Si conclude con il post di oggi la narrazione ZONA ROSSA. Piccolo racconto del coronavirus di Paolo Steffan che, in questi giorni, presentiamo sul nostro blog il venerdì e sabato pomeriggio. In coda al post le altre puntate.

Un clochard
…..Ma che cazzo sta succedendo?
…..Sono tutti morti? Che notte desolante. Non mi è mai capitato. Chiuso, chiuso, chiuso. Tutte le serrande abbassate. Quei cretini di universitari non si sono più visti… E con loro se ne va la scia di spreco che si lasciavano dietro: ci rimediavo sempre un mezzo litro di birra abbandonato su un gradino da un coglione certificato “Dottore di Stocazzo”, e un mezzo toast o anche due schifati da una biondina ninfomane iscritta a Economia in lingua inglese, impegnata a farsi il figlio di qualche banchiere degenerato…
…..Ma stasera niente. Ho una cazzo di fame che mi mangerei un pilastro di questi palazzi color toporagno! Che diavolo è successo? Che poi a un derelitto come me non può sbattere di meno che sapere cosa accade nel mondo: se non fosse che questo cambiamento mette in crisi il mio sostentamento.
…..Questa gente spreca ogni giorno l’equivalente di una piccola spesa, l’equivalente del fabbisogno alimentare di un individuo normale, non corrotto dal lusso e dalla cupidigia che rode questi qui, a cui io faccio schifo – ma che dico – ribrezzo!
…..Dovunque siano questa notte, io auguro a loro e a questa civiltà – in cui anch’io sguazzavo e lucravo fino a farmi vomitare – sì, io gli auguro che venga un morbo, un morbo subdolo e venefico che se li mangi uno a uno con la stessa indifferenza con cui loro ammorbano il mondo!
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Una telefonista di call-center
…..Che vita. Lo sospiro senza clamore. Da due anni vivo di saltuari contratti a tempo che scadono di settimana in settimana. Commessa, aiuto-parrucchiera, ora telefonista. L’ultimo mi è scaduto la settimana scorsa e me l’hanno rinnovato con l’opzione di svolgere l’attività da casa.
…..In fondo a me non cambia molto questa situazione, anzi semmai mi migliora la qualità della vita, dato che anziché dentro una grande stanza di un capannone passo le mie ore davanti alla scrivania di casa, e se ho bisogno di inumidirmi la gola posso bermi un tè dignitoso anziché quella polverina dolciastra delle macchinette.
…..Il resto è invariato, davvero. Ogni giornata sembra la stessa giornata. Chiamo per proporre il prodotto che mi hanno assegnato di vendere e un terzo degli utenti raggiunti riattacca nei primi dieci secondi; un altro terzo, o poco meno, devo ammettere che ha la cura di ascoltarmi; poi ci sono gli altri, quelli arrabbiati con la vita: mi assalgono come fossi la loro peggiore nemica: “stronzetta, cogliona” quando mi va bene. Altre volte vanno sul pesante: “devi essere una puttana, va’ a farti stuprare” e altre frasette dolci. Le prime volte, quando ho cominciato questa specie di lavoro, tornavo a casa e vomitavo. No, non in senso metaforico: andavo in bagno e vomitavo, vomitavo tutto il poco che avevo mangiato malamente all’ora di pranzo, tra una telefonata e l’altra, e poi rimescolato con uno, due, dieci di quei tè dolciastri delle macchinette. Era una reazione del mio stomaco, incapace di digerire un nuovo insulto, un più crudele improperio. Poi mi ci sono abituata. E forse è peggio.
…..Abituarsi allo schifo è lo scandalo della normalità in questa società meschina. Tutto è infiorettato di belle promesse, di possibilità, di pubblicità… Ma dietro a questo velo, abbiamo costruito solo schifo, ed è in questo schifo che da due anni sguazzo, assieme a tanti altri, molti laureati in lingue, italiani ucraini rumeni cinesi.
…..Ora la mia pausa sta finendo, tolgo il filtro da un buon tè e torno al telefono. Devo tornare al mio lavoro, simile a quello della spugna: assorbire lo sporco che intorbida il mondo. Mica è la spugna a generarlo, eppure tocca a lei impregnarsene, qualcuno deve pur farlo. La rabbia e l’odio di mezza provincia finisce nel mio stomaco malato. Chissà se troverò mai modo di strizzarmi e vederlo colare fuori da questo mio corpo giovane e già stanco. Questo è il mio virus: mi aspetta una quarantena ben più lunga.
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Un ristoratore
…..Il mio ristorante è il più centrale e il più longevo di questa città. Fondato da mio padre nel 1923, compirà novantasette anni quest’estate. Da allora non è mai stato chiuso un giorno: fin dalle origini ci si è organizzati col turno, perché non esiste un giorno di chiusura al ristorante “All’aperto”. Sigh.
…..Perdoni se mi commuovo, ma tirare giù questa serranda sapendo che domani, dopodomani e per chissà quanto non la si rialzerà, no… Per me è come un lutto! Abbiamo altre due sedi oltre a questa, un totale di venticinque dipendenti e non so cosa dire. Il nostro ristorante è sempre stato aperto, capisce? Sempre. Si chiama “All’aperto” anche per questo. All’inizio il nome si riferiva al giardino interno, davvero il nostro fiore all’occhiello. Con il gelsomino ormai secolare a coprirlo; a settimane lo avremmo aperto, dopo la stagione invernale. Lo stavamo giusto in questi giorni mettendo in ordine e rimondando. Ma adesso che “All’aperto” è chiuso farlo non ha più senso. Rimandiamo a un tempo più clemente, più amico. Sigh.
…..Vede, le lacrime che non hanno freno… Io comunque mangerò qui, sì, scenderò ogni giorno – abito qui sopra, al secondo piano – per tenere viva la cucina. Passi tener chiuso l’ambiente, ma la cucina non si è mai fermata. Ho come paura che una maledizione possa prenderla, se si interrompe quasi un secolo di tradizione. Questi luoghi nei centri storici sono delicati, hanno un loro equilibrio: il mio ristorante ha resistito al fascismo, alla guerra, a tutto. Un mio zio è stato partigiano e, per un periodo, siamo riusciti a nasconderlo qui dentro, in quella che adesso è la dispensa e allora era uno stanzino in disuso. Sa, col tempo ci siamo ingranditi…
…..Siamo una famiglia imprenditoriale, ma di valori. Non mi preoccupano le perdite, in qualche modo faremo. Le provviste di breve durata, le ho già donate ieri sera stessa alla mensa della Caritas – ma non si sa se rimarrà aperta a lungo neppure quella… A farmi piangere è proprio questo chiuso, questo segnale crudele che ci arriva da un virus. Il mio ristorante è…
…..Ma chiedo scusa, sono solo un nostalgico. Ce la faremo, torneremo all’aperto, sotto il gelsomino antico! Perché io sono il signor “All’aperto” e non sarà un virus codardo a fermare il mio crogiolo! Me lo friggo, io, il coronavirus!
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Una monaca di clausura
…..Io l’ho scelta, questa clausura, questa grata metallica che mi separa dal mondo. Se la scegli non è una cosa brutta, che fa angoscia, come a voi là fuori, nel mondo.
…..So bene la fatica e le resistenze che ci sono dentro ogni uomo rispetto all’idea di stare rinchiuso. Ora che praticate tutti un po’ di clausura vi rendete conto di quanto la pratica sia ancora più ardua. Forse qualcuno capirà che non è vanità il mio sforzo ma un moto dettato da un’esigenza più profonda. Io cercavo di entrare in dialogo col Vero. E tutto ciò che opponeva resistenza, tutte le pulsioni che mi chiedevano di uscire di casa, di stare nel mondo, in questo mondo, erano soltanto i richiami della menzogna.
…..Mi ci sono voluti anni a capirlo, a essere pronta per questa scelta. Ma quando un desiderio ineffabile comincia a vibrarti dentro il petto, non è il corpo che deve volare fuori, ma l’anima che ci abita dentro. A pensarci adesso, sorrido di pietà per quella giovane insicura, impaurita che ero; mi accorgo infatti, ogni giorno di più, che non ho perso nulla lasciando ciò che avevo lì fuori, in quei bar, ipermercati, strade dove tutti soffrite oggi di non poter essere, avidi di ritornarli a ingorgare.
…..Se vi è così di disagio raccogliervi pacificamente in casa vostra, con le vostre cose, i vostri familiari, significa che forse non avete mai cercato, o quantomeno trovato, ciò di cui avete veramente bisogno. Se quelle stanze vi soffocano, se quei passatempi vi annoiano, allora è il momento di collocare nel giusto posto la vostra domanda: era davvero questa la mia vita? Lo so, è scandaloso chiederselo e può portarvi alla disperazione, all’inizio. Ma se non si passa per un filtro di dolore, non c’è cellula che possa continuare a pulsare: fare della vita una morte quotidiana non è un buon investimento.
…..Io sono fortunata di potervi dire tutto questo. Significa che l’ho trascorso, interiorizzato, cicatrizzato in questo corpo coperto di nero.
…..Ho capito in via definitiva, quel giorno che ho scelto la clausura, che ciascuno di noi non appartiene a sé stesso. La retorica dell’io, dell’appagamento, della realizzazione dell’individuo è un grande vizio, che come un virus muta fino a farsi convinzione dentro di noi, ammalarci il respiro e rendere un asfittico ansito quel puro fiato che il dono della vita ci chiede: un vizio-convinzione che oggi viene dal mercato, dal consumo, dall’industria pubblicitaria, che vi bombardano: non è metaforico, il bombardamento, ma una guerra reale foraggiata dal male con cui il bene è in dissidio fin dall’origine!
…..Vi sono segni che portano a ottundere il pensiero, altri a chiarirlo. Io ho scelto quel Segno che chiarisce. Consapevole che il Signore non è un dove, o un quando, eppure c’è un cammino in cui il cuore ti guida, prescindendo da un luogo e da un tempo concreti. Per questo non dovrebbe esserci scandalo alcuno a pensare di vivere al chiuso. O è meglio dietro a una vetrina di ninnoli che a una geometrica grata? Non sono una galeotta, io tutto questo l’ho scelto, in nome di quel Segno. Ma è impossibile dirlo pienamente a parole: “nostro intelletto si profonda tanto, / che dietro la memoria non può ire,” se vogliamo ripeterlo coi versi del Paradiso di Dante.
…..Ci posso provare, a pronunciare ciò che sento, ma parrà una frase fatta: qui dentro c’è comunque tutto il mondo, perché anch’io sono fatta di carne, nervi, ossa. Ma ho dato priorità all’anima. Per questo sento dentro il petto tutto ciò che di bello accade fuori, che in me gioisce; e tutto ciò che di terribile accade fuori, che in me dilania. Tutto questo alberga nella mia preghiera che scandisce il ritmo di ogni giornata, in eterno. È una normalità antica: perché per esserci “normalità” deve esserci una norma, dunque non è normale là fuori la vita disordinata che fate: adesso avete un’opportunità preziosa di osservarla dalla vostra temporanea cella e capire a fondo se quella lì fuori è davvero la vita che avevate scelto.
…..La libertà per essere tale dev’essere libertà nel cuore. Ogni libertà è nei limiti rigidi che la realtà ci impone, dunque ci scopriamo liberi se riusciamo a esserlo ora, quando siamo costretti tra quattro mura: lo sapevano bene i poeti. Lo sanno bene i santi.
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…..Ecco, cosa volete, è solo un po’ di voci raccolte in questo tempo, ve l’ho detto: sono soltanto un giornalaio. Ho collezionato cinque clienti in questa giornata; la zona rossa è spopolata e io tengo aperto quasi senza motivo. Forse solo perché la mia vita non ha senso, senza questo ritmo. Ho in tasca il foglio che mi consente ogni mattina e ogni sera di andare e venire da lavoro:
…..Il sottoscritto RUGGIERO MARIA PIOL, nato il 07/04/1944 a TREVISO, di professione EDICOLANTE consapevole delle conseguenze penali previste in caso di dichiarazioni mendaci a pubblico ufficiale (art. 495 c.p.)
DICHIARA SOTTO LA PROPRIA RESPONSABILITÀ
…..Di essere a conoscenza delle misure di contenimento del contagio di cui all’art. 1, comma 1, del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 9 marzo 2020 concernenti lo spostamento delle persone fisiche all’interno di tutto il territorio nazionale, nonché delle sanzioni previste dall’art. 4, comma1, del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 marzo 2020 in caso di inottemperanza (art. 650 C.P. salvo che il fatto non costituisca più grave reato);
…..Che lo spostamento è determinato da: o comprovate esigenze lavorative; o situazioni di necessità; o motivi di salute; o rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza. A questo riguardo, dichiara che LAVORA QUOTIDIANAMENTE PRESSO LA PROPRIA EDICOLA.
…..Non so l’utilità né il presunto valore giornalistico o letterario di questo piccolo documento. Spero che a qualcuno sia utile, almeno per passare un pomeriggio al caldo della propria casa, a riflettere su quanto sta succedendo o è successo, a seconda del momento in cui arriverà tra le sue mani. Per me è stata una compagnia nella desolazione di un quartiere vuoto e un’occasione per fare quel lavoro giornalistico della cui possibilità una vita umile, di tanta lettura e poco studio, mi ha privato.
…..Questo è quanto. Il resto lo dirà la coscienza di ciascuno, quando, a virus debellato, si chiederà: a che punto è l’uomo?
Marzo 2020
© Paolo Steffan
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