le conseguenze di un adenocarcinoma. A Lucia, mia madre, è stato diagnosticato nel 2014 il morbo di Alzheimer. Quando si è ammalato, mio padre ha iniziato a raccontarmi la sua vita mettendo, così, ordine anche tra le testimonianze confuse di mia madre. Lei ha disimparato cose elementari come vestirsi in modo corretto, lavarsi e mettere le cose in ordine. Io sono il suo caregiver. Come molti altri malati nelle sue condizioni, è spesso irascibile e aggressiva perché non ha più gli strumenti per decifrare cosa le succede intorno. In Caregiver Whisper racconto piccole storie di vita nella malattia, tra le mille difficoltà con cui mi sono dovuto misurare, il più delle volte da solo, e l'ironia che ci ha aiutato a non impazzire nei momenti più difficili. Questa rubrica è dedicata ai miei genitori, alle persone che mi sono state accanto in questo percorso e a chi si trova, come me, a guardare in faccia la realtà, cercando di elaborare un lutto che lutto ancora non è.
3 febbraio 2019
Tre giorni fa Lucia è tornata a casa. Se quando è entrata in struttura era messa bene – per essere una nella sua situazione -, ora che ne è uscita è piuttosto malconcia. È molto debole, cammina a fatica, mangia pochissimo, beve di meno, non ha più il controllo della vescica e ha una brutta tosse. Quando ho fatto presente le mie perplessità sulla decisione di mandarla a casa in queste condizioni, dopo la febbre e un’infezione alle vie urinarie, mi è stato detto che “è in ripresa”, che i valori sono buoni e non c’è nulla di cui preoccuparsi. Anche far notare che un malato di demenza è un anziano fragile e recupera molto lentamente e con parecchia difficoltà non è servito a molto. La geriatra che gestisce il “villaggio” ha fatto spallucce: “Sua madre è in ripresa, non ha né la febbre né l’infezione, quindi qual è il problema?” che, tradotto, vuol dire che è un problema a carico del caregiver. Come sempre.
Inutile dire che la cosa mi ha agitato, e non poco.
Così mi sono chiesto per quale motivo mi abbiano fatto fare per due volte il test di Burden, i cui risultati indicano che ho uno stress grave, se poi dimettono mia madre senza aspettare che si riprenda completamente, mettendomi dunque in una situazione in cui il mio stress non può certo migliorare.
G: «Ma che ti hanno detto dopo che hai fatto il secondo test?», ha chiesto la mia amica Giovanna.
M: «Grazie.»
G: «In che senso grazie?»
M: «Grazie perché gliel’ho riconsegnato.»
G: «Ho capito, ma non ti dicono nulla? Cioè, qual è lo scopo di questi test?»
M: «Fare statistica.»
G: «In che senso?»
M: «Nel senso che noi caregiver siamo pura statistica.»
G: «Mavaffanculo. Non dico a te. Mi chiedo allora che senso ha?»
Il senso, a dire il vero, non credo ci sia. Anche per questo, è stata lei a suggerirmi di scrivere proprio di questa situazione.
All’inizio, quando hanno ricoverato mia madre, proprio come fece lo scorso anno il Dirigente Sanitario di una delle tre strutture che a Milano si occupa di riabilitazione per i malati di Alzheimer, hanno promesso mari e monti per il malato e per il caregiver: fisioterapia, ginnastica residenziale, incontri, colloqui, attività educative, terapia e non ricordo cos’altro ancora. Sembra sempre che ti cambieranno la vita ma poi, all’atto pratico, non cambia mai nulla. A un certo punto mi sono anche fatto andare bene la situazione, perché mia madre in quel “villaggio” si è trovata a meraviglia, ha socializzato ed è diventata un po’ più quieta di quanto non fosse a casa sua.
Poi, però, mi ricordo che Lucia è entrata per modificare una terapia inefficace tra le mura domestiche (ricordo sempre che, in presenza della terapista occupazionale, mia madre ha preso un coltello e si è messa a seguire la badante per colpirla) e per fare riabilitazione, così da migliorare il suo modo di camminare. La terapia non è stata cambiata e, quando è tornata a casa, mia madre ci ha messo tre ore per articolare una frase che suonava più o meno: «Allora adesso io me ne vado a casa mia». Quindi, mi sono detto, mi tocca pure ringraziarli se me l’hanno rimandata a casa in queste condizioni, perché così non ha la forza di alzarsi per andare a cercare di aprire la porta. La riabilitazione, ho letto sulle dimissioni, non è stata fatta perché mia madre non è stata collaborativa. Degli incontri a cui dovevano partecipare i familiari, nemmeno l’ombra. Questa cosa mi stizzisce. E continua a tormentarmi il pensiero che il malato di Alzheimer è considerato un peso per la società mentre noi caregiver siamo pura statistica.
In Italia non esiste un dato ufficiale su quanti siano i caregiver familiari, visto che viviamo tutti nell’ombra e spesso alcuni di noi nascondono la malattia dei nostri cari per vergogna. Però, secondo un’indagine Istat di sei anni fa (quindi stiamo parlando di un dato sottostimato), i caregiver sono più di 15 milioni e corrispondono a circa un quarto della popolazione. Un quarto della popolazione che non ha diritti ma solo doveri.
Il 66% di questi caregiver ha dovuto abbandonare il lavoro e si dedica a tempo pieno alla cura della persona disabile, arrivando a toccare le 18 ore al giorno tra assistenza diretta e sorveglianza passiva.
Esistono anche percentuali che indicano chi si ammala nella cura del malato, chi si toglie la vita esausto, chi stremato uccide il proprio caro. Siamo un calcolo matematico e al Ministero della Sanità e ai vari parlamentari dei vari schieramenti (che in tutti questi anni ancora non sono stati in grado di darci dignità e diritti) non interessa nulla della nostra situazione. Per capirlo basta paragonare i servizi offerti con quelli di cui realmente abbiamo bisogno.
Nel mondo i malati di demenza sono 50 milioni (tanti quanti sono gli abitanti della Spagna o del Sud Corea) e nel 2050 saranno il triplo. Le ultime statistiche del World Alzheimer Report dicono che ogni tre secondi c’è un nuovo caso di demenza, che nel 2018 si è speso un trilione di dollari e solo fra dodici anni il costo totale per la demenza, stimato a livello mondiale, sarà di 2 mila miliardi di dollari. Mi verrebbe da dire “fortuna che ci pensa il governo italiano ad abbassare un po’ la media”.
Martin Knapp, Professore di politica sociale presso la London School of Economics, riconosce che il ruolo dei familiari è molto importante e sostiene che sia necessario dare loro assistenza con informazioni e consigli. Ha organizzato un programma di otto settimane di terapia psicologica individuale per i caregiver. Durante queste settimane viene spiegato cos’è la demenza, come gestire lo stress, come gestire i comportamenti difficili del malato e come richiedere supporti. Il programma ha dimostrato di essere utile per ridurre l’ansia e la depressione dei caregiver. Così, mentre all’estero i caregiver hanno tutele, supporti di vacanza assistenziali, benefici economici e contributi previdenziali, in Italia restiamo nell’ombra e cerchiamo di capire in che statistiche saremo inseriti.
Intanto, dopo le dimissioni, Lucia è rimasta quasi sempre a letto, tranne oggi che ha iniziato anche a camminare, ovviamente con il mio aiuto. A pranzo ha mangiato poco o nulla perché le faceva male la ciacca, ma verso sera mia zia Lina è riuscita a darle qualcosa di più consistente. Ieri, invece, cercando di farla mangiare, mi sono seduto accanto al suo letto e le ho fatto ascoltare le canzoni di Enrico Musiani.
M: «Dai, mangia qualcosa.»
L: «Va bene.»
M: «Ecco, apri la bocca.»
L: «No, non ho fame.»
M: «Non vuoi nulla?»
L: «No.»
M: «Devi mangiare qualcosa.»
L: «Ma adesso non ho fame. Voglio solo che tutto finisce.»
La guardo, resto zitto e l’accarezzo sulla guancia. Faccio fatica ad accettare che per il mondo fuori da questa casa Lucia è solo un numero in un’ennesima statistica.
© Marco Annicchiarico
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Una replica a “Caregiver Whisper 57”
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