Ogni tanto vado a vedere se c’è Mucci.
Ieri lo ritrovai su una pianta qui sotto, si era arrampicato tra le foglie e di lì guardava passare la gente. La pianta è una di quelle sempreverdi che stanno nelle cassette di legno; ce ne sono quattro, due di qua e due di là, ai lati della porte dell’albergo. Mucci è un soriano stupendo, con gli occhi gialli le zampe davanti un po’ storte, perché è ancora troppo piccolo, ha solo qualche mese.
La prima volta che lo vidi era mezzanotte passata, io stavo rincasando, ero triste, c’era il vento e la notte sembrava gridare con quella voce. Avevo freddo e paura, camminavo rasente alle case, con il cuore che mi batteva forte sul petto. Il mio soprabito svolazzava, non potevo tenerlo chiuso, le gambe ancora senza calze rabbrividivano e i capelli volavano sopra gli occhi. Mentre cercavo la chiave del portone, sentii qualcosa di caldo vicino alle gambe, era Mucci che si strofinava; ancora non si chiamava Mucci, era un gatto senza nome.
Mi seguì per le scale, faceva i gradini di corsa e mentre io salivo mi guardava dall’alto, come a dire: «Ho fatto più presto di te».
Entrò in casa da padrone, miagolava imperioso, gli diedi un po’ di latte avanzato nella pentola, lo bevve avidamente. Dormì tutta la notte su un cuscino.
L’indomani lo pettinai, gli diedi il nome Mucci, gli misi un nastrino rosso al collo. Non protestava affatto, come fosse cosa normale portare un nastro, essere diventato un gatto casalingo invece di un gatto di strada o tutt’al più di albergo. Infatti glielo dissi, mentre mi era saltato sulla schiena e si divertiva a tirarmi i capelli: «Vorrei sapere da dove vieni. Sei fuggito da qualcuno, o sei nato qui sotto in albergo?».
Mi ero intanto affacciata alla finestra e vedevo la gente che passava, l’albergo che è accanto a casa mia aveva messo i tavoli fuori perché la giornata si annunciava splendida. I tavoli avevano tovaglie bianche a quadri gialli e rossi, due signore anziane facevano la colazione, i gondolieri seduti sulla panca di legno leggevano il giornale.
Io vedevo l’acqua di un colore di perla, solcata da rare imbarcazioni, perché era ancora presto; a destra in fondo brillava la grossa cupola di San Simeone.
Mucci sembrava felice e quando lo posi sul cuscino, di nuovo mi saltò sulle spalle per giocare. Ma dopo un poco si avvicinò alla porta miagolando: voleva uscire.
Così incominciai ad insegnargli la strada, su e giù per le scale, dentro e fuori il portone, e mi toccò lasciarlo aperto.
Sulla riva Mucci non ebbe incertezza alcuna, si avvicinò annusando ai gondolieri, si mise ventre a terra appostando un colombo che camminava, ma il colombo gli volò sotto il naso Mucci allora si diresse all’albergo e di lì, sulla porta, si voltò a guardarmi tranquillo. Restò fuori due giorni. Il terzo giorno lo ritrovai accanto al portone, sembrava un batuffolo grigio, un mucchietto di pelliccia. «Ehi, Mucci», dissi, «te la sei passata?». Ma aveva un bel graffio sopra un occhio e camminava zoppo, così venne in casa e vi restò tutto il giorno sempre a dormire e senza mangiare.
Ieri invece di nuovo uscì e poi nel pomeriggio, mentre passavo accanto alle piante, ecco che Mucci miagola e mi chiama. Così l’ho preso e i gondolieri che mi hanno visto mentre lo prendevo, hanno detto: «Xera suo quel gato?». «Sì, è mio», ho risposto, e l’ho portato in casa. Mucci era pazzo di gioia, ha fatto molte corse rotolandosi sui tappeti, poi è andato a molarsi le unghie sulle poltrone, infine è saltato sul tubo della stufa, e poi, con un altro salto è piombato sulla spalle.
«Gatto matto», l’ho sgridato, ma lui era molto grazioso, con un muso quasi triste, e mi guardava con i suoi occhi gialli. L’ho accarezzato a lungo e ronfando si è addormentato. Stamattina invece siamo usciti insieme, io e lui. Io andavo al traghetto e per un pezzo ho camminato sulla riva, Mucci dietro. Sono arrivata a un ponte e lì mi sono fermata, ho detto a Mucci di non seguirmi più, perché la strada era difficile e si sarebbe sperduto. Dall’altra parte l’ho visto che stava al sole, tutto allungato; allora ho continuato la strada per altri ponti e canali, sicché sono arrivata al traghetto.
Era una mattina limpidissima, l’acqua era increspata, i gondolieri traghettavano la gente cantando, e da un alto all’altro del canale si chiamavano, qualche volta anche litigando, ma tutto senza darvi peso.
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in «Nuova Stampa Sera», 3-4 maggio 1952
Una replica a “proSabato: Milena Milani, Gatto matto”
Ripensando alla Venezia di questi tempi bui risulta difficile immaginare un gatto felice, i gondolieri sfaccendati al sole, la città come un luogo normale dove si vive e non si bivacca per le calli, le orde barbariche che la stringono d’assedio in nome del profitto in balia delle maree e delle Grandi Navi, in attesa dell’ennesimo miracolo del Mosè col capo velato per impedire che la sua Luce distrugga le miserabili ombre che governano la meravigliosa città, un tempo dominatrice del mare che oggi la sta sommergendo.
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