Goliarda Sapienza, Il filo di mezzogiorno, La Nave di Teseo, 2019, pp. 200, € 15
È una nuova edizione quella che La Nave di Teseo propone per Il filo di mezzogiorno di Goliarda Sapienza, a cinquant’anni dalla prima uscita per Garzanti (nel maggio del 1969) e dopo quelle per La Tartaruga (2003²) e Baldini e Castoldi (2015³). Il secondo romanzo che l’autrice pubblicava in vita, come ricorda Angelo Pellegrino nella sua prefazione (e che di questa versione è anche il curatore) ha a che fare con l’«analisi selvaggia» ed è una “coraggiosa” critica alla psicanalisi freudiana, vero «monstrum» del Novecento come lo definisce lo stesso Pellegrino.
Nei quarantuno capitoli in cui la narrazione è scandita troviamo alcuni dei suoi principali temi autobiografici già annotati nella quarta di copertina: il rapporto con la famiglia e soprattutto con la madre Maria (Giudice); la follia materna; il fascismo e il periodo dell’occupazione romana; il rapporto con Citto (Maselli); la sopravvivenza agli elettroshock e la terapia con Ignazio Majore.
Se Goliarda Sapienza nasce poeta, come già sostenuto da Anna Toscano e da Fabio Michieli, anche questo è un libro che si fa parola dentro la poesia e il folklore siciliano, e che pone in epigrafe un’avvertenza:
«Non andare fra le viti nel filo di mezzogiorno: è l’ora che il corpo dei defunti, svuotati della carne, con la pelle fina come la cartavelina, appaiono fra la lava. È per questo che le cicale urlano impazzite dal terrore: i morti escono dalla lava, ti seguono e ti fanno smarrire il sentiero e: o morirai di sete fra gli sterpi disseccati dal sole − sterpo secco pure tu − o penserai sempre a loro smarrendo il senno.»
La possibilità di “uscire di senno” nelle ore più calde del giorno secondo una credenza popolare siciliana, in Ancestrale (La Vita Felice 2013) la ritroviamo in un testo poetico: «Posso rievocare il tuo sorriso/ i tuoi tratti accostati al mio respiro/ la tua voce smorzata/ dall’onda del mare/ posso rievocare/ la tua figura nel filo di mezzogiorno/ fra le viti./ Eppure temo/ guardarti ora che taci/ accanto a me raccolta/ dal tuo silenzio.» Che fosse la figura materna − per ipotesi − la destinataria di questa poesia può avere importanza poiché la poesia di Sapienza comincia nell’opera di Maria, come “canzoniere in morte” secondo Fabio Michieli¹ e come diretta citazione letteraria di Goliarda Sapienza secondo chi scrive.²
Ancora la quarta ci parla di autofiction e memoir − per quest’ultimo com’è nella definizione di Gloria Scarfone − che l’autrice, a partire dalle opere Garzanti, proporrebbe per il suo ciclo Autobiografia delle contraddizioni.
Angelo Pellegrino ha accostato Il filo di mezzogiorno al Lamento di Portnoy di Philip Roth che usciva proprio nel 1969. Di certo l’Italia aveva accolto favorevolmente altri classici da cui Sapienza traeva le proprie fonti, ad esempio l’Herzog di Saul Bellow (ed. originale 1964; Feltrinelli 1965):
Herzog caro, hai ragione: in questo secolo di religiosità scientifico-tecnica, l’emozione, l’amore, la scelta morale, la fedeltà e finanche la memoria cadono in sospetto di malattia. Ma a te confido qui a quattr’occhi che anch’io in questo lungo inverno-galera ho scritto un sacco di lettere a mia madre, a questo medico stesso, ai suoi colleghi, a Garibaldi e se vuoi te le farò vedere. Ma ti dico: se siamo morbosi, malati, pazzi, a noi va bene così. Lasciateci la nostra pazzia e la nostra memoria: lasciateci la nostra memoria e i nostri morti. I morti e i pazzi sono sotto la nostra protezione. (cap. Dieci)
Curioso che sia proprio un romanzo epistolare coevo ad ispirare Sapienza, un libro in cui la ricerca dell’identità risultava centrale com’è nel Filo. La sua scrittura “lirica”, che affonda nel poetico e riaffiora in squarci e immagini, tra recupero memoriale e terapia − in due set teatrali: quello del ricordo e dell’Accademia e quello psicanalitico − prosegue un’intenzione che poi si confermerà letterariamente ne L’arte della gioia.
Molti passaggi del Filo rimandano inoltre alla presenza del “muro” e del “bianco”, che ricorderebbero gli spazi del manicomio dove Maria Giudice viveva nel secondo dopoguerra, ma anche a un certo “assedio” che si manifesta nei ricordi bellici e che ricondurrebbe all’internamento come pratica di cura con effetto opposto, un’insistenza vocativa (quella dell’autrice) rivolta al rapporto tra luoghi e potere che, se da un lato la critica ha evidenziato come foucaultiana a proposito dei romanzi carcerari, dall’altro apparirebbe strettamente letteraria, restituita dunque da una lettura degli spazi in termini filosofico-architettonici, ad esempio da una lettura delle funzioni dell’architettura fascista.³
In questi termini il romanzo si proporrebbe come una registrazione interna di più condizioni: la sperimentazione di una “cattiva psicanalisi” ma anche dei vincoli che il fascismo (non dimenticato) aveva imposto in ogni aspetto quotidiano, come anche Pellegrino ha affermato; infine, non ultimo, un’analisi della vita all’interno del manicomio attraverso l’esperienza della madre ma dopo i suoi stessi elettroshock, e comunque dieci anni prima della Legge Basaglia (180/78), come chi scrive ha già affermato in altre sedi.
Quello di Goliarda Sapienza è un vivere in anticipo così come uno ‘scrivere in anticipo’ − anche ne L’arte della gioia − rispetto a certi mutamenti epocali del secondo Novecento, un cogliere attraverso la letteratura alcuni nodi sociali − e legislativi. Ne Il filo di mezzogiorno così si esprimeva: «Ogni individuo ha il suo diritto al suo segreto ed alla sua morte. E come posso io vivere o morire se non rientro in possesso di questo mio diritto?» Non sarà improprio affermare che Sapienza stava mettendo in discussione il tema della morte riconducibile oggi alla proposta di legge in tema di eutanasia, fatto del tutto nuovo e in controtendenza ad un paese cattolico com’era l’Italia degli anni sessanta. Questo punto chiave, ricordato anche da Angelo Pellegrino a proposito del rapporto fra chiesa e stato, nella fattispecie la Democrazia Cristiana, è del tutto rilevante alla luce della possibilità di avvicinarsi al romanzo conoscendo un contesto contrario al testo da più lati.
Quello di Goliarda Sapienza è un ‘significare oltre’ che fa di questo romanzo un necessario tassello per leggere il contemporaneo, com’è nella sua stessa idea di libertà − e lo sappiamo bene − tutta la sua opera.
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¹ Cfr. F. Michieli, Le “parole salvate” di Goliarda Sapienza, in «Poetarum Silva», 28 agosto 2017 qui; F. Michieli Ancora su Ancestrale, in «Poetarum Silva», 10 maggio 2016 qui
² Cfr. A. Trevisan, La “voce” di Maria Giudice tra giornalismo e letteratura, in Querelle des Femmes. Male and female voices in Italy and Europe, a c. di Cerrato Daniele, Schembari Andrea, Velásquez García Sara, Szczecin, Volumina.pl Daniel Krzanowski, 2018, pp. 161-172 [Convegno: XV Congresso Internazionale del Gruppo di Ricerca “Escritoras y Escrituras”: “Voci maschili e femminili tra Italia ed Europa nella Querelle des Femmes”, Facoltà di Filologia dell’Università di Siviglia, Spagna, 12-13-14 novembre 2018]
³ Cfr. A. Trevisan, Muri ‘della mente’e ‘del corpo’nell’opera di Goliarda Sapienza, Pina Bausch e Francesca Woodman, in «Between», Vol VII, No 14, Novembre 2017, qui