Anna Maria Bonfiglio, Il profumo del mandorlo
Di Felice Edizioni 2019
Il profumo del mandorlo di Anna Maria Bonfiglio raccoglie racconti dall’arco narrativo breve, caratterizzati da una misura esatta, precisa, agile nel costruire le impalcature di personaggi e contesti, partecipata nel percorrerli.
I racconti hanno al loro centro figure femminili che si muovono in luoghi diversi. Li scelgono, li vivono, li abbandonano, li amano, li soffrono, ma a quei luoghi esse non sono mai indifferenti. I luoghi non sono semplici sfondi, scenari alle loro storie d’amore, ma personaggi anch’essi, terminali di sensi e detonatori di percezioni, olfattive, visive, acustiche, tattili, di gusto.
Così come i partner, anche i luoghi non sono mai subiti. La prospettiva personale, privilegiato punto di vista narrativo in questa raccolta di racconti, introduce chi legge in medias res, nelle vite di donne che hanno il semplice, inattuale, prezioso talento di vivere appassionatamente e, accompagnato da altrettanta passione, il talento di vedere con acume contesti e pretesti, prigioni e prospettive, senza sconti e concessioni per sé ancora prima che per gli altri.
In tale appassionata spietatezza, nell’argomentata coscienza di ruoli assegnati, di ruoli rifiutati e di ruoli strappati alle circostanze ostili, nella pacata ma puntuale ribellione alla messa in angolo vedo la semplice, inattuale bellezza della scrittura narrativa di Anna Maria Bonfiglio.
IL PROFUMO DEL MANDORLO
Le luci del solitario viale si riflettevano sull’asfalto bagnato rendendolo simile a un luminoso tappeto semovente, una specie di tapis roulant sul quale sembrava che l’auto scivolasse senza dover giungere a una meta. Il buio rendeva minacciosa la campagna che di giorno era allegra pur nel suo giallo invernale. Al di là della strada si estendeva la Valle dei Templi, disseminata di antiche vestigia, indifferente e sprezzante allo sfregio delle costruzioni selvagge che l’attorniavano. Una matrona orgogliosa, compiaciuta di lasciarsi ammirare e disposta a fare dono delle sue grazie.
La sua mente divagava. Appigliandosi a ciò che la circondava si allontanava dall’evento contingente. Ripensò ad un momento vissuto e incuneato nel passato e ricreò dentro di sé lo stato d’animo che l’aveva accompagnato. E quello la rinviò ad un altro momento e ancora rivisse la sensazione ad esso connessa, in una catena di rimandi che a seguirli l’avrebbero condotta molto lontana dal presente. Le sembrò che la memoria fosse il piccolo cilindro di un prestigiatore dal quale veniva fuori un fazzoletto colorato che a tirarlo si portava appresso un’infinità di altri fazzoletti di colore diverso, in una lunga teoria che non si sarebbe esaurita mai se lui, il demiurgo onnipotente, non avesse cessato l’estrazione.
Nell’oscurità dell’auto, dove lei persisteva in un silenzio che avrebbe dovuto apparire il frutto della sua aderenza a ciò che stava vivendo e che si rivelava invece il risultato dell’imbarazzo e dell’indecisione che aveva cercato di mascherare, la mano di lui si mosse per raggiungere il suo collo che carezzò delicatamente risalendo verso la gota e allungandosi fino all’orecchio.
“ì«Mi sembra di essere tornato ai tempi della scuola –disse- quando cercavo gli angoli bui per appartarmi con la mia ragazza.»
Lei sorrise. «Mi sembra bello –affermò – ritrovare sensazioni così lontane nel tempo.»
«Avrei voluto portarti a casa mia, se avessimo avuto più tempo.» Rimase un attimo in silenzio. Poi continuò: «Quando sarà passata questa buriana di feste verrò a trovarti. Potremo passare un paio di giorni assieme, se sei d’accordo.»
«Si può fare.» La risposta non recava particolari note di entusiasmo, ma lei sperò che fosse almeno credibile.
Non voleva caricare quell’incontro di significati speciali e questo la faceva apparire fredda, forse perfino ostile. Le dispiaceva, non avrebbe voluto che lui la credesse indifferente e apatica, ma si era imposta di non indulgere a facili sentimentalismi. Si era dettata un decalogo che le proibiva gli eccessivi cedimenti, le esaltazioni, le galoppate della fantasia. Il prezzo era questo distacco, il diaframma che doveva opporre fra ciò che sentiva e ciò che viveva. Perciò non aveva posto a lui nessuna domanda e non aveva ceduto a raccontare di sé. La mano di lui, che percorreva la superficie del suo corpo disponibile al tatto, le procurava una sorta di disagio che, partendo da un piccolissimo punto situato nel complesso sistema della sua concezione di certe situazioni, s’irradiava e percorreva tutto il diagramma della sua esistenza vissuta. Era l’impossibilità di liberarsi del pensiero, flusso incontenibile che contaminava ogni sua azione, ogni suo gesto, ogni moto spontaneo dell’anima. Eppure lui le piaceva. La sua disposizione a rendere leggera l’atmosfera fra loro, il tocco delicato ed insinuante delle sue mani, lo sguardo color oliva dei suoi occhi, il suo discorrere puntando dritto all’argomento privilegiato, le piacevano. Il suo era un comportamento onesto, non prometteva niente di più di quanto non gli fosse possibile dare. Ma l’allegria un po’ forzata e qualche riferimento apparentemente casuale facevano sospettare un retroscena serio, tradivano una pensosità che certo derivava da situazioni personali più intricate di quanto non volesse far trasparire. Lei non voleva sapere, la vita di lui non doveva riguardarla, non era disposta a lasciarsi irretire da problemi e complicazioni che non erano suoi.
Giunti al limite della periferia, lui fermò l’auto e protese il busto verso di lei, allargando le braccia per accoglierla. Sarebbe stato facile abbandonarsi, chiudere i contatti con la sua realtà interiore e lasciare che tutto si compisse, se un perverso occhio invisibile non l’avesse resa estranea alla situazione suscitandole un senso di non appartenenza verso quell’abbraccio intriso di tenerezza. E tuttavia il benessere che scaturiva da quelle braccia che l’avvolgevano era il segnale che tutto poteva essere riconvertito se solo lei si fosse lasciata andare e avesse dimenticato. Ma quell’occhio la poneva su un’impalcatura dalla quale osservava se stessa come una presenza altra della quale valutava i gesti e gli abbandoni con vigile attenzione. Di quest’altra se stessa non le appartenevano il capo reclinato sul petto di lui, né le mani che si protendevano verso l’altro, né infine quel fremito convulso al centro del corpo che chiedeva di essere placato. Sue erano invece le lacrime non piante e la dolorosa memoria di altri momenti vissuti con cuore incantato.
Eppure qualcosa in lei, non volendo, rispondeva. Una volontà autonoma che, separandosi dalla sua matrice, agiva da sé. Un ramo che, staccatosi dall’albero-madre, anziché morire attecchiva e rinvigoriva, quasi che proprio il trauma del distacco lo avesse reso vitale.
Le parole di lui accompagnavano ogni gesto e ogni carezza trasmettendo una dolce sensualità. Ma erano come frecce che colpivano il bersaglio senza conficcarvisi per lo spessore marmoreo della superficie. E così tutto galleggiava in una dimensione equorea ed era quasi una irrealtà onirica quell’agitarsi e quel provare a trarre il massimo del piacere da quel cercarsi.
All’improvviso le mani di lei respinsero quel corpo che la sovrastava. E gli occhi di lui ebbero un lampo di sincera delusione. Il gesto gli apparve crudelmente insensato, il capriccio di una bambina che ha promesso di partecipare a un gioco e senza spiegarne il motivo se ne ritira togliendo al compagno il piacere pregustato. Un sorriso imbronciato accompagnò il ritrarsi di lui. Ritornarono indietro in silenzio.
La sera invernale oscurava la Valle dove presto avrebbero cominciato a fiorire i mandorli. Ricordò quando, bambina, allungava le braccia per rubare qualche fiore. Erano così delicati che il più lieve tocco bastava a farne dissolvere i petali. Le sembrò di avvertirne ancora fra le dita l’impalpabile consistenza e perfino di sentirne il profumo.
Il profumo amaro e disfatto di ciò che si perde. (pp. 17-20)