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Festivaletteratura2019 #4: Tour

Jonathan Safran Foer a Piazza Castello

Chi è il Conoscente del libro eponimo di Umberto Fiori? Perché il Conoscente ha un archivio: fotografie, una canotta blu, perfino una scatola di unghie e capelli che non ha spiegazione. È l’orrore dell’insensatezza: il Conoscente allude sempre a un segreto, poi te lo toglie. «Qualcuno ha detto che il Conoscente è il Diavolo: quello che ti lusinga e che ride da solo, quello che mette in ridicolo ma non prova allegria, come se avesse ricevuto dalla vita una sofferenza da cui non riesce a liberarsi».
Quanto a noi, la pioggia vorrebbe complicare le cose, ma non può niente contro il nostro buonumore. L’organizzazione resiliente del Festlet sposta qualche ingranaggio nelle ubicazioni degli eventi ed eccomi qui, nella Baghdad piena di gelsomini di Elena Loewenthal (ho scritto il mio libro per guarire dalla nostalgia, e ora ho nostalgia di una Baghdad che non esiste) e nella Gerusalemme immaginata da Wlodek Goldkorn (tutte le Gerusalemme sono inventate, anche quella che esiste). Parlano con Chiara Valerio di identità e memoria, realtà, eredità e politica, catastrofi e speranze per patrie vecchie e diaspore nuove, piene di problemi dove lo stesso evento può essere cataclisma per un padre e l’inizio di un nuovo sogno per un figlio. Si parla di andate e ritorni, di deserti rossi così diversi dai boschi dove si fuggiva, deserti che ricordano la promessa di libertà di una tradizione passata. Si parla di avanti e indietro. Chiarisce Elena Loewenthal: «nella lingua ebraica, il prima è di fronte, il dopo è alle tue spalle; per questo la teshuvah, il pentimento di cuore, può realmente cambiare il passato».
Che sia alle spalle o di fronte, quella che ci troviamo a fronteggiare è la scommessa della sopravvivenza; ce ne parla Jonathan Safran Foer nel suo incontro per presentare il suo nuovo Possiamo salvare il mondo prima di cena (Guanda), che riprende tra gli altri il tema degli allevamenti intensivi già affrontato in Se niente importa (Guanda 2010). Ma se nel primo libro si affrontava la questione da un punto di vista etico, qui la realtà ci riguarda più da vicino. Brutalmente parlando: in che modo il nostro consumo eccessivamente orientato alla carne sta compromettendo tutto il nostro pianeta?Non ha intenzione di farci diventare vegani, Foer, anche perché «un solo volo transoceanico disfa un anno di regime di veganesimo»: vuole farci diventare consapevoli, disposti a rinunciare a un pasto a base di carne su due nella certezza che il continuo demandare è pericoloso e accelera la lancetta del Grande Problema. Ciò che ci aspetta è in fondo la somma di tutte le nostre decisioni individuali. Ed è perturbante rendersi conto che qualsiasi narrazione si possa fare della deriva che il nostro pianeta affronta «non è affascinante», come se in qualche modo la nostra mente si stesse difendendo. Ci troviamo di fronte a uragani, incendi, riduzione dei ghiacci, dice l’autore, proviamo allarme e tristezza, eppure dopo un attimo smettiamo di pensarci, come non pensiamo appena svegli alla nostra mortalità. È un istinto. E allora, nella nostra smemoratezza, occorre fare un piano d’azione che renda le nostre scelte degli automatismi. Non mangiare carne prima di cena, ad esempio; prendere poco aereo e macchina; fare meno figli.
Come mai si insiste tanto sulla carne? I dati sono chiari: il 91% degli incendi in Amazzonia, dice Foer, sono serviti a creare campi per l’allevamento, e questo dipende non solo da chi l’ha concesso, ma da noi che forniamo la domanda. Negli USA si mangia sei volte il fabbisogno di carne, e se tutta la popolazione di questi Stati diventasse vegetariana si abbatterebbe il 5% di gas serra. Gas serra che è dato, appunto, per un terzo dagli allevamenti, senza contare lo spreco d’acqua e di cibo necessario a mantenere gli animali da macello.
Il pianeta sta lanciando campanelli sempre più precisi, e Foer si chiede cosa penseranno di lui i suoi figli e i suoi nipoti quando si chiederanno cosa abbiamo e non abbiamo fatto per impedire il nostro stesso suicidio; il tasso di inquinamento, ad esempio, è aumentato dalla II Rivoluzione Industriale nell’ordine di numeri che non ho fatto in tempo ad appuntare. E a chi gli chiede cosa ha provato scrivendo il suo libro, Foer risponde “amore”. Eppure osserva con amarezza che nessuno di noi uscito da piazza Castello ignorerà i rischi di un regime carnivoro, ma quasi tutti mangeremo carne a pranzo, lui incluso.
Altro tesoro da preservare è la nostra lingua. C’è quel momento in cui senti arrivare da lontano la voce di Lella Costa e potrebbe essere chiunque dritto dalla tua infanzia, invece no, è lei, e sta per parlare con Giuseppe Antonelli di ciò che ruota attorno alla parola “teatro” per il “Museo della lingua italiana”, libro e progetto a cura di Antonelli che primo in Italia sistematizza il patrimonio della lingua italiana con sempre nuovi tasselli (è stato chiesto anche al pubblico di fornire un “pezzo” da conservare per un futuro Museo). Teatro chiama oralità: Costa ricorda che in Gran Bretagna non c’è traccia scritta della Costituzione, e soprattutto che ciò che nel teatro cade durante l’oralità è perso per sempre, il copione dovrà adattarsi. Ma le possibilità tra teatro e lingua di crossare sono molteplici: più generi che richiedono più registri, la secolare questione della lingua, la scelta di scrivere in dialetto. Che non è, ricorda Costa, solo caratterizzazione, ma puntualità e descrizione e vita. Si parla di tempi (così difficili da scrivere), di improvvisazione e repertorio, si parla di classici e se hanno ancora qualcosa da dire. Come Enea, sbarcato in Lazio e preso a sassate. Ricordo liberamente la traduzione: “chi siete voi che ci negate un ultimo lembo di terra?” E ai suoi: “temete chi ha poco, perché a noi che non abbiamo nulla è il peggior nemico”.

© Giovanna Amato


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