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proSabato: Giovanni Comisso, Orfeo in cucina

SONO ANDATO alla fiera annuale, poco fuori dalla città, curioso di osservare le contrattazioni di bestiame e anche di rivedere da vicino questi animali dopo tanto che non ho più familiarità con loro. Mi ritrovavo come quando si andava di primo mattino ai mercati, intontito dal sonno e dal sole che batteva dovunque sugli occhi. Da principio vidi solo una grande confusione, poi ritrovai i vecchi mediatori che riconoscendomi credevano avessi ancora intenzione di comperare, ma toglievo a loro ogni illusione, non sapevano che non avevo più campi da arare. Erano un poco invecchiati, ma ancora validi e mi accorsi dopo che da tempo non parlavo con loro che avevano un timbro di voce curioso, stretto e martellante, congegnato di proposito per essere convincenti e accerchianti. Quando essi sono a un mercato risultano come attori sulla scena, devono avere la loro cadenza di recitazione. Sono bravi e tenaci attori che sanno impersonare le più difficili variazioni di tanti sentimenti. Devono lusingare, convincere, fingere di sentirsi offesi, disgustati, indispettiti e così: soddisfatti, contenti, felici ad affare concluso. Ma in quel momento a loro non importa nulla, recitano sempre quelle parti, è solo alla sera che sentiranno di essere veramente soddisfatti o no in base al resoconto degli affari della giornata.
Ero così intontito che pensavo non vi fosse alcuna differenza tra l’intonazione canora del richiamo di un venditore di castagne e il muggito di un bue affamato. Lentamente potei discernere qualcosa nella folla, tra quella gente informe coperta di stracci sbucarono quattro teste di buoi bianchi e rocciosi, lanose tra le corna ricurve, biondi negli occhi tra le lunghe ciglia bianche, uno sguardo quasi cieco come nelle sculture, e quell quattro teste mi ricordarono un bassorilievo antico forse del Partenone o di qualche ara. La folla li riassorbì come un sipario e ritornai a vedere solo uomini, uomini di campagna vecchi e deformi, zoppi, con baffi spioventi, rinsecchiti e obesi, bruttissima gente che non mi ero mai accorto frequentasse i mercati di bestiame. Come non potevo dare a loro un’anima, non potevo immaginare avessero un corpo sotto a quegli stracci dei loro vestiti. Non avendo più da spartire con loro né come contadini, né come mediatori, li sentivo non solo di un’altra razza, ma di un altro mondo, forse usciti di sotto terra come le talpe. Ma per avere ancora di più disgusto di loro mi accadde di vederli mangiare voracemente dei polipi bolliti che una don na offriva a loro come fosse la sua carne. Li lusingava proprio come aveva fatto per se stessa, in altri tempi, e ne conservava ancora tutta l’arte. Era tanta l’avidità che non accorgevano d’insozzarsi le guance con le interiora verdastre del polipo. Un vecchio stecchito ne aveva già mangiato due come per rimpolparsi di quella carne rosea e lucente che stiracchiava cone le mani tremanti dai pochi denti che la trattenevano. Dietro alla donna un uomo irsuto che la luce del mattino definiva in tutte le rughe della fronte e del volto, un specie di stregone, ravvivava il fuoco su cui bolliva una grande pentola nera e vi buttava dentro quei polipi come fossero rospi o vipere da fare intrugli diabolici. Un’altra donna alta e formosa con coscie [sic.] sovrabbondanti passava tra tutti quegli uomini sforzando alterezza nello sguardo sebbene, sicura di non essere ancora disfatta, fosse intimidita nel sentirsi da tutti riguardare, distogliendo la loro attenzione dai fianchi degli animali ai suoi ondeggiamenti. Neanche i ragazzi che tenevano gli animali per la cavezza avevano un minimo d’armonia, intristiti come convalescenti, allungati nella magrezza, torbido e inesistente lo sguardo.
Passai a riguardare le alte cime degli alberi oltre la massa d’uomini e di animali. Si alzavano nel cielo purissimo, purissime erano le frondi, schiette, diritte che immergevano le foglie tremule a dissetarsi d’aria più alta, più pura dove non arrivasse il fiato degli uomini. Fu come riguardassi un’isola tutta di roccia compatta. Poi deviai per uscire dal mercato, la gente si diradava, in grandi ceste coperte da una rete, tra la paglia stavano stipati rosei maialini che dormivano nel calore emanato da loro che assommava a quello del sole. Qualcuno nel sogno o risvegliandosi dava freschi strilli, erano puliti come lavati col sapone, dal piccolo grugno al codino che serpeggiava irrequieto.
Ma alcuni giorni dopo andai tra le colline, sotto alle prime alpi, dove Canova era nato e proprio vicino alla villa, dove aveva fatto le sue prime statue, quella di Orfeo e di Euridice. Orfeo nell’atto di volgersi ed Euridice che viene riafferrata dalle fiamme. Non ancora suggestionato da un classicismo schematico, sono le più morbide tra tutte le sue statue. I due modelli sono della sua stesa terra, li trovò tra quelle colline.
Vicino alla villa è una trattoria, era sera e avevo voglia di cenare, la stanza di fondo era divisa con una vetrata dalla cucina, dove a un grande focolare annerito giravano molti spiedi di polli, i carboni ardenti ogni tanto davano fiamme e attorno vi lavorava alacre un cuoco giovanetto della stessa età di Orfeo. Passava dal focolare a una grande tavola, toglieva i polli dallo spiedo e con una grande forbice li tagliava in quattro. Il grande caldo della brac lo faceva sudare, aveva sulla pelle una semplice maglietta che gli scopriva le braccia, sudava alla fronte sotto al grande ciuffo biondo, l’oro e il roseo del volto erano i colori che mancavano all’Orfeo di Canova, ma la maglietta leggera lasciava vedere la stessa modellazione del corpo. E il suo calore e il suo affanno erano in vero come fosse sceso agli Inferi per liberare la su Euridice. finalmente si trovava un essere umano che non smentiva le opere di Canova, bisognava venire nella sua terra per ritrovarle. Ma quello che divenne sovrumano, e me n’accorsi mentre stavo mangiando di quel pollo che era dorato, come se Orfeo vi avesse scosso di sopra la porpora dei suoi capelli, fu che attorno a lui circolavano due o tre cameriere, stupende nell’alta figura equilibrata al passo rapido nell’andare e venire per ritirare le pietanze. Vi era una fretta assillante per servire altra gente che entrava numerosa, quelle cameriere giovanissime si riferivano al cuoco senza guardarlo ed egli a capo chino rispondeva senza guardarle, il suo sguardo fuggente stava fisso tra gli spiedi e la tavola, quell’Orfeo ubbidiva all’ordine delle divinità infernali, non riguardava alcuna di quelle, che avrebbe potuto essere la sua Euridice, e nessuna veniva avvolta dalle fiamme che serpeggiavano dai carboni, per essergli rapita. Tutto era diventato realtà: statue e mito.

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In «Il Mondo», 31 dicembre 1957.

Una replica a “proSabato: Giovanni Comisso, Orfeo in cucina”

  1. Bellissimo brano che vive dello stridore tra lo sguardo rasoterra, che incontra rozzezza e deformità, e l’elevazione alla bellezza del mito che sorprende ed ammalia incarnandosi. Grazie della proposta.

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