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Giuseppe Martella, Chiasma: “Il contorno dell’ombra” di Rosa Pierno

Rosa PiernoIl contorno dell’ombra
Oèdipus edizioni, 2020
Il testo

Il contorno dell’ombra di Rosa Pierno è un taccuino di viaggio. Viaggio d’artista dentro e fuori da una stanza, in compagnia  di riflessi, colori, oggetti di uso comune, strumenti e pigmenti di lavoro, e una porta-finestra aperta sul mondo esterno: uno sfondo di paesaggio allumato, di piena luce che bisogna filtrare, regolare, dosare socchiudendo gli scuri, cambiando distanze e prospettive tra gli oggetti, protagonisti del “teatrino intimo” che ospita la facitura di questa “natura morta” – o meglio della vita che freme dentro la forma di cose inerti. Perché in larga misura qui si tratta di una dipintura di interni e della riflessione su questa pratica. Mi piace immaginare questo ambiente come una grande cucina-soggiorno di campagna, o se si vuole anche di uno studio, di una fucina d’artista, fornita di tutto punto, con mobili, mensole, suppellettili, arnesi vari. Oggetti di scena di un teatrino intimo in cui si riassume la vicenda dell’arte del Novecento (nella sua tensione costitutiva tra visibile e invisibile, concreto e astratto, formale e informale) e la funzione di straniamento, delocalizzazione, provocazione che presiede a tutte le poetiche di avanguardia che l’hanno attraversata. E che per lo più, nella loro varietà, si possono ricondurre a un principio anti-mimetico e piuttosto espressivo, costruttivista, materico, o quant’altro. Antiplatonico, si direbbe dunque in via di principio. Per cui ciò che è in gioco qui è anche molto di più di una teoria dell’arte o dell’estetica, ma investe l’intera epistemologia del secolo scorso, nelle sue due grandi dominanti: quella fenomenologica e quella linguistica: l’interfaccia fra mondo e testo, fra gesto e parola, fra presenza e traccia. Ciò di cui si tratta infatti, sia nell’arte che nella filosofia del Novecento, è il problema dell’evidenza, dell’esperienza in prima persona, in quanto garanzia di verità. E della eventuale rivelazione di quest’ultima nell’opera d’arte in quanto accadimento del vero nella finitezza dell’esserci e nella occasionalità delle sue pratiche, contesti e affezioni corporei. Insomma, del suo appartenere, corpo e anima, a quella che Merleau Ponty ha chiamato «la carne del mondo».
Questa implicazione cosmica di una cucina di campagna e delle sue suppellettili può sembrare peregrina, così come l’analogia fra la composizione di una still life e la manifestazione dell’invisibile. Ma credo che tutto ciò sia contenuto in quest’opera, a partire dal suo titolo, Il contorno dell’ombra e dalla serie di tasselli o di formelle (bassorilievi decorativi e tessere di cornice) che tutte insieme la sostanziano e la illustrano. Costituendo, nelle loro molteplici sfaccettature, come una treccia o una traccia di quell’elusivo contorno dell’ombra che è di per sé il limine tra fenomeno ed essenza, cosa e idea, realtà e artificio. E tutto ciò nella piena consapevolezza dell’autrice che ripetutamente insiste sul concetto del mettersi in scena, tra azione e riflessione, fin dalla premessa, dove dichiara di voler «mostrare il baratro tra lo scrivere e il figurare», rimarcando lo iato del proprio operare in «un andare e venire senza remissione» (p. 1), fra le polarità di discorso e figura, linea e colore, presenza e traccia. Scavando nelle pieghe/piaghe della carne del mondo per regalarci una vera e propria ontografia dell’esserci, nel suo sottrarsi alla luce piena per affondare nella penombra della Caverna, in un percorso inverso rispetto a quello del mito platonico, tratteggiando un mondo iper-reale, scovando la vita negli oggetti inerti, dislocando pieni e vuoti, volumi e piani, per comporre una dimora (Heimat), nella tensione tra percezione e concetto, tra chiaroscuro e prospettiva. Una ontografia dell’esserci, dicevo, che va dal «foglio al corpo» e ritorno, nella interazione fra materie e protesi, pigmenti vegetali e minerali, facendosi «depredare dal disegno» (p. 6), consegnandovisi rischiosamente, fino al punto di «riconsiderare lo scopo dell’esistenza e perderla, l’esistenza, senza perder la vita» (p. 6). Così come ci è consentito dalla finzione artistica e dalla sua gratuità gravida di implicazioni imprevedibili, di ordine sia storico che teoretico. Mostrandoci perciò la pittura come un esperimento cruciale sull’invisibile e come «storia dello spreco», creando un microcosmo che si nutre della tensione tra materia e luce, in una seducente deriva dei bordi delle cose, fra addensamenti e sfrangiature: una sorta di erotica e maieutica che emana dal margine tra linea e colore, dove si fondono percezione e immaginazione. E talvolta, in questa ambientazione, pare che il colore voglia prevaricare sul disegno, esondando nella sua fluidità come la vita rispetto alla forma, perché la tinta «disprezza la forma chiusa», fungendo come «un risucchio che riassorbe il mondo in un punto di inversione» (p. 8). Sfidando ogni risoluzione formale ed eidetica, mettendo i «volumi sotto assedio», perché «non esiste nulla di mai veramente chiuso o di definitivamente aperto in una natura morta», in questo «teatrino ambiguamente intimo» dove «tutti recitano una parte impropria» (p. 9). E perché d’altro canto anche «il disegno tenta la forma» naturale (10), ossia la tradisce in una smorfia desiderante. In questo teatrino intimo, dunque, si inscena il dramma della fugace emergenza di ogni forma di vita, l’epifania della singolarità, tra natura e pensiero: nello svelamento reciproco di parte e intero, dettaglio e disegno, nell’ombreggiatura costitutiva dell’essere al mondo.
Si tratta di un dramma i cui personaggi sono oggetti di scena, chincaglieria, suppellettili, mestoli, vasi, bottiglie, cose consuete rese perturbanti dalla variazione sapiente della luce, dal volubile elusivo commercio con le proprie ombre portate, che si accorciano o allungano, inspessiscono o diradano, e audacemente si incrociano svelando nuovi profili del reale. Perché che cosa è l’ombra dopotutto se non essa stessa il margine tra il visibile e l’invisibile – il taglio interno (Riss) e il perimetro (Umriss) o orizzonte della percezione, la ferita intima che bisogna tenere aperta, affinché da essa possa sgorgare la fantasmagoria dell’apparire? In questa commedia archetipale del perturbante, in questo dramma minimalista, si consuma poi anche, nel maneggio dei pastelli, tra «vocaboli e colori», la mai conclusa rincorsa tra essere e coscienza: «non scrivo di me, disegnando. Colorando non afferro concetti» (p. 12). In un riorientamento totale del proprio vissuto che implica anche un depotenziamento della visione rispetto al tatto, del colpo d’occhio sintetico rispetto a una irresoluta tattica di assemblaggio: «dividere e smembrare, per non più ricomporre» (p. 12). Mentre la magia delle ombre incrociate che danno «a bere l’invisibile» tempera la prepotenza della luce, aprendo il campo alla sinestesia. Perché in questo teatrino delle ombre si inscena un dramma antropologico in una serie di labili epifanie del senso della storia e del racconto (p. 15), indagato dai suoi margini, distribuito in una serie di formelle, parerga dell’architettura complessiva del reale, in quanto connubio di visibile e invisibile, nell’alchimia dell’ombra.
In questa dipintura di interni, altri generi pittorici risultano appena accennati, come il ritratto, per esempio, nella sua costitutiva reciprocità di sguardi e contatti, di desiderio e rappresentazione; oppure il paesaggio, che rimane qui come l’esterno, affogato in un’orgia di luce o in un concerto coloristico, a costituire come l’altrove di questa caverna dove si attua la deposizione dell’idea sulla carne del mondo, cioè sul proprio ineludibile piano di immanenza. In una serie aperta di tratteggi che costituiscono altrettante slabbrature del discorso, componendo per associazione i fossili della memoria, tra grammé e logos, tra azione e narrazione, in un’opera aperta in cui l’artista che è anche spettatrice, non si stanca mai di indagare, rimescolando le carte, anche a rischio di mandare “tutto a quarantotto.” In questo suo esercizio della pittura d’interni, in questo scavo nella propria intimità (di cui ora si comprende tutta la portata ontologica), in questo «mondo di seconda mano» al riparo dalla «luce abbacinante dell’esterno», nell’accurata variazione dell’ombreggiatura, «il cielo è sempre a portata di mano» (p 19). Ed è qui che si afferra anche appieno il chiasma (Merleau Ponty) della carne del mondo: il corpo che si fa testo, il testo che prende corpo, nell’imprescindibile intimità della propria dimora. È qui che l’archetipo della Caverna platonica appare rivoltato come un guanto, liquefatto quasi come il tempo negli orologi di Dalì, nella posa di un corpo ripiegato su sé stesso e sul proprio desiderio, rintracciato e stracciato sul limite interno della propria rappresentazione, nella tensione costante tra l’idea e il tratto, la forma e la traccia («il tratto si rivolta contro la figura… strategica la traccia, tenta soluzioni che non rispettano l’ordine prospettico», p. 19), nell’irrisolvibile ambivalenza tra agire e patire, e tra visibile e invisibile. In una radicale resa dei conti del progetto artistico col materiale disponibile e del discorso verbale col segno pittorico, sicché nel susseguirsi di tratteggi, sfumature e cancellazioni, alla fine «il foglio non ha più nulla di lineare, più nessuna similitudine con la scrittura» (p. 21). E fino alla rivelazione dell’invisibile, in quel sortilegio del mimetizzarsi delle cose nel chiaroscuro che custodisce il dramma irrisolto fra materia e luce, disegno e colore.

Il mito  

Ho accennato qua e là che questo taccuino d’artista, nella sua convergenza di pratica e riflessione, figurazione e discorso, costituisce una sorta di rovesciamento del mito platonico della Caverna, e ciò sia in chiave gestaltica che narrativa. Non c’è da meravigliarsi perché l’autrice è bene immersa nella temperie culturale e artistica del Novecento, sicché qui ne offre un distillato e ne compone una miniatura al grado zero della pittura: in quella “natura morta” che di solito è considerata il più umile tra i generi pittorici ma che nella sua nudità risulta il più efficace a mostrare l’avita tenzone tra disegno e colore nonché la funzione mediatrice dell’ombreggiatura. Ho anche ricordato che tutta l’arte del Novecento si sviluppa per lo più in chiave anti-mimetica e dunque apparentemente antiplatonica. Dico “apparentemente” perché la scena della Caverna, luogo di fondazione del pensiero occidentale, come tutti i miti platonici non è mai effettivamente riducibile a una allegoria del suo logos avvenire. E perché ogni dialogo di Platone va interpretato a tutti gli effetti come un dramma che si regge proprio sulla tensione fra mito e logos, e dove il mito funge da ipotesi provvisoria (o fondamento labile) del logos in fieri. E se non fosse che questa funzione ipotetica del mito in generale si palesa poi qui in modo evidente nella struttura sintattica della narrazione, caratterizzata appunto dall’uso reiterato della particella “se”: «se il prigioniero fosse improvvisamente liberato… se dovesse vedere le cose alla luce del sole… se dovesse infine tornare al suo posto dentro la caverna.» Se non fosse insomma che questo mito votato alla metafisica della luce, a ben vedere non mette in scena che una «giostra di penombre»,[1] dove si esplorano i limiti del visibile e dell’udibile, l’interazione tra figure e discorso, teoria e prassi, materia e luce, ombre e volumi, in maniera per certi versi analoga a quanto accade nel nostro testo. Se si fa insomma un po’ di attenzione ai dettagli per coglierne in pieno l’impianto e il suo intimo movimento. La cui direzione complessiva è sempre apparsa ascensionale e liberatoria, ma il cui disegno è in effetti circolare, perché (sebbene solo per ipotesi) il prigioniero illuminato ritorna infine al proprio posto nell’ombra della caverna, dove rimane a lungo attonito, abbagliato dalla visione del sole e dei suoi innumerevoli riflessi sulle cose, incapace persino di scorgere quelle ombre che vedeva prima, e irriso per questo dai compagni, ponendo perfino a rischio la propria vita per voler dare testimonianza di quanto ha visto.
Questo periglioso va e vieni tra interno ed esterno, tra arte e natura, tra ombra e luce, segue tuttavia un percorso inverso rispetto a quello registrato nel taccuino d’artista di Rosa Pierno, che piuttosto si rifugia nella propria dimora, socchiudendo le imposte e dosando sapientemente la luce per poter meglio esplorare «il contorno dell’ombra». È una inversione caratteristica dell’arte e dell’episteme del Novecento, del costruttivismo moderno rispetto al realismo antico. Realismo non affatto ingenuo però, se solo si presta la dovuta attenzione ai particolari dell’intera dipintura platonica. Anche lì, come nella fucina di Pierno, si ritrovano infatti mensole e suppellettili, oggetti di scena e materiali di supporto, e una pluralità di fonti di luce: quella remota dell’ingresso esterno e quella del fuoco ardente sulla strada recintata da un muricciolo che corre alle spalle dei prigionieri, dove transitano i portatori dei più vari oggetti (statue e figure di pietra e di legno), parlando o tacendo. Proiettando insomma lo spettacolo di ombre ed echi che costituisce il mondo ambiente dei prigionieri. Strada, muricciolo e parete della grotta costituiscono qui i limiti del visibile e dell’udibile cui lo stesso prigioniero liberato è riluttante a rinunciare. E nel compito rischioso della testimonianza di cui egli si fa carico, si riassumono poi anche i nessi tra percezione e azione, teoria e prassi, pathos ed ethos, che per altri versi vengono esplorati nella fucina di Pierno. Numerose sono insomma le analogie strutturali fra le due vicende metafisiche, che entrambe si consumano in un gioco continuo di luci, ombre e riflessi, anche se l’inversione speculare che le caratterizza marca la distanza storica e concettuale tra i due artifici. Analogo è però in entrambi l’intento di trarre l’invisibile dal visibile, perché l’ombra in fondo, come l’idea, non è che la zona franca fra il disegno e il colore, fra la materia e la luce, ed esplorarne il contorno non è cosa tanto dissimile dal trarre l’idea dalla varietà dei fenomeni.
L’aspetto pratico-poietico della vicenda del prigioniero è stato però generalmente sottovalutato benché in effetti, come la nostra artista, egli apprenda la sua verità in un caleidoscopio di ombre e di riflessi, nel chiaroscuro dell’esserci, nella specificità della propria dimora, in un reiterato processo di delocalizzazione e ambientamento in cui l’esploratore-testimone opera una radicale ricomposizione tattica tanto del proprio ambiente quanto del proprio ethos. In un proficuo andirivieni fra dentro e fuori, e in quella traspropriazione reciproca di natura e artificio (physis e téchne) che genera l’éidos e il logos umani. In una operazione a finale aperto proprio come quella che compie Rosa Pierno, spettatrice di sé stessa, quando disegna e riflette rimescolando sempre di nuovo le carte, raschiando il fondo delle figure, e rischiando di mandare tutto a quarantotto. Ma ripescando così tra i fossili della propria memoria infantile, la labile figura di un’identità che emerge nel kairòs, nel tempo giusto, attimo ed epoca del proprio operare, per poi subito dileguare alla vista. Una vera e propria epifania dell’esserci a finale aperto, come quello che tocca al prigioniero illuminato, di cui nulla si dice nel mito quanto al suo destino, cioè se verrà o meno creduto o ucciso dai propri compagni di avventura.
Un racconto, dunque, quello della Caverna (la cui problematicità è stata per lo più come rimossa persino nel dibattito specialistico), banalizzato nella storia della sua ricezione e nel senso comune per la sua stessa notorietà, dato per scontato quanto al suo significato, fino a costituire il lapsus originario del discorso filosofico e delle sue ricadute nelle teorie dell’arte e della politica. Ma questo mito contiene il chiasma primigenio fra apparenza ed essenza, e la sua lunga ombra ha costituito per secoli il dualismo canonico fra corpo e mente, realismo e idealismo, fenomeno e idea. Quello che Heidegger, all’inizio di Essere e tempo, in perfetta malafede chiama «l’oblio della questione dell’essere» nella storia del pensiero, attribuendone la responsabilità proprio a Platone, per smorfiarne poi lo stile di indagine e fare man bassa in maniera surrettizia dei suoi concetti. Che un mito a struttura circolare e ipotetica, con un finale aperto, sia stato assunto come il luogo di fondazione della metafisica della “semplice presenza”, costituisce l’ennesima conferma da un lato dell’ipocrisia e dall’altro della credulità del genere umano, a cominciare dalla sua élite intellettuale.  Esso è invece semmai il luogo di elezione di una fenomenologia della percezione e di una ontologia dell’ombra. Sicché la sua rilettura, in parallelo a quella del testo di Pierno, può costituire un esercizio cruciale, offrendoci l’occasione preziosa per riflettere sul chiasma fondante della cultura occidentale.

©GiuseppeMartella

 


[1] Questa felice locuzione è di Giovanni Ibello, Dialoghi con Amin, premio Poesia Città di Fiumicino 2018, sezione “Opera inedita”.

Una replica a “Giuseppe Martella, Chiasma: “Il contorno dell’ombra” di Rosa Pierno”


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