
«L’Italia che vorrei». Le Confessioni di Ippolito Nievo e Noi Credevamo di Anna Banti e Mario Martone: tre ‘Risorgimenti’ che si stringono la mano. Parte Prima
© Alessandra Trevisan
Ora se c’è una cosa amara, desolante
è quella di capire all’ultimo momento
che l’idea giusta era un’altra, un altro movimento.
Moriamo per delle idee, va beh, ma di morte lenta,
ma di morte lenta.
Fabrizio De Andrè, Morire per delle idee, 1974. [Originale di George Brassens, 1972]
Viva l’Italia, l’Italia presa a tradimento […]
l’Italia dimenticata e l’Italia da dimenticare.
Francesco De Gregori, Viva l’Italia, 1979
Povera patria! Schiacciata dagli abusi di potere […]
Tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni;
questo Paese è devastato dal dolore.
Ma non vi danno un po’ di dispiacere
quei corpi in terra senza più calore?
Franco Battiato, Povera Patria, 1991
Il desiderio di porre a confronto due romanzi che trattino del Risorgimento italiano quali sono Le Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo e Noi Credevamo di Anna Banti – da cui Mario Martone ha tratto nel 2010 l’omonimo film –, è nato in sede accademica, a seguito di un corso monografico su la grande opera di Nievo, e si è sviluppato attraverso un’intuizione un po’ audace, forse: cercare un dialogo tra la saga ottocentesca e quella novecentesca postuma, non solo romanzesco ma anche e soprattutto storico e ‘ideale’. In un Paese che, oggi, a poco più di centocinquant’anni dall’Unità, è ancora alla ricerca di un’identità, leggere queste due opere e raffrontarle incrociandole, permette di farle dialogare, ed è stato per me come compiere un lungo viaggio che mi ha portato a riflettere sulla realtà in cui sono immersa quotidianamente. L’Italia che non ho vissuto, evocata dalle citazioni in esergo di alcuni cantautori che amo, quel secondo Novecento che rivive nelle parole dei miei genitori e dei nonni e che ancora influenza il presente, è un’Italia sotto molti aspetti vicina a quella che Nievo e la sua generazione ha conosciuto; d’altronde «Venire al mondo, venire alla luce, è faticoso», afferma il regista napoletano[1] a proposito dell’Unità, utilizzando la metafora di una ‘maternità sofferta’; aggiungerei anche che vivere la complessità odierna lo è, ancora. Con questo scritto intendo dunque riflettere sul ruolo della ‘Storia’ e sul concetto di ‘Patria’ pre e post-unitari, senza dimenticare il confronto letterario fra le due opere; servendomi di un adeguato apparato critico cercherò di costruire un percorso che vada a toccare sia i punti di tangenza sia le diversità che i due romanzi presentano, cercando di spiegare perché essi godono d’un valore nell’attualità.
1. Peso e centralità della “Storia” ne Le Confessioni
Per una strana coincidenza Le Confessioni o meglio la prima edizione censurata Memorie di un ottuagenario e Noi credevamo sono stati pubblicati esattamente a un secolo di distanza, ossia 1867 (Firenze, Le Monnier) e 1967 (Milano, Mondadori); credo si dovrebbe parlare, in entrambi i casi, di una necessità letteraria e storica di diverso tipo, fortemente sentita. Nel caso di Nievo certo, la pubblicazione pareva inderogabile non solo per dare valore all’intento di un letterato di caratura ma perché il suo romanzo concentra letterariamente, traendo i propri repertori dalla realtà, la storia di un’Italia che sta ‘per farsi’ e l’embrione dell’esperienza risorgimentale: Carlino e gli altri protagonisti attraversano la Storia con la S maiuscola, che invade le loro esistenze e le muta talvolta radicalmente.[2] Si pensi all’arco temporale considerato da Nievo (1775-1855/’58) misurato sulla vita del suo protagonista: la focalizzazione dell’esperienza storica del Nord della penisola per Nievo, con al centro il Friuli e il Veneto e in particolare Venezia, gli permette di parlare della decadenza di una certa nobiltà quale è quella della sua ‘famiglia adottiva’ di Fratta, dei primi moti, di un’Italia che lentamente cambia volto, su cui pesa altresì una riflessione ‘sociale’ ampia e articolata che concerne l’impreparazione delle classi contadine all’Unità.
La Storia è vera protagonista delle Confessioni come ‘magistra vitae’, poiché insegna a leggere il mondo, quel mondo in evoluzione, sottoposto a rinnovamento. La vicenda di Carlino e, negli ultimi capitoli, del figlio Giulio a cui egli passa il testimone per ampliare ulteriormente la riflessione storica, si sviluppa in medias res ossia negli anni in cui anche l’autore è impegnato a ‘costruire l’Italia’, e soprattutto a ‘costruirsi’ una coscienza politica, e ciò accade per la maggior parte dei romanzieri del tempo di Nievo. Inoltre l’oscillazione d’idee, quello ‘stare in bilico’ che è di Carlino, appartiene anche a Nievo: pur non volendo in nessun modo identificare autore-narratore-personaggio, poiché già la critica nieviana si è battuta fortemente contro questa lettura, è innegabile la loro vicinanza ‘di pensiero’. E tuttavia Nievo matura la sua posizione poco più che adolescente; al contrario Carlino giunge in età adulta e in vecchiaia a considerare il corso della Storia nel suo compiersi, potendo verificarne gli esiti sino a quel momento, al concludersi d’un percorso di esperienze che lo portano a maturare una posizione più che favorevole nei confronti dell’Unità, esplicitata sin dall’incipit, in quel «morrò italiano».[3] Le posizioni democratiche e libertarie che attraversano il romanzo giungono alla bocca di un Carlino «educato senza le credenze del passato e senza la fede nel futuro»[4] grazie all’intervento di altri protagonisti: si pensi, pur nella complessità della trama, alla figura di Lucilio, ‘colto’, ‘lettore’, preparato ad affrontare il presente in modo critico, ed anche agitatore e in qualche modo rivoluzionario (si vedano i cap. II, p. 96 della mia edizione e cap. IX). Carlino dunque compie nel romanzo una formazione anche politica restando un ‘moderato’ che crede nella giustizia e nella libertà, e che non vive fino in fondo la condizione di lotta di alcuni coetanei; diversamente dall’attivismo nieviano, Carlino sta un po’ in disparte e osserva con una ‘lente’ la realtà in dissoluzione, che apre a qualcos’altro, un futuro incerto e ancora da comprendere ma da affrettare.[5] Carlino è un osservatore quasi non-giudicante o per meglio dire parzialmente giudicante poiché lontano da quell’attivismo politico forte invece ben presente nella Banti; è un osservatore che, come Nievo, comprende che il rapporto tra tradizione e progresso è ideale per uno sviluppo su tutti i fronti, sociale, politico, etc. A tal proposito riporto di seguito tre citazioni che ben rappresentano identificandola questa duplice spinta storico-sociale del romanzo. In apertura, ad esempio, Carlino afferma:
questi due secoli che resteranno un tempo assai memorabile massime nella storia italiana.[6]
Dunque, all’inizio del sesto capitolo, a proposito della Rivoluzione francese e del passaggio di secolo, scrive:
Nessuno crede ora che la rivoluzione francese sia stata la pazzia d’un sol popolo. La Musa imparziale della storia ci ha svelato le larghe e nascoste radici di quel delirio di libertà, che dopo avere lungamente covato negli spiriti, irruppe negli ordini sociali, cieco sublime inesorabile. Dove tuona un fatto, siatene certi, ha lampeggiato un’idea.[7]
E ancora:
Intanto gioverà notare il peccato per cui cadde Venezia inonorata e incompiuta dopo quattordici secoli di vita meritoria e gloriosa. Nessuno, credo io, avvisò fino ad ora o formulò a dovere la causa della sua rovina. Venezia non era più che una città e voleva essere un popolo. I popoli soli nella storia moderna vivono, combattono, e se cadono, cadono forti e onorati, perché certi di risorgere.[8]
Nievo è capace di tipizzare le situazioni storiche e identificare quella che era la situazione della società del suo tempo, in un intreccio tra vicende personali e Storia che mantiene una continuità, permeando entrambe della «tensione che regge un secolo»[9] così definita dal critico letterario e giornalista Goffredo Fofi. La sua è una poetica di adesione al reale che non dimentica però l’invenzione e l’immaginazione, che sono funzionali alla vicenda di Carlino e alle vicende di una «Nazione che non c’è»[10] ancora.
Prima d’indagare il tema della politica nel romanzo vi sono almeno altri due temi di necessaria importanza che riguardano la Storia nelle Confessioni, di cui desidero trattare. Il primo è la ‘concezione laica’ diametralmente opposta a quella del Manzoni: Nievo e Carlino credono che la Storia sia fatta dagli uomini e che non vi sia alcun disegno divino a governarla, alcuna provvidenza a manovrarla; una concezione che viene ben quarant’anni dopo I promessi sposi, in controtendenza forse, audace rispetto ad un dictat letterario, ma aderente alle idee della generazione pre-unitaria e ‘attivista’.[11] L’altro cardine su cui la critica si è a lungo interrogata, è la possibilità di definire o meno quest’opera ‘romanzo storico’: a tal proposito Fofi ricorda che esso è stato tacciato di non essere ‘storico’ perché l’autore si permette l’inserimento di personaggi storicamente esistiti e l’utilizzo di ‘nomi veri della letteratura’ (Bonaparte, Foscolo e Parini, ad esempio) non per ritrarli come veri ma ‘verosimili’. Più articolata invece è la posizione del critico Pier Vincenzo Mengaldo, il quale asserisce che queste ‘comparse’ non sminuiscono il valore del testo né lo abbassano e anzi, rispetto alle narrazioni coeve europee, non c’è in Nievo alcuna ‘parodia storica’ nel rappresentare il mondo feudale settecentesco né la rivolta. Seppur l’autore si serva di descrizioni ‘caricaturali’, sua cifra certo, egli intende comunicare letterariamente anche la «necessità di un’iniziativa autonoma degli italiani».[12] Mengaldo individua inoltre una terza modalità di lettura di ‘romanzo storico’ in Nievo, poiché se questo genere oscilla tradizionalmente fra storia documentata e romanzata, Nievo si serve piuttosto di una «storia testimoniata», risolvendo a proprio modo lo sbilanciamento di proporzioni fra Storia e vicenda privata del romanzesco, in un «estremo tentativo di rifondazione di genere.[13]
2. La concezione politica in fieri di Nievo e il concetto di “Patria”
Tenere insieme le direttrici dell’opera politica di Nievo non è cosa semplice se si considera come già anticipato la pluralità di spinte ideologiche che il romanzo contiene e che di capitolo in capitolo emergono, anche confuse, attraverso la voce dei personaggi. Intenzione programmatica la sua, e biografica, come rivela anche Simone Casini nel saggio Nievo e Mazzini. Le rivoluzioni del 1849 tra biografia e finzione.[14] Proverò a riassumere brevemente cosa accomuna l’esperienza autoriale all’esperienza romanzesca considerando soltanto, per ragioni che permettono una comparazione con la Banti, l’esperienza di Carlino. Non tengo in considerazione in questa sede le dissertazioni dei pensatori dell’epoca, di certo necessarie; per lo più cercherò di riportare il pensiero di Nievo, restando nel terreno dell’elaborazione di un uomo colto come tanti altri, ma non di un leader.
La ‘labilità ideologica’ diffusa che si confonde nelle pieghe della vicenda delle Confessioni a cui ho già ampiamente accennato, è individuata da Casini come tentativo di catturare il complesso sistema di pensiero di un’epoca e il complesso sistema di pensiero dell’autore stesso, che passa attraverso gli ideali repubblicani di Mazzini prima, il programma cavouriano (che egli in parte contesta) e infine giunge al ‘garibaldinismo’. Nonostante le zone d’ombra, Nievo sconfina, va oltre la politica, dirigendosi in quel territorio ultra-libertario e garibaldino che appoggiava una ‘rivoluzione nazionale’ a-politica. Abbracciato ma ben presto superato il confine del movimento mazziniano, articolato, complesso anche al suo interno diviso, promotore di un astratto desiderio di libertà incarnato dai “puritani” ossia gli esponenti oltranzisti, Nievo si dirige, aderisce all’idea di un’indipendenza realizzabile, e lo fa dopo il biennio 1948-’49, in cui l’esperienza mazziniana trova una prima capitolazione. È il momento di proclamazione della Repubblica Romana, della sua repressione, e della proclamazione e repressione della Repubblica Toscana. Nievo vive, seppur non esplicitandolo nelle lettere personali,[15] questo passaggio, in quei territori tra la Toscana e Roma appunto, ma non prende – ancora – una posizione militante; l’autore è speculare al personaggio di Giulio Altoviti, che non affrettando la Storia[16] sceglie d’incarnare un certo ‘moderatismo’, forse più radicale di quello paterno, ma fondato sulla convinzione di lasciare spazio al futuro e ai giovani. Quest’eredità e l’allontanamento dal proprio centro sono le ultime spinte della biografia dell’autore stesso, che dalle pieghe del romanzo si fan vita, s’incarnano. In particolare Casini si sofferma su «lo stato d’animo [e] l’incertezza delle scelte da prendere»[17] nel 1849; vi è in una lettera di Nievo, l’uso di un marcato ‘noi’, su cui anche Casini si sofferma: «queste medesime turbolenze che ci ànno messo contro di noi un partito che è forse il più grosso»[18], a proposito delle divisione interne di partito e della caduta della Repubblica Toscana guidata da Guerrazzi. Il ‘noi’ restituisce una dimensione collettiva di partecipazione alle rivoluzioni soffocata fino al Novecento, che riemerge non solo nel romanzo della Banti – come vedremo – dopo il centenario dell’Unità. Casini conferma che la sfida di Nievo è proprio quella di restituire il suo presente e dunque anche la difficile elaborazione critica e personale di democrazia, libertà, unità ed indipendenza.
Patria, patriottismo e senso della ‘patria’: l’epoca di Nievo, lo ripeto, è un ‘momento’ di costruzione di modelli e ‘senso civico’; è un ‘primo momento’ di elaborazione storica, e dunque anche il concetto di ‘patria’ modernamente inteso sfugge. Ma l’Italia è ancora una nazione che soffre della mancanza di interezza. Carlino ne è alla ricerca, come è alla ricerca di un proprio cammino, di una completezza per la sua esistenza. Si veda questo passo su Venezia:
Così la mia vita cominciava ad aggirarsi fra le rovine […]; l’amore mi torturava, mi mancava la famiglia, mi moriva la patria. Ma come avrei potuto amare, o meglio, come mai quella patria torbida, paludosa, impotente, avrebbe potuto destare in me un affetto degno, utile, operoso? Si piangono, non si amano i cadaveri. La libertà dei diritti, la santità delle leggi, la religione della gloria, che danno alla patria una maestà quasi divina, non abitano da gran tempo sotto le ali del Leone. Della patria eran rimaste le membra vecchie, divelte, contaminate; lo spirito era fuggito, e chi sentiva in cuore la devozione delle cose, sublimi ed eterne, cercava altri simulacri cui dedicare le speranze e la fede dell’anima.[19]
In poche righe Nievo concentra la perdita di forza della Serenissima, di un mondo che non c’è più, che ha perduto i punti fissi su cui era imperniato. Si consideri invece quest’affermazione di Lucilio: «Dicono che si farebbe atto di patria carità e prova d’indipendenza correndo incontro alle ottime intenzioni degli altri»[20] Sembra parafrasare invece quel ‘morire per delle idee’, la morte per ghigliottina del militare e patriota Ettore Carafa cui Lucilio, la Pisana e Carlino assistono a Napoli. Esistito anche nella realtà fu giustiziato nel 1799 a seguito della mancata rivoluzione partenopea del 1799: «Egli volle essere decapitato supino per guardare il filo della mannaia, e forse il cielo, e forse quell’unica donna ch’egli aveva amato infelicemente come la patria.»[21] E ancora in chiusura di romanzo la magnifica lettera in cui si richiama alla memoria lo sforzo di chi, dal basso, combatte per la patria senza desiderare un riconoscimento; qui si richiamo le imprese della Roma Antica.[22]
Nel romanzo ‘patria’ conta più di cento occorrenze ma, in due casi soltanto a mio avviso rilevanti, vi sono accenni a un duplice rimando patria-donna che è stato ben evidenziato da Stephanie Hom Cary, docente dell’Università di Berkeley, California nel suo articolo ‘Patria’-otic Incarnations and Italian Character: Discourses of Nationalism in Ippolito Nievo’s Confessioni d’un italiano[23]. Hom Cary riflette sulla rappresentazione di ‘patria’ nel romanzo, sostenendo che essa è strettamente connessa anche a ‘indole’ e ‘carattere’, tratti personificati da Pisana: principale personaggio femminile delle Confessioni, la Pisana è stata in numerose occasioni critiche definita come esemplare per la letteratura italiana – e non solo – dell’Ottocento e oltre. Eterno amore di Carlino, inquieta, in continuo movimento, personaggio a tutto-tondo e dunque in evoluzione, la Pisana è già immagine simbolica della ‘patria’ nell’introduzione al Meridiano Mondadori in mio possesso, secondo la definizione di Marcella Gorra, la quale in particolare evidenzia che la rubrica dell’ultimo capitolo del romanzo contiene un chiaro suggerimento di Nievo a tal proposito. Carlino afferma in questa sede: «Chiudo queste Confessioni nel nome della Pisana come le ho incominciate; e ringrazio fin d’ora i lettori della loro pazienza.»[24] Hom Cary sostiene la personificazione data dai caratteri della Pisana, ‘più che umani’: sposa, moglie e amante, Pisana coniuga in sé le contraddizioni politiche, sociali, civili d’un Paese in rivolta. Le Confessioni iniziano e si concludono nel nome della ‘patria’, una patria che veste un abito femminile, com’è da Virgilio in poi, passando per Dante e Petrarca, e soprattutto una patria che è frammentata, storicamente frammentata.
Leggendo le Confessioni m’è sembrato di riascoltare i versi di un poemetto di Patrizia Cavalli dal titolo La Patria, scritto nel 2008 e pubblicato nel 2011; eccone alcuni versi:
Ostile e spersa,
stranita dalle offese dei cortili,
dalle risorse inesauste dei rumori
per varietà di timbri e gradazioni,
braccata dalle puzze che sinistre
si alzano sempre non si sa mai da dove;
[…] sempre più
dubitando, eccomi qui obbligata
a pensare alla patria. Che se io l’avessi non dovrei pensarci, sarei nell’agio pigro
e un po’ distratto di chi si muove
nella propria casa, sicuro anche al buio
di scansare, tanto gli è familiare,
ogni più scabro spigolo di muro.[…]
Certo,
sarebbe un gran vantaggio
poterla immaginare, tutta intera,
dai tratti femminili, dato il nome.[…]
immobile a chiederti cos’è
quel denso concentrato di esistenza
sorpresa dentro un tempo che ti assorbe
in una proporzione originaria.
Più che bellezza: è un’appartenenza
elementare, semplice, già data
Ah, non toccate niente, non sciupate
C’è la mia patria in quelle pietre, addormentata.[25]
Cavalli rivela qui una profondissima capacità di adesione al reale, fatta di moti vorticosi dell’animo: calandosi completamente nell’attualità ritrae l’Italia di oggi, alla ricerca di un’identità come sempre, e ne vivifica le contraddizioni con meticolosa e ironica osservazione. C’è molta della sua Roma in questo testo: la città che l’ha accolta sta nelle strade, nei colori e nei profumi, nelle persone, e tutto è spoglio e vivo e assolutamente antiretorico. Cavalli è una di quegli autori che vivono il proprio tempo, e si misurano quotidianamente con esso, con ciò che li tocca e li investe. In questa poetessa contemporanea c’è, vive, esattamente quel senso della ‘crisi dell’appartenenza’ che è sì del Novecento, ma è in Nievo con centocinquant’anni e più di anticipo perché già nelle Confessioni si riscontra l’‘appartenenza elementare’ e soprattutto la frammentarietà della ‘patria’ restituita con l’acutissima frammentarietà del corpo e carattere femminile di Pisana.[26]
[1] Noi Credevamo premio David di Donatello 2011 – Intervista a Mario Martone, a c. di GenoaMunicipality, 24.09.10, <http://www.youtube.com/watch?v=9VMde3cV60I>.
[2] «È la storia – protagonista incontestabile delle Confessioni, come tutti i lettori hanno ormai convenuto – a governare la parabola di Carlino» afferma il critico Mario Allegri in Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, in «Letteratura italiana» diretta da A. Asor Rosa, «Le opere, III : Dall’Ottocento al Novecento», Torino, Einaudi, 1995, p. 539.
[3] A tal proposito si veda la posizione di P. V. Mengaldo,Appunti di lettura sulle Confessioni di Nievo in «Rivista di letteratura italiana», 1984, II, 3, p. 481. Mengaldo sostiene appunto che Nievo abbia utilizzato quest’abile modalità narrativa per veicolare le proprie idee.
[4] La mia edizione de Le confessioni di un italiano è edita da Mondadori nella collana I Meridiani, Milano, 1981. Questa citazione è tratta da p. 86.
[5] Ivi, p. 86.
[6] Le confessioni, cit., p. 4.
[7] Ivi, p. 257.
[8] Ivi, p. 532 (corsivo mio).
[9] G. Fofi, Tre Colori. Goffredo Fofi racconta “Le confessioni di un italiano” di Ippolito Nievo, Radio3, 11.01.2011, <http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/popupaudio.html?t=TRE%20COLORI%2011.01.2011&p=TRE%20COLORI%2011.01.2011&d=&u=http%3A%2F%2Fwww.radio.rai.it%2Fpodcast%2FA0095147.mp3>.
[10] Ivi.
[11] Questa posizione è esplicitata anche da P. V. Mengaldo, cit., p. 517-518, ed è altresì sostenuta da Goffredo Fofi nel documento anch’esso già citato.
[12] Ivi, pp. 474–475.
[13] Ivi, pp. 477–479.
[14] In Ippolito Nievo tra letteratura e storia: atti della giornata di studi di Sergio Romagnoli, Firenze, 14 novembre 2002, Roma, Bulzoni, 2004, pp. 117-135. Riassumerò le direttrici principali del saggio per riuscire a dare una fotografia dell’ideologia di Nievo e dei suoi personaggi.
[15] Si vedano a tal proposito i carteggi nieviani curati da Marcella Gorra, Lettere in Tutte le opere di Ippolito Nievo, Milano, Mondadori, 1981. L’accenno è già in Simone Casini, cit., p. 126 in particolare, ma già pp. 125-130.
[16] «Grande stupidità è la nostra di misurare la vita dei popoli da quella degli individui; i popoli devono perché possono aspettare; lo possono perché hanno dinanzi non venti trenta o cinquant’anni ma l’eternità» in Le Confessioni, cit., p. 1043.
[17] Nievo e Mazzini. Le rivoluzioni del 1849 tra biografia e finzione, cit., p. 129.
[18] Ivi, p. 129. Già in una lettera del 13 aprile 1849, in Lettere, cit., p. 32 (corsivo mio).
[19] Le Confessioni, cit., pp. 354-355.
[20] Ivi, p. 511.
[21] Ivi, p. 762.
[22] Ivi, p. 1041-1042.
[23] In «Italica», Volume 84, Numbers 2-3, 2007, pp. 214-232.
[24] Le confessioni, cit., p. 1038.
[25] Il testo de La Patria è stato scritto nel 2008 per il “Festival dei Due Mondi di Spoleto” e pubblicato per la casa editrice milanese Nottetempo, collana “I sassi”, nel 2011; stralci o la lettura intera son reperibili ai seguenti indirizzi: <http://www.youtube.com/watch?v=VgrQMiaKQ8M> e http://www.youtube.com/watch?v=sDoDE-sjm90>. Patrizia Cavalli è nata a Todi nel 1952 e vive da molti anni a Roma. Ha pubblicato numerose raccolte di poesia edite da Einaudi e Nottetempo: la sua è una poetica volta a comprendere la gestualità del corpo femminile e la gestione degli affetti, una poesia profondamente legata all’umano, aspetto che si vivifica anche in altri temi. Nel 2011, Cavalli è stata definita dal critico letterario Alfonso Berardinelli, una delle «punte della poesia con intelligenza letteraria di estrema raffinatezza» del nostro Paese, oggi (si consulti a tal proposito l’intervista http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/mostra_evento.cfm?Q_EV_ID=323069>).
[26] I tratti di Pisana sono stati ampiamente esplorati da, ad esempio, Marcella Gorra nell’introduzione alle Confessioni già citata e da Stephanie Hom Cary.
Opera tutelata dal plagio su www.patamu.com con numero deposito 56534