
La via del ritorno dal Festlet è impervia, assai più impervia della via di andata. Innanzitutto perché il Festlet è appena finito, ed è quindi il momento più lontano dal successivo. In secondo luogo perché si è reduci da giornate in cui si è riuscito ad ottenere da se stessi il dono dell’ubiquità, e da un viaggio in cui il borsone è carico di libri all’inverosimile. In terzo e ultimo luogo, ma non per questo trascurabile, si fa ritorno a un mondo dominato da insondabili processi, come la necessità di cucinarsi da soli o pagare il caffè.
Scherzi a parte, quello che preme di più, al ritorno dal Festlet, è l’impossibilità fisica di raccontare gli ultimi istanti, gli ultimi sprazzi di un evento che conserva incredibili cartucce per il suo gran finale. Quest’anno, a piazza Castello, in rapidissima successione, Dave Eggers e Ian McEwan. Ho quindi deciso di prendermi qualche giorno dal ritorno (tempo di rassegnarmi al pagamento dei caffè) e di raccontarvi cosa è stato incontrare questi due incredibili autori che, tengo a specificare, come da tradizione si sono fermati sotto il portico di Palazzo Ducale per firmare le copie dei loro libri e farsi scappare anche qualche chiacchiera.Nonostante fossero previsti terribili temporali, il tempo di domenica si è mantenuto splendido. I numeri, le affluenze, sono state da record. Dave Eggers non si fa attendere un minuto, con lui Paolo Giordano parla del suo ultimo libro, La parata, che considera “breve, perturbante e compatto, dove le tematiche di Il cerchio si ambientano in un luogo non specificato dell’Africa”. La storia racconta di due lavoratori che devono costruire in una decina di giorni la prima strada asfaltata che congiunga Nord e Sud per una parata dopo anni di guerra civile. Una storia che è anche simbolo, ma soprattutto scavo nei personaggi – Quattro e Nove, il primo razionale e dedito al lavoro, insensibile a quanto esula dal suo lavoro fino alla paranoia, il secondo così diverso da lui, sempre pronto a curiosare e fare comunella con i locali che accorrono a dare un’occhiata ai lavori. Un romanzo insolitamente breve per Dave Eggers, che esplose al mondo con Opera struggente di un formidabile genio, esuberante fin dal colphon; e Eggers chiarisce come sia stato tentato, in un mercato editoriale quale quello degli Stati Uniti dove spesso la considerazione dei manoscritti va a peso, di “rimpolpare” la sua opera; «poi mi sono tornati in mente La fattoria degli animali, o Il grande Gatsby, e tutti questi capolavori da meno di centocinquanta pagine, quindi mi sono fermato».
Non parla solo di scrittura, Dave Eggers, ma anche di volontariato negli USA dove lo stato non arriva, concentrato com’è sugli studi tecnologici. Corsi di scrittura creativa, ad esempio, che permettano soprattutto agli strati disagiati e ai molti immigrati di esprimersi. «E non bisogna lasciarsi prendere dalle apparenze, negli USA: nativi e afroamericani vendono magliette per Trump ai suoi comizi, e lo sostengono. Quando chiedo loro perché, visto che hanno sempre più problemi a pagarsi delle cure, loro rispondono che un giorno diventeranno come lui, altrettanto ricchi, e per questo le ricchezze non vanno tassate, anche se questo vuol dire per loro non avere un’assicurazione sanitaria».
Mi preparo a McEwan, invece, spulciando Espiazione che non avevo mai letto. L’ho comprato anche per farmelo firmare, di McEwan conosco ancora poco ma so bene l’eleganza nella scrittura, la costruzione a parallelogrammi senza sbavature d’angoli. Espiazione mi sta già conquistando. La quarta di copertina (Einaudi, da una citazione a Repubblica) lo chiama “geometrico” e “cristallino”. Mi trovo perfettamente d’accordo. Mi ritrovo addirittura a non riuscire a posare il libro per seguire l’incontro; McEwan è salito da qualche minuto sul palco ma io vorrei finire pagina 28.
L’autore è Mantova per la seconda volta, intervistato quest’anno da Marcello Fois e tradotto da un’incredibile Marina Astrologo che quest’anno ci ha fatto riconsiderare la parola “interprete” con la sua bravura quasi premonitrice. McEwan è qui per presentare l’ultimo libro, Macchine come me (Einaudi), testimonianza per Fois di un autore che migliora nel tempo. Un futuro malinconico, il problema etico di come si affronta il progresso accanto alla condizione privata di un’impegnativa vita di coppia – una storia che McEwan è disposto a lasciar incolonnare in molti modi dai suoi lettori, «perché quello che accade a un libro quando lo congedi è materia del suo proprio viaggio».
Parlare di esseri creati a propria immagine e somiglianza, come le intelligenze artificiali di questo libro, vuol dire andare a rimestare in tutta una serie di bacini letterari, dalla Genesi al Frankenstein. Ma Fois nota come nella somiglianza di questa creatura protagonista, Adam, ci sia una malinconia tutta umana che viene appunto dal non poter diventare umana a sua volta. Sono molti gli elementi dell’umanità che le mancano, tra gli altri la capacità di mentire, anche di dire bugie bianche. «Adam dovrebbe ricorrere a complessi algoritmi per mentire, e non perdona le bugie», chiarisce McEwan. «Una macchina ti mette davanti anche ai concetti della menzogna e del perdono, della bugia nera e della bugia bianca. La sua regola è di non far male agli umani, e lui è convinto che la verità sia sempre la scelta giusta. Questo romanzo è l’indagine di come potrebbe essere vivere in un contatto intimo, anche sessuale, con un essere totalmente plausibile e totalmente trasparente».
Sono tornata da qualche giorno e ho ovviamente disfatto il borsone. Nel borsone c’è un quaderno, da disfare a sua volta, che conserva tutti gli appunti e i vari biglietti dei treni e i più improbabili pezzi di carta. Tra questi, cinque frontespizi di cinque dei più grandi capolavori della letteratura, firmati dai loro autori. Tutto questo è accaduto in una manciata di giorni. A Mantova ho comprato anche libri che non avevano nessuna attinenza con il Festival, giusto per peggiorare la contrazione del mio trapezio. Ho preso un caffè a Piazza Mantegna mentre qualcuno smontava un palco, poco prima di prendere il treno. Non ho cominciato nemmeno una pagina. Leggere avrebbe aspettato il ritorno a casa, come se il Festival fosse una questione tutta mentale, da poter far durare nel tempo.
© Giovanna Amato