Il sabato, a Festivaletteratura, è un pieno di eventi straordinari; è la giornata che attira più pubblico. Il weekend è il tempo giusto per concedersi un po’ di bellezza qui a Mantova, un bicchiere di vino, del buon cibo, e un po’ di cultura. Son così tanti gli appuntamenti del penultimo giorno che, per seguirli tutti, si corre di luogo in luogo ‘pensando con i piedi’, recitando dentro di noi una sorta di ‘grazie senza fine’: quale straordinaria occasione è, infatti, immergersi nell’opera di autori che hanno toccato la nostra esperienza di lettori, di affamati divoratori di poesie e romanzi, per amplificare il senso della lettura? Soprattutto credo sia necessario porre l’attenzione sul tema dell’ascolto e sulla parola che si fa corpo (di cui avrò modo di parlare anche nei prossimi giorni, in ripresa e a supporto di questa tesi). Ed è proprio questo il punto del post di oggi: la fame di trame, di storie; la fame di voce. La fame di ‘parole’ non mi rende personalmente mai sazia sin dalla prima esperienza al Festival, dieci anni fa appunto. Avevo compreso che uno dei quid di Festivaletteratura è la possibilità di rendere due volte fisica l’esperienza della lettura. Mi diverte sempre molto assistere ad eventi in cui gli autori divagano aggiungendo al loro libro quella dose di aneddotica che ci fa entrare nelle loro vite, ma mi sorprende soprattutto poter ascoltare la loro voce, entrare nelle vite dei loro personaggi attraverso il loro linguaggio di tutti i giorni. Oppure entrare nel loro laboratorio, nella loro ricerca attorno ad una figura. Una chiave d’accesso ‘altra’ e, in alcuni casi, fondamentale.

Son certa del fatto che l’incontro con il poeta inglese Roger McGough (evento 158) sia stato questo e cioè abitare per un poco la sua vita e il suo lavoro attraverso la sua voce; presentato dal suo traduttore Franco Nasi, McGough ha letto alcuni testi che ripercorrono la sua personale autobiografia, dagli anni Sessanta ad oggi. Performer e musicista (è membro degli Scaffold) si tratta di un autore sagace e irriverente, capace con il suo humor molto british di comunicare tutti i colori del vivere umano e arrivare efficacemente all’orecchio del pubblico. I suoi temi, anche nell’ultima raccolta As far as I know (2012) affrontano, tra gli altri, la morte e il rapporto con tutto ciò che è civico e politico, smontando e rimontando con una sottile vena pop le piccole e grandi tragedie e le piccole grandi sfide dell’agire quotidiano.
Ho seguito dunque l’incontro con tre autrici che si sono misurate con altrettante grandi scrittrici del Novecento (Riscrivere la vita di una scrittrice famosa, evento 167). Il mio focus però intende mettere in gioco soltanto Sandra Petrignani e la straordinaria capacità di far vivere sulla pagina la figura rocambolesca di Marguerite Duras, ‘inventrice’ di un linguaggio letterario proprio, che ha fatto epoca e aperto possibilità nuove, per la lingua francese, di espressione. Mi ricordo l’incontro con i suoi romanzi, al liceo, a 17 anni: fu folgorante. L’asciuttezza della lingua di Duras, il suo rapporto con il ‘pieno e vuoto’ (soprattutto) mi rimanda alla particolarità di quanto detto su Thelonious Monk già ieri: quella di certi autori è una necessità di togliere, per fare stile. Calvino parlerebbe di ‘levità’.
Petrignani, intervistata da Annarosa Buttarelli, precisa che il suo è stato, sin dall’inizio, un intento letterario prima che biografico. Marguerite (Neri Pozza, 2014) è infatti un romanzo [segnalo, a tal proposito, l’articolo di Valeria Viganò a proposito di questo testo, su La Rivista Intelligente]. L’animo estremo (in tutto) di Duras emerge dalla pagina e mi rammenta, per certi versi, la forza e potenza espressiva e vitale assieme di Goliarda Sapienza; soprattutto quanto dice Petrignani rispetto al rapporto difficile che Duras ha intrattenuto per tutta la vita con la madre, caratteristica di molte vite femminili e ‘ferita irreparabile che ha segnato il suo destino’. Vengo a capo di una questione che, dunque, mi ero già posta leggendo l’opera di Goliarda negli ultimi anni, e rimetto in gioco, grazie al contributo di Petrignani, una possibile comparazione tra queste due scrittrici straordinarie, emersa in sede di stesura di tesi. Apro le finestre, appunto, rimesto ipotesi e idee.

Una sorpresa è, infine, l’incontro di Piero Dorfles con Elizabeth Strout, considerata una delle maggiori e più importanti autrici della letteratura americana contemporanea; Dorfles ripercorre tutta la sua carriera durante l’evento 189 e focalizza alcuni capisaldi della sua opera: la cura del dettaglio, posso azzardare, è dentro la pasta vocale raffinata ed elegante della scrittrice originaria del Maine. Ricordo con molto piacere la lettura di Olive Kitteridge (uscito nel 2009 da Fazi e allora vincitore del Premio Pulitzer), una narrazione che ci conduceva attraverso i fatti della vita di un’insegnante di provincia, della sua famiglia, degli abitanti del suo piccolo paese. Strout afferma che ogni sua prosa contiene qualcosa di assolutamente autobiografico e, cosa molto interessante, manifesta il pieno possesso della facoltà di far dire al personaggio ciò che vuole, di governarne nella maniera più assoluta il destino, cosa che ho sempre pensato valesse sopra ogni cosa, in materia di scrittura, e prevalesse sulla possibilità di farsi guidare dalla voce del personaggio stesso. Quello di Strout è una (terza, per ieri) lezione di letteratura, di lavoro e un po’ di vita.
© Alessandra Trevisan
Una replica a “Pillole da Mantova #4 – (vite di altri)”
[…] che pensa Elizabeth Strout a proposito della costruzione dei suoi personaggi (come ho detto già qui), mi ricorda che ognuno sceglie la propria missione. Io spero d’essere stata un degna […]
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