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“Allegri, puri e senza cuore”: Giorgio Ghiotti tra racconti e Peter Pan

Giorgio Ghiotti, “Gli occhi vuoti dei santi”, Hacca edizioni 2019, 15 euro

 

(Un giorno passavo per una via del quartiere Monti e ho visto gente china su un lavoro. Ho posato l’ombrello e mi sono fermata sotto un po’ d’acqua a capire cosa stessero facendo. Si trattava di un mosaico. Era magnifico, e perturbante insieme.)
Ho rovinato la copertina di Gli occhi vuoti dei santi, di Giorgio Ghiotti, Hacca edizioni 2019. L’ho rovinata indelebilmente con dei cerchi di caffè, l’ho tenuto a lungo sul comodino e all’ora del risveglio sono poco incline alla tutela anche di ciò che amo. Peccato, perché la copertina è splendida (il che non è una novità per i tipi di Hacca), con quell’uccellino in potenza che a pannelli esce dall’uovo e che contiene tutta la bellezza inquietante di un essere che sta per scoprire di quanto la natura inganna i figli suoi.
Dentro, un’inquietudine simile. Famiglie, periferie, riti iniziatici, amanti sguinci, rancori abbacinanti, bimbi sperduti. E una paratassi sontuosa, come di larghe zampate, nascosta dietro una complessa punteggiatura che spinge la frase a durare. È un libro che si legge lentamente, ogni parola ha il suo peso specifico, ogni giro di frase la sua cura attenta. Alla minima distrazione può sfuggire uno snodo, di quelli che tanto compongono il libro: una ferita, un’acida ironia, un’iniziazione. Perfino, in un libro che tanto sembra affondare la sua palafitta nel reale, un’allegoria. Le immagini create si impongono nella propria retina come se il lettore scivolasse nell’osservazione, e la vista, la facoltà del vedere, dell’osservare, dello spiare persino, attraversa il libro intero, anche con slittamenti dalla semantica inquietante, come quando si paragona la traiettoria dall’occhio al corpo pedinato con la linea rossa di un cecchino. Tutto ciò che è narrato lo è attraverso lunghi tempi attentivi, come una perenne decantazione. Basta una rapida pennellata, a Giorgio Ghiotti, per mostrare (non per dire) i risultati di questa perenne osservazione, i risultati dei grovigli emotivi, delle improvvise furie, delle imprecise decisioni e delle inaspettate idiosincrasie. Ma anche di sfacciate felicità, arrivate come una ventata quando si gira l’angolo, e di tutte le sfaccettature di quel comune e solitarissimo fenomeno con cui pure il libro si chiude: crescere.
In ultimo, penso ad alcuni racconti, penso a È permesso. Penso all’aver creato in poche pagine la monade di un romanzo, di una saga familiare addirittura, distillata in poche pagine. Ed è qui che si vede il talento dell’autore di racconti: essere freccia appuntita e dritta, senza nemmeno il lusso di una piuma di troppo nell’impiumatura.

Scegliere un esergo è un’operazione a metà tra l’attestazione d’amore e la ricerca di qualcosa che si adatti alla propria scrittura. Le due ragioni spesso si mescolano fino a stabilire un rapporto osmotico, dove si confondono i rapporti causa / effetto. Tu fai, in questo libro, un larghissimo uso degli esergo.

Scegliere un esergo per me è una cosa bellissima e fondamentale. Senza, un testo mi sembra in un certo senso sguarnito, incompleto. Prima di tutto, è il momento in cui posso “distrarmi” da ciò che ho scritto e tornare alla meraviglia del me lettore che, con la mente, naviga tra le pagine le frasi le memorie e sceglie, seleziona, abbina. Poi, è il modo che ho per suggerire una chiave di lettura, che è la mia. Tanto poi (per fortuna) ognuno legge quello che vuole in un racconto. Però è proprio questa specie di piccola vanità del dire “Senti qua che cosa straordinaria dice Oates, o Ginzburg, o Mari, o Ford e così via; e io te la sto facendo conoscere”. Credo sia un istinto paragonabile a quando, dopo aver letto un passo di grande bellezza in un libro, corro a leggerlo al mio compagno, a un amico, insomma a qualcuno. La bellezza esiste solo nella relazione e scegliere un esergo insomma è un po’ questo: condividere il bello. 

Il rapporto forse più interessante di cui si legge in Gli occhi vuoti dei santi è quello tra i genitori e i figli, soprattutto i padri.

Genitori e figli è un modo d’intendere e declinare, all’interno delle relazioni, i “ruoli”. Mi interessava, con questi racconti, indagare quello che accade quando un individuo smargina dal proprio ruolo che sì, lo ingabbia, lo limita, ma lo protegge, anche. Cosa avviene quando un padre smette di essere un padre, di pensarsi unicamente come un padre? Delle madri ho sempre scritto. Con i padri ci ho provato, ma sfuggono di continuo. “Inadatti a un ruolo, miserevoli bestie”, scrivo. Sono ossessionato da questa domanda, “Che cosa sono i padri” (titolo di uno dei racconti della raccolta), da quando lessi anni fa il testo teatrale di Natalia Ginzburg “Ti ho sposato per allegria” in cui Adriana e Pietro si domandano, dopo una cena disastrosa con la madre e la sorella di lui, “Che cosa sono le madri?”. La risposta è saltata fuori quando ho sfogliato l’album di fotografie dei miei. Loro che si sono conosciuti al liceo e non si sono più lasciati. Un passato ben più risalente, dove io non ci sono. Erano felici? Certamente. Anche senza di me. Era una felicità possibile che non mi comprendeva, in cui entravano anche la giovinezza, l’estate in due, la prima casa da comprare e arredare, un futuro pieno di possibilità. Allora mi chiedo: è più quello che si guadagna o quello che si perde, andando avanti? Nella domanda “che cosa sono un padre e una madre” ci sono questi grandi interrogativi che ci riguardano tutti.

Si sente nel tuo libro, e in generale in quello che scrivi, una perizia che viene dalla misura. A quali letture pensi di essere debitore?

Sono debitore a tutte le letture fatte. Anche perché le “influenze” possono cambiare nel tempo. Ma la febbre più alta e felice me l’ha data Natalia Ginzburg, la tonsillite è tutta colpa di James Mattew Barrie, il mal di pancia di Joyce Carol Oates, certi incubi me li ha causati Katherine Mansfield, il “mal di pietre” (e il mal d’amore) l’omonimo libro di Milena Agus. Senti qua cosa scrive Agus in quel libro brevissimo e struggente: “Per fare un sacrificio del genere, di toglierti di mezzo per il bene dell’altro, lo devi amare davvero.” O anche: “E la nostalgia è una cosa triste, ma anche un po’ felice”. E io sarei dovuto uscire illeso da letture così? Senza credere che la letteratura possa anticipare e direzionare la vita? 

Hai esordito, giovanissimo, con i racconti Dio giocava a pallone (nottetempo 2013), ma negli anni ti sei mosso tra i generi; ma cosa senti più tuo, la circoscritta perfezione del racconto, la distensione del romanzo, l’accensione della poesia o la prontezza del saggio?

Non lo so davvero; mi sento meglio in quello che sto scrivendo in un determinato periodo. E capita invece, dati i tempi editoriali, che quando esce un libro di narrativa io stia lavorando alla poesia e viceversa, così che alle presentazioni faccio uno sforzo di memoria terribile per dire qualcosa di intelligente o sensato sul genere in questione. Però è meraviglioso muoversi liberamente tra i versi, la scrittura saggistica e quella narrativa. Che poi non credo che la mia sia davvero una scrittura saggistica, perché entra sempre dentro a gamba tesa la narrazione, il gusto per le storie, e contamino di continuo. La verità è che io mi sento a mio agio con le parole, qualunque forma prendano. Come recitava la pubblicità della fiera Più libri più liberi di qualche anno fa, “Sono tutte storie”. La più bella pubblicità mai vista per una fiera del libro – un tocco di legno con appeso il cartellino “Pinocchio”, delizioso. 

Hai da poco tradotto per Bompiani, con Leonardo Laviola, i due libri che compongono il Peter Pan di Barrie. Sei legato a qualche ricordo particolare di una scelta lessicale specifica?

L’inglese di Barrie è affascinante, “ingarbugliato”, per certi versi – lo dico per onestà, vecchio. Ci sono termini che nell’inglese di inizio Novecento volevano dire “bretelle” e oggi indicano l’apparecchio dentistico. Ma la vera libertà e rivincita me la sono presa nell’ultimissima riga del romanzo, che in inglese suona così: finché i bambini saranno “gay, innocent and heartless”. In tutte le altre traduzioni italiane “innocent” viene tradotto letteralmente con “innocenti”; io e Leonardo Laviola abbiamo preferito tradurlo con “puri”: “Finché i bambini saranno allegri, puri e senza cuore”. Perché i bambini sperduti non sono affatto innocenti, battagliano uccidono, hanno sempre la lama del pugnale sporca di sangue. Però hanno la purezza dei bambini, cioè quel misto di istinto sragionato che comprende il bene e il male. Tutto perdonano i bambini sperduti (cioè morti, ahimé) di Peter; tutto, tranne la prima offesa. E tutto perdonano perché molto dimenticano. Compresa la risposta a quella famosa domanda di cui ho parlato prima: Che cos’è una madre?  

© Giovanna Amato


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