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Stanze che imprigionano: su una figura ossessivo-generazionale in De Lisi, Gallo, Mazziotta

 

Proverò in questo intervento a mettere in rapporto tre libri più o meno recenti di poesia, La stanza vuota di Noemi De Lisi (d’ora in poi Lsv, Ladolfi 2017), Appartamenti o stanze di Carmen Gallo (Aos, Edizioni d’if 2016), Posti a sedere di Luciano Mazziotta (Pas, Valigie rosse 2019), che sembrano in qualche modo richiamarsi tra di loro, agitarsi a vicenda, condividere una problematicità. Intanto (non è questo il punto, ma vale la pena di dirlo) si tratta di tre pubblicazioni eccellenti, che testimoniano uno stato di salute dell’attuale poesia italiana. I tre autori appartengono inoltre alla stessa generazione (praticamente coetanei Gallo e Mazziotta, 1983 e 1984, appena più giovane De Lisi, 1988), e sono tutti e tre meridionali (palermitani De Lisi e Mazziotta, napoletana Gallo). Cercheremo più avanti di capire se questi aspetti contingenti si colleghino a ragioni di sostanza propriamente letteraria. Diciamo subito invece, che è poi la costante che impone l’accostamento, che queste tre opere, di tendenza poematica, si fondano sulla stessa macrofigura ossessiva, propongono cioè, unicamente o quasi, interni, spazi chiusi, locali ermetici, appartamenti… o stanze dove qualcosa avviene, ma non sappiamo definire bene cosa. Non dico che sia una prerogativa assoluta della generazione a cui appartengono i tre poeti (basterebbe guardare a quella immediatamente precedente, e a un’opera come Storie del pavimento, Tic Edizioni 2018, di Gherardo Bortolotti, classe 1972), ma sembra comunque rappresentarne una peculiarità, e infatti questi autori non esauriscono la casistica tra i nati negli anni ottanta (pensiamo ancora una volta a Suite Etnapolis di Antonio Lanza, la cui straordinaria tenuta strutturale deve molto alla forza e coerenza dell’unità di luogo, e dove il termine suite, oltre al significato musicale, richiama anche quello, appunto, di stanza). In linea molto ipotetica, per una generazione cresciuta in mezzo al progressivo dissolvimento, perlomeno virtuale, dello spazio, è facile immaginare una qualche nostalgia di luoghi chiusi, privati, al limite protetti. Ma il punto è che gli spazi in questione hanno davvero poco di rassicurante, risultano piuttosto inquieti, inospitali, troppo vasti o troppo stretti (“Abitavamo una casa troppo grande”, Lsv, p. 13; “Le persone intorno ai tavoli/ sono andate ad abitare/ uno spazio chiuso, laterale”, Aos, p. 15; “la testa sul muro che sbatte/ che apre una faglia nel mezzo”, Pas, p. 20), in ogni caso si respira male (“Mia madre dormiva con affanno”, Lsv, p. 11; “Tutti sentono la mancanza dell’aria”, Aos, p. 17; “aria vera è dopo i vetri ma dentro/ c’è un polmone che scoppia”, Pas, p. 19), si soffre senza poterne uscire. Di fatto sembrano diventare zone di drammatica conflittualità, in cui si addensano contenuti psichici irrisolti. Tutte e tre le opere si dispiegano lungo una sorta di andirivieni pronominale che attesta una frantumazione e dispersione dell’io, e che produce una complicazione o totale accantonamento di un lirismo tradizionale. Proverò adesso ad analizzarle singolarmente, per poi tentare nel finale una qualche sintesi significativa.

La stanza vuota è suddivisa in tre parti (“Io e mia madre”, “Io e Anna”, “Noi”) e sembra configurarsi come un inquietante gioco di proiezioni. Il protagonista vive nella casa in morbosa simbiosi con la madre (“La casa era vecchia, non era manco nostra: soli io e mia madre l’abitavamo”, p. 11) al punto da ripeterne la voce, gli atteggiamenti, perfino le fattezze: “Mi sorprendevo a imitare la sua voce al telefono,/ l’abitudine di premere piano una mano sul petto/ mentre l’altra porta il cibo alla bocca socchiusa./ Spesso mi sorpresi in queste pose/ e mordendo le unghie di nascosto/ mormoravo: «Sembro mia madre»” (p. 13); “se quando la chiamavi da una stanza all’altra/ ti ho risposto io con la sua voce” (p. 53); “Da ogni profilo somigliavo a mia madre,/ gli altri me lo ripetevano come un insulto:/ «Sei troppo magro per essere un maschio!»” (p. 21). La magrezza come carattere attribuito alla femminilità può essere anche quella di un personaggio efebico, ancora incerto sulla propria identità sessuale. Ma questa indecisione presenta già al suo interno qualcosa di tragico, come se lo stesso personaggio maschile fosse soltanto lo schermo rovesciato di un’identità rifiutata. Così la violenza e lo sfregio immaginario del corpo, con una forchetta d’argento beffardamente puntata dalla madre al figlio e poi dal figlio a sé stesso, ci parla non solo di uno scambio perverso e autolesivo, ma del bisogno di essere in qualche modo liberati: “La mettevo sul petto: «T’infilzo, t’infilzo», cominciavo,/ ogni volta col desiderio di spingere più forte di lei” (p. 15). Non va meglio con la fantomatica Anna, con la quale il protagonista instaura nuovamente un rapporto di simmetria e confusione: “ripetevo imitando la sua voce” (p. 29); “Era il tuo nome per dirmi ogni volta, il tuo nome al posto del mio” (p. 32); “imitarti così bene da confondermi./ Diventare te per poterti finalmente amare nell’unico modo,/ diventare te senza lasciarti ricordare nulla della mia vita:/ […] mentre una voce mi chiama da dentro col tuo nome e sanguino” (p. 34); “quando hai parlato per la prima volta e mi hai detto:/ «Non avevo mai incontrato qualcuno con il mio stesso nome»” (p. 41). Alla fine resiste il dubbio che Anna sia esistita o meno al di fuori di chi la racconta: “Poi strappavo una pagina vuota, mi alzavo e gliela passavo così sotto la porta,/ lei me la rimandava con una A scritta sopra, io scrivevo accanto una N/ e ricominciavamo, finché fra le mani non ebbi ANNA e lei non ebbe più niente” (p. 33); “Ogni tanto parlavo fra me come un pazzo e ringhiavo fra i denti una risata:/ «Forse non c’è mai stata!»” (p. 39). Nell’ultimo testo della sezione, l’identificazione sembra essere diventata visionaria e totale: “Cara Anna,/ oggi è arrivata l’ennesima lettera di Anna, l’ho distrutta./ […] Quando mi sono svegliato, stamattina, avevo i capelli lunghi;/ mi sono accorto che sfioravano le spalle ma non mi davano fastidio./ Da dietro potevo sembrare lei: magari qualcuno mi avrebbe chiamato/ col suo nome, ma non mi sarei voltato, per non rovinare tutto./ […] Non posso scrivere cose che non accadono, non posso scriverle:/ «Anna, non sopportavo di vederti fuori da me. Anna, era per amore»” (p. 42). Il poema vortica insomma intorno a un centro tormentato che potremmo definire come rifiuto essenziale del femminile, che intanto ritorna secondo modi e istanze allucinatorie. Va detto che il verso lungo, prosastico e narrativo dell’autrice mantiene zone di misteriosa e irriducibile evocatività, ad esempio rispetto all’immagine principale della stanza, “quel fondo lontano che s’agitava” (p. 11). La stanza e la casa vuota autorizzano però ulteriori simmetrie e sovrapposizioni, che il testo non rende mai puntuali ed esplicite, ma costruisce su un ampio raggio di corrispondenze, di rimandi globali. Il vuoto è infatti percepito come un problema, un motivo di vergogna, qualcosa da contrastare: “Uno per uno guardavo i quadri che lei aveva appeso lungo il corridoio:/ «Così la casa non sembrerà vuota», diceva mentre martellava sui chiodi” (p. 19); “il lungo corridoio fino alla mia stanza,/ quella che tu dicevi vuota/ e io ti odiavo perché dicevi una cosa non vera” (p. 40). Si passa poi all’idea del corpo unico e irripetibile, che si aggira senza peso: “«Un corpo, una sola vita. Un corpo, una sola volta»” (p. 20); “Non avevo pace a pensarmi solo in un corpo/ […] Avrei voluto scrivere solo questo corpo devo vivere” (p. 37); “i nostri corpi erano leggeri, potevano cadere senza tonfi” (p. 51). Spingiamo quindi fino in fondo la simmetria: la stanza vuota può ricordare un corpo vuoto di donna, chiuso a ogni slancio generativo, dovere presunto, meno biologico che simbolico: “Anche se eravamo giovani, i nostri corpi chiamavano i figli./ «Loro ci chiamano ma non dobbiamo sentirli»./ I corpi battevano nel desiderio e ogni colpo era la lettera di un nome:/ «Se viene femmina, la chiamo Anna.»/ «Ti avevo detto di non sentirli!»/ Per dimenticare i corpi dovevamo fingere di non averli./ Camminavamo insieme, attenti a non toccarci con intenzione/ piegando la stretta che volevamo dare in una parola: parto./ […] Solo l’urto del passo chiamava ancora i nostri figli e noi senza corpo/ non potevamo muoverci, spaventati dal rumore del loro primo pianto” (p. 50). Mi pare che l’inquietudine (e perfino l’angoscia) che attraversa il libro debba molto a questa trasposizione.

Per Appartamenti o stanze è utile collegarsi al libro precedente di Carmen Gallo, Paura degli occhi (L’Arcolaio 2014). Lì il problema dello sguardo, dichiarato fin dal titolo, non riusciva a risolversi in una vera apertura, e negli ultimi versi l’opera collassava in una luce per niente naturale, ma piuttosto astratta, “concettuale” (Di Dio 2018). Fino a quel momento, un fitto tessuto metaforico ci diceva molto di una soggettività tormentata, continuando però a interporsi come schermo tra noi e il mondo. L’impossibilità dello sguardo si coniugava con un racconto di paesaggi interiori fatto di nessi emotivi e analogie sorprendenti, lasciando inesplorato l’esterno, il mondo fisicamente presente: l’asse Non vedere/ sentire escludeva quindi la conoscenza del fuori, il sapere cosa accade oltre l’io. Cambia radicalmente la prospettiva nel secondo libro, dove lo sguardo sembra avere assunto il coraggio dell’indagine, e la lingua rinuncia alla precedente euforia metaforica, raffredda la propria temperatura emotiva, si fa visione gelida degli avvenimenti: il nuovo asse Vedere/ sapere sacrifica così il sentire. Ma di quale realtà si parla, quale conoscenza è in gioco? Per questa nuova scena popolata di personaggi inconsistenti come ombre o spettri, più di uno ha parlato di “teatro della mente” (Di Dio 2018), “teatro interiore” (Mancinelli 2017), “teatro psichico” (Cardilli 2019). La stessa epigrafe da Emily Dickinson sembra andare in quella direzione: “Non devi essere una stanza per essere infestata dai fantasmi, non devi essere una casa; la mente ha corridoi che superano i luoghi materiali”. Da un lato assistiamo in effetti a una sorta di narrazione simbolista, alla drammatizzazione di un incubo svuotato dalla paura, a un “teatro interiore” di presenze notturne e ossessive. Ma come detto il libro non sembra affatto arrendersi al puro solipsismo, al riflesso del mondo nella mente, e all’equivalenza tra la mente e la stanza: al di là degli spettri e delle ombre rilancia invece qualcosa, che bisogna provare a definire. Vediamo intanto quali sono le figure che incontriamo: due si stagliano sulle altre, un uomo gravemente ferito dopo un incidente in tangenziale (“L’uomo ha accompagnato il vetro/ lungo una linea gonfia e verticale/ il sangue si è rappreso in fretta/ sul braccio lasciato staccato/ dall’asfalto incerto delle luci/ […] L’uomo urla e piange sotto di noi”, p. 13; “L’uomo in tangenziale fissa il vuoto/ e l’auto rovesciata. La gente intorno/ è agitata”, p. 27) e una donna in avanzata demenza senile (“la donna è bianca/ e non riconosce le lingue e i giorni./ Non chiedetele perché sia lì./ La donna ha un ricordo preciso, e uno solo”, p. 16; “La donna bianca annuisce o trema./ Vista di profilo annuncia/ tempesta, giudizio, concordanza/ difficile della parola al senso”, p. 19; “La donna bianca sente le voci/ ma non distingue i giorni”, p. 22). Poi c’è una donna più giovane, figlia della donna bianca, un uomo, altre donne, da un certo momento in poi un bambino. Infine agisce e parla una prima persona plurale, che possiamo forse considerare un io lirico franto, polverizzato e ricomposto nell’ultima sezione. Provo a ragionare su questo, anche se, come per De Lisi, il tentativo di dare una direzione coerente di senso non può e non deve dissipare il mistero sfuggente di questa scrittura e la sfida continua lanciata al lettore. È vero però che questo “noi” è spesso correlato a idee, immagini, azioni di accudimento, di cura nei confronti degli altri, anche soltanto per il fatto di sorvegliare, di esercitare -e il tema ritorna- lo sguardo: “Noi spegniamo la luce perché ora è notte” (p. 19); “La guardiamo finché non si spoglia./ Vorremmo anche toccarla,/ e invece la mettiamo a letto/ e tratteniamo il fiato per addormentarla” (p. 26); “Noi prendiamo posto nella sua macchina./ Sistemiamo gli specchietti, le allacciamo la cintura./ […] Noi intanto la guardiamo, noi la guardiamo sempre” (p. 28); “Noi ci mettiamo in fila/ con gli occhi degli altri a guardare” (p. 29); “Noi ci occupiamo di lui./ Lo laviamo, lo pettiniamo. Lo facciamo diventare/ grande grande e non si vede mai più” (p. 34); “Se non possiamo guardarla non siamo più sicuri di esistere” (p. 38); “La donna non vuole ascoltarci, noi insistiamo, le spieghiamo che sua madre adesso è una sedia” (p. 39). Rispetto alla sofferenza delle altre figure, il “noi” sembra porsi in una posizione tutelare, per quanto nessuna immagine sia univoca e la stessa cura possa confondersi con la minaccia, ad esempio qui: “Quando arriva nella stanza/ le donne tornano grandi e urlano più forte./ Noi le chiudiamo tutte a chiave/ e non si sente più nessun rumore”, p. 22 (che possiamo interpretare positivamente se le donne stanno per le voci da mettere a tacere nella testa della donna bianca, i fantasmi di un fantasma). La mia idea è insomma che questo libro alla fine si disponga come il rovescio dell’epigrafe che si è data, come il tentativo di oltrepassare “i corridoi della mente” per riconoscere il dolore degli altri e affrontarlo e prenderne consapevolezza. Al tempo stesso è però un pensiero che spaventa, da cui rifuggiamo, come una necessità inevitabile e odiosa, come un ruolo che non vorremmo avere: “La donna ogni tanto chiama il nostro nome./ Noi accendiamo il televisore/ e giochiamo a nascondino/ e non ci facciamo trovare mai” (p. 33); “A noi non interessa la morte, non ci piace il dolore” (p. 37); “Noi proviamo a toccarla e a baciarla, ma lei è al centro della stanza, e noi non riusciamo a raggiungerla” (p. 41); “ancora aspetto che la tua voce/ torni indietro metallica/ come una specie di dolore/ non compatibile con la vita ordinaria” (p. 49).

Fino a qui, in De Lisi e Gallo non abbiamo incontrato nulla di eminentemente regionalistico e locale, palermitano o partenopeo. In Mazziotta troviamo invece degli agganci diretti alla città di origine, in una sezione, peraltro splendida, intitolata Case museo, che ci conduce prima alla Cripta dei Cappuccini e poi a Palazzo Abatellis con il famoso affresco del Trionfo della Morte (più il riferimento implicito, nel finale dell’opera, a un altro luogo palermitano emblematico, le carceri dell’Inquisizione: “rimando a un giardino a una piazza/ a palermo e si ricavano in mezzo cunicoli/ tane di topi da lì ai sotterranei con scritte murarie:/ martiri e condanne”, p. 75). Eppure il conflitto non sembra tanto avvenire rispetto allo spazio, quanto piuttosto nei confronti del tempo e del suo corollario definitivo. È come se una spiccata propensione analitica, già dispiegata nel libro precedente (Previsioni e lapsus, Zona 2014), venisse qui applicata a ciò che per definizione sfugge a ogni analisi (se è vero che né il sole né la morte si possono guardare in faccia a lungo, come diceva quello), appoggiandosi allo specchio protettivo dell’ecfrasi (“arriva al museo. l’affresco risolve il problema di esistere./ un teschio galoppa a cavallo e stormi di umani”, p. 54). Posti a sedere parla però innanzitutto di interni abitati, e lo fa spingendo la scrittura fino a un punto spettrale di sparizione dell’io, di musicale dissolvimento della soggettività. Quelli che in Previsioni… erano ancora i cubi e gli spigoli concettuali di Malevic, ossessione di controllo razionale sull’esperienza, diventano ora vani, porte, cornici (con rinvii alla pittura nordica, Bosch, Magritte, e a Goya) dove “quello che accade ci accade di spalle” (p. 25) e non si vive “all’interno di un futuro” (p. 13), “di un presente” (p. 16) o “di un passato” (p. 19). Siamo appunto “posti a sedere” da qualcuno o da qualcosa, con tutta la forza drammatica di un destino sociale, “a comporre ogni giorno la scena finale di melancholia” (p. 43), a essere insomma ciò che non avevamo previsto, aspettando immobili la fine. E si ripete l’immagine all’ingresso della Cripta dei Cappuccini: “anche loro sono posti a sedere in attesa/ anche lui il primo a sinistra dopo le scale” (p. 47). Non ci sono dubbi: questa ripresa mostra con chiarezza la macro-corrispondenza che struttura il libro in due blocchi principali: vivi rappresentati come morti, morti rappresentati come vivi. Così da una parte le mummie ispirano fraintendimenti e compassione (“ad esempio quello con l’abito/ scuro somiglia ad un vivo rimasto alla luce/ ché qui non voleva incontrarsi. guardalo: è lui”, p. 47; “sembrano pronti ad alzarsi e venire con noi”, p. 50; “noi questi/ potremmo portarceli in casa e accudirli”, p. 51), dall’altra i viventi sono ridotti a presenze larvali, evanescenti. Ci avverte da subito l’epigrafe da Bernhard: “La casa non era vuota, era/ morta. È una cripta, pensavo”. Se dunque la casa è un “loculo […] inagibile” (p. 34), si sta come sepolti vivi al suo interno, i morti precedenti contaminano il presente, chi arriva da fuori sbiadisce a sua volta: “e gli ospiti sono fantasmi ai lati del pendolo” (p. 7); “la foto di uno che è morto con uno/ che è vivo. secolo ventuno” (p. 13); “il tonfo di pioggia portato all’interno per sbaglio/ non turba il letargo di chi in questa casa ci vive” (p. 17); “possiamo anche morirci – ora subito dopo/ l’acquisto il restauro […] cadranno di certo di notte/ durante il buio profondo – quando i sonnambuli/ parlano ai morti” (p. 42); “si scaldano gli ambienti con l’alito dei morti” (p. 73). Il mondo esiste “fuori dal muro” (p. 20), si manifesta di notte nel palazzo di fronte come “impero di luci” (p. 25), ma le persone all’interno (probabilmente una coppia, nella sezione Fanno spazio) continuano a odiarsi, a mancarsi fra di loro e a mancare il presente che “remains uninhabitable” (e questa è la citazione da Schultz che chiude il libro). Poi “rimuovono le sedie” inutilmente (p. 31, mentre in Aos la donna con i capelli neri chiedeva “ai tavoli di spostarsi, di lasciare/ libero lo spazio per chi vuole ballare”, p. 15), allagano la casa e fingono la morte come un gesto di aggressività verso l’altro: “li osserviamo nell’acquario fare spazio alle mangrovie/ recitare il morto a galla come se fosse vero” (p. 36, e così dentro Lsv leggevamo una reazione di questo tipo: “Smettila di fare il morto, mi stai facendo arrabbiare”, p. 55). Si finisce per essere come “un albero genealogico dai rami sterili” (p. 75) proprio perché il presente appare irrimediabilmente inaridito, cupamente idiosincratico (e questo verso dedicato al ragnetto dei muri, “di nuovo un punto rosso che annulla la galassia”, p. 73, possiamo considerarlo, se vogliamo, una definizione metaforica perfetta di nevrosi). Il gelo apparente della scrittura di Mazziotta è dunque attraversato in realtà dal nervosismo e dalla paura, dall’incubo di una morte affettiva, emotiva, dal pensiero che la nostra stessa casa possa farsi cripta, casa museo. Che i vivi diventino insomma cadaveri o fantasmi anzitempo, pur di non perdere il proprio “posto a sedere”, la propria collocazione comoda nel mondo. Direi in conclusione che tutti e tre i libri si confrontano con un certo senso di imprigionamento che ha molto a che vedere con il dover essere, con le costrizioni, con i ruoli imposti e subiti, e infine con il compimento di una maturazione traumatica. Sarebbe un azzardo restringere questo alla sola generazione attuale di trentenni e post-trentenni, ma di certo il senso della libertà individuale si è ormai talmente rafforzato che tutto ciò che alluda al suo contrario può assumere oggi più di ieri proporzioni iperboliche, contorni fantasmatici. O realizzarsi poeticamente nella figura di luoghi chiusi, invasi dal mistero e dalla morte, come gli autori qui trattati hanno fatto in modo memorabile.

@andreaaccardi

Una replica a “Stanze che imprigionano: su una figura ossessivo-generazionale in De Lisi, Gallo, Mazziotta”


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