
Da quando sono nata niente mi sorprende, niente mi entusiasma, ma questo senza dolore o invidia per gli altri che «vivono». A tredici anni vidi mia sorella piangere disperatamente e poi ridere come solo lei sa ridere di gioia. La sua gioia mi fece capire che nessuno poteva essere bello come lei. Nessuno, e capii che sarei morta presto. Lo capii, senza sofferenza né paura, come ora che sono morta da tanto, e nessun rimpianto mi prende di quella che fu la vita.
In Il vizio di parlare a me stessa. Taccuini 1976-1989 (Torino, Einaudi, 2011)
Quando uscirono i primi Taccuini di Goliarda Sapienza per Einaudi, secondo la selezione del curatore dell’opera Angelo Pellegrino, i lettori e la critica vennero a contatto con una parte della sua scrittura che poteva considerarsi intima, privata, complementare a quella narrativa, alla poesia, al teatro, ai soggetti cinematografici. In attesa dell’epistolario (ancora ad oggi inedito), dopo aver percorso il corpus in lungo e in largo sia sul nostro blog sia nel volume Una voce intertestuale (La Vita Felice 2016), ed aver poi elaborato alcuni articoli scientifici in cui più volte chi scrive ha sostenuto la comparazione dei romanzi carcerari alla scrittura diaristica di Sapienza sulla scorta di posizioni critiche avanzate da Fabio Michieli durante le numerose repliche di Voce di donna, voce di Goliarda Sapienza − portato in tour dal 2014 al 2017 con Anna Toscano (poi diventato libro per LVF nel 2016) −, le ipotesi che una grande autrice come questa continuano a mettere in campo non si esauriscono. Anzi: è sempre più vero che l’affondo estremo nella parola vivifica la necessità di riprendere, ribaltare − e non soltanto approfondire − i termini, le possibilità, le direzioni di un’indagine mai sazia come quella dedicata alla scrittrice. Nell’anniversario della sua scomparsa (avvenuto il 30 agosto 1996), dopo alcuni anni di omaggi e post “in memoria di”, emerge ancora una volta la misura di un confronto con quanto di scritto ci ha lasciato, atto a oltrepassare i limiti (ancora una volta) dell’intertestualità di Sapienza.
Ben vengano gli articoli dedicati a questa voce, quelli divulgativi, perché avvicinano sempre più un numero di lettori ai suoi libri; ben vengano tranne quando si perpetua una banalizzazione del senso basando la propria scrittura su forme fisse, su quelli che sono i ‘luoghi comuni d’autore’ (la famiglia socialista, l’”ingombrante” figura materna, la mancata pubblicazione de L’arte della gioia, la depressione, la presenza di Citto Maselli ed altri) che, nonostante costituiscano le fondamenta d’approccio biografico a Goliarda Sapienza non sono affatto sufficienti a definire i contorni di un Ritratto a tuttotondo, che spieghi le ragioni della scrittura − con il corsivo ci si rifà al recente volume di Angelo Pellegrino rivolto proprio alla biografia, di cui si è trattato qui.
Un autore vive anche attraverso chi lo studia, anche nella frattura tra posizioni diverse, e vive perché l’impegno di chi si appresta a conoscerlo possa essere quello di rendere visibile la costruzione interna della sua opera, presentificare il significato della stessa alla luce di elementi costituenti in grado di determinare da quale lato si osserva e si commenta, senza abdicare alla sola teoria, senza. Il compito che ci si prefigge non è “facile”: rendere comunicabile la complessità, il magma dell’esistenza presente nei libri di uno scrittore − se questa è la prospettiva che si adotta − può sfiorare più volte se non il fallimento almeno l’incomunicabilità di ciò che si va dicendo. Non è una questione di accanimento né di competizione critica − dal momento che la vera sfida, chi si propone di mettere in pratica questo “mestiere”, l’affronta con il proprio sé −: si tratta invece di tentare di uscire dal già detto per affrontare con competenza e cognizione “il non detto”, di fare ricerca dentro e attorno la ricerca di altri; si tratta di proporsi continuamente di innovare il proprio punto di vista e la propria chiave di lettura per apportare novità, mescolando le carte, rivisitando le proprie pratiche. L’interpretazione di un testo o di un autore trova significato solo se chi legge − e scrive − sorveglia il proprio io, lo placa o addirittura mette a tacere (o lo sorveglia mentre dorme), e rende servizio alla materia, volgendo lo sguardo anche verso l’ignoto. Questo è quanto scoperto iniziando ad indagare autori proprio qui sul blog oramai da diversi anni; leggere gli altri per migliorare se stessi, imparare a pensare “oltre”. Una sfida appunto non sempre riuscita ma quasi sempre tentata, agita, anche conten(d)endo i rischi dell’autoreferenzialità e della ripetibilità del proprio dire, che pure resiste al tempo e alle prove.
È all’interno di questi parametri che si costruisce anche il breve articolo di oggi, che sarà un excursus critico in cui si rintracceranno aspetti chiave proposti a partire dalla citazione in apertura. In questo caso si tratta di un testo inserito dal curatore Pellegrino in Il vizio di parlare a me stessa che, come si riconosce dal titolo, enuncia la necessità di Sapienza di vocalizzare, ripetersi, dichiararsi ‘intertestuale’. Un breve testo senza data, posto come primo, il cui contenuto pare rimandare ai primi due romanzi autobiografici: Lettera aperta (Garzanti 1967) e Il filo di mezzogiorno (ivi 1969). È senza dubbio lì che la nostra svelava l’impalcatura dell’opera, il piano che avrebbe portato avanti nel tempo: scrivere e riscrivere la sua storia, quella della sua famiglia e della sua morte, legata da un lato alle terapie subìte nei primi anni sessanta, ossia gli elettroshock, dall’altro alla terapia freudiana deviante poi narrata nel Filo. Sino a qui nulla di nuovo, apparentemente. Va da sé che L’arte della gioia, narrato sì in prima persona ma grazie al personaggio di Modesta − la grande invenzione di Sapienza − risulta distante da questo testo: sebbene nel romanzo l’avverbio “entusiasmante” compaia quattro volte (dato non significativo ma oggettivo), non paiono esserci legami con l’io narrante della citazione, né con l’argomento.
L’autoanalisi dei primi romanzi − per chi scrive si tratta di “romanzi” e non di un’altra forma testuale −, porta a verificare che il personaggio di Goliarda compie un superamento dello status descritto, di adesione all’altro da sé, superando attraverso la scrittura l’empasse psicologico della vita e aumentando la propria consapevolezza; una scrittura che cura ma più di tutto che ‘crea pensiero’. Insegna sempre, pur non avendo come dichiarato lo scopo di insegnare; che cosa? La libertà, in primo luogo.
Ed è proprio in quella forma di accennata atarassia che, unita alla “morte” − tema costante in Sapienza, come già affermato da Fabio Michieli qui −, si manifesta lo sguardo tensivo dell’io narratore: nel riconoscimento della “gioia” dell’altro fuori dal dolore e dall’invidia per l’altro. Un messaggio che, con una meno precoce analisi, porterebbe forse a ricondurre il testo ad un altro romanzo non pubblicato: tra gli inediti dell’Archivio Sapienza-Pellegrino vi sarebbero, infatti, pagine familiari ancora da studiare.
Ci si chiede: la posizione data dal curatore farebbe perciò intendere che la citazione posta lì possa dichiarare una datazione, ante 1976, e dunque in piena stesura de L’arte della gioia? O potrebbe trattarsi di un testo da ascrivere ai soli diari di Sapienza, in cui dunque liberare una riflessione forse reiterata ma narrativamente “esatta”? Ed è corretto valutare un testo alla luce della curatela postuma, ossia della scelta che forse Sapienza non fece: quella di non pubblicare i propri Taccuini in vita?
A quest’ultima domanda si può rispondere supponendo che è a partire dalla forma data che la sostanza diventa ciò che il critico interpreta, ed è il taglio che (ri)assume tutto il resto. È certo che l’autrice non fosse estranea a formule di andirivieni, appunto ‘intertestuali’, che si verificano sia nella ripetizione di concetti sia nell’elaborazione degli stessi in opere diverse. Anche se qui non si palesa un’interpretazione vera e propria si pone l’accento su un motivo dinamico del corpus come lo si conosce; soprattutto si svela un’altra “gioia” (ancora parola chiave) che il testo propone, a posteriori leggibile in conflitto − non solo letterario − con una biografia divulgata e tutta ripiegata sulle mancanze vitali di Sapienza − reali ma non totalizzanti −. La “gioia” è una costante per lei, una parola rivolta agli slanci da incontrare fuori, a quegli stessi salti che la sua scrittura fa fare a chi trova la pazienza di ascoltare e di lavorare con lentezza, senza rimpianti.
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© Alessandra Trevisan
Goliarda Sapienza (10 maggio 1924 – 30 agosto 1996)
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Segnalo che un articolo dal titolo L’arte della gioia di Goliarda Sapienza: una pubblicazione lunga vent’anni (1978-1998) è uscito sul n. 1/2019 di «KEPOS – Semestrale di letteratura italiana», Anno II, editore Al segno di Fileta, fascicolo Minimi, non minores, pp. 180-207, pubblicato lo scorso 28 agosto e disponibile qui e qui.
Una replica a “«nessun rimpianto mi prende di quella che fu la vita»: su una citazione di Goliarda Sapienza (1924-1996)”
L’ha ripubblicato su Matteo Mario Vecchio.
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