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Pitture rupestri e visioni di poetica in Bortolotti, D’Andrea, Di Dio, Mari

 

Pitture rupestri e visioni di poetica in Bortolotti, D’Andrea, Di Dio, Mari

 

Provo qui a prendere in considerazione quattro opere, tre delle quali uscite in questi ultimi mesi, curiosamente legate dalla ricorrenza di un’immagine, dal riferimento più o meno diretto a pitture rupestri e preistoriche, che mi sembra agire come una sorta di dispositivo figurale o piccolo specchio collocato al centro di ogni libro, e capace di restituire al lettore una dichiarazione, una visione di poetica. La casistica potrebbe includere autori del passato, anche stranieri, come Char e Domin; qui colpisce però l’assiduità recentissima di questa figura, che sembra avere delle ragioni legate al nostro presente. Comincio da un titolo che mi è già capitato di commentare pochissimo tempo fa e sul quale ritorno, a conferma della stratificazione e complessità della scrittura in gioco: Verso le stelle glaciali di Tommaso Di Dio (Interlinea 2020), dove i testi dialogano con immagini vere e proprie, ben dieci, per lo più fotografie, poi liberamente descritte nel sorprendente finale in prosa. La seconda sezione L’occhio azzurro L’ospedale la caverna è così anticipata da un dettaglio delle grotte di Lascaux, in cui bovini, cervi e cavalli emergono dalla parete. È il preludio visivo al racconto del dramma, la malattia dell’amico poeta Mario Benedetti e la sua regressione in una sorta di preistoria della mente, di antro senza individualità e alfabeto («Dentro la caverna, hanno trovato/ residui organici, rocce e frammenti di corno/ sbozzato in zagaglie», p. 49), in un’equivalenza che proprio l’ecfrasi conclusiva rende esplicita («Chi arriva fino a qui, si dice possa raggiungere un luogo che gli studiosi chiamano La Mente», p. 131). Se pensiamo alla poesia di Mario Benedetti, l’incantamento/inciampamento della sua sintassi sembra esso stesso fermarsi sulla soglia del mutismo, dello sconcerto, dell’interiezione, ed è come se Di Dio facesse ora di quello spazio di scomparsa (quell’amico diventato caverna) la fonte di tutte le parole: «Le nostre parole stanno per raggiungerci./ Dal primo grugnito; dal primo bramito/ al più profondo/ silenzio tra due umani» (p. 121). Perfino il viaggio di Colombo, terza sezione e centro vorticoso dell’immaginario, si dichiara diretto dove «le parole finiscono» (p. 72). È la dialettica paradossale che attraversa tutta l’opera, sospesa tra vis poetica portata allo stremo e ansia, bisogno del suo spegnimento (al punto da invitare infine il lettore ad abbandonare il libro per cercare il mondo, dopo avere però lungamente parlato, sfidato qualcosa che non si vede).
Con Querencia di Lorenzo Mari (Oèdipus 2019) cambiamo del tutto maniera, ed è come se un principio di negazione, di annullamento fosse già interno alla scrittura, sospendesse le strutture della lingua in arcate incompiute («Tace come per dire oh non fosse così, e nel mentre», p. 9), impedisse l’enunciato altisonante («Predica a lungo. Predica niente. Predica vuoto», p. 8). Siamo nel solco di quella insofferenza tipica di un certo sperimentalismo nei confronti di una poesia assertiva, grammaticalmente educata, senza che questo diventi però in Mari un semplice gioco incendiario. Al contrario, il lessema spagnolo scelto per il titolo è parola intricata, indica il desiderio, ma anche il rimpianto del luogo di origine, e infine lo spazio che il toro durante la corrida designa come il proprio rifugio, ed è come se questo linguaggio sfuggente e poco afferrabile, ritmato in modo assillante, puntasse quasi a diventare isomorfo alla pulsione. Il testo fa tuttavia emergere tre luoghi che si succedono e compenetrano – la chiesa, il campo da tennis e l’arena – per altrettanti eventi o riti collettivi – la messa, Wimbledon e appunto la corrida – che davvero poco avrebbero in comune, a parte un oggetto – Dio, pallina, toro – che può esistere soltanto nella tensione, nella separazione, e mai come conquista definitiva. Altrimenti, ecco che finiscono le parole, finisce il gioco, subentra la morte – fino alla volta successiva («esiste una pietà anche al toro/ anche al torero nascosta», p. 7). C’è davvero, come hanno notato altri commentatori, qualcosa di inesauribile e in fondo disperato dentro questa ricerca, come uno struggimento senza soluzione («niente desidera ciò che desidera sempre», p. 24). Eppure al contempo una strana euforia attraversa queste pagine, l’abbandono a un «lallare diverso», una lingua «potente poiché debole» (p. 27), libera dagli obblighi della prosodia adulta, dal peso dei significati. Un altro sito preistorico, le grotte di Chauvet (e Chauvet è il titolo della seconda parte del libro), funziona così da rispecchiamento profondo per questa poesia, come ha già notato Viola Amarelli in un articolo molto bello («l’urgenza e l’affollamento di figurazioni, urgenza e affollamento che similarmente connotano i dipinti nella grotta di Chauvet»). Aggiungerei che le immagini emerse dalla parete ricordano lo stupore dei rinvii referenziali in una scrittura nel frattempo presa nella fuga dei significanti («dalla caverna uscire usciremo: lallando», p. 33).
Quando arrivarono gli alieni di Gherardo Bortolotti (Benway Series 2016, ma io cito da Low. Una trilogia, Tic Edizioni 2020) appare innanzitutto come la rimotivazione di un genere narrativo all’interno della scrittura caratteristica di questo autore, fatta di frammenti prosastici simili a referti, dischiusi a improvvise rivelazioni dell’esperienza. Va poi da sé che Bortolotti non giochi davvero al gioco della fantascienza, tanto più che gli alieni in questione risultano essere soltanto gli spettatori di un mondo post-apocalittico e post-capitalistico («i passeri e i cani randagi si aggiravano tra i resti di un’epoca di benessere diffuso», p. 151), dove frotte residue di umani si affaccendano in scontri, guerriglie, esplorazioni estreme della rete («in molti iniziarono a sondare i livelli più profondi di Internet in cerca di un luogo privilegiato», p. 185) e viaggi interstellari tra civiltà a loro volta collassate («Su Altair IV trovammo le rovine di quartieri residenziali che si estendevano a perdita d’occhio», p. 155). La fantascienza va dunque considerata un brillante pretesto, così come lo sguardo dell’alieno funziona letteralmente come lo sguardo dell’altro sul nostro mondo, ed è la perfetta raffigurazione di uno stile ormai collaudato, a prima vista dimesso e freddo, in verità estraneo per eccesso di coinvolgimento (non c’è spazio o quasi per l’io in Bortolotti, sostituito dalla terza persona o da un distanziante “noi”). Proprio le incursioni silenziose degli alieni fra gli uomini (in contrasto con altre zone del testo volutamente anodine e refrattarie, dove la lingua si impasta con lessici specialistici) aprono improvvisi e commoventi squarci sui nostri abbandoni disadorni: «Degli alieni il silenzio era profondissimo e lo sguardo non ci abbandonava per lunghissimi minuti, come se fossimo noi l’evento inaspettato, il dato incongruente in un quadro, fino a quel momento, sinistramente normale» (p. 141); «Gli alieni ci stavano accanto nei momenti della rammemorazione, nelle serate passate in casa senza il senso di un futuro, e ci raccontavano di un odio ancora più feroce, che però noi temevamo. Ci accarezzavano il capo e il silenzio si scavava ulteriormente» (p. 147); «Nei pomeriggi più profondi, ci raggiungevano nei nostri salotti, nei corridoi in cui avevamo indugiato per abitudine, e ci facevano un gesto, un cenno senza futuro» (p. 163). Altrove a distanze siderali, gli alieni hanno invece lasciato tracce rupestri, segni geometrici che riattivano infinità emotive, come un senso del tempo al di fuori della nostra portata: «Quando trovammo le prime piccole figure di esagoni e triangoli, incise nelle pareti dei crateri di Phobos, sentimmo svegliarsi in noi alcuni strani e immensi ricordi prenatali e volgemmo, d’istinto, lo sguardo verso l’Orsa Maggiore e i glaciali riverberi di Alcor» (p. 154). Sulla Terra disseminano poi altri segni illeggibili e manufatti indecifrabili, che provocano in chi li raccoglie una desolazione inerme: «Ci accampammo per lo più nei quartieri periferici, dove le tracce degli alieni erano ancora forti e, sui muri esterni delle banche e delle concessionarie di automobili, apparivano le scritte che avevano lasciato» (p. 145); «Alcuni di loro rispondevano, tracciando piccoli disegni sull’asfalto, inclinando i pali dei cartelli stradali, e cercavano di distendere la loro ombra sulle strisce dei parcheggi, secondo quelli che sembravano complessi disegni rituali» (p. 150); «gli alieni iniziarono a lasciare per strada, sui muretti, nei parcheggi dei supermercati, manufatti dai colori pastello, smussati, in genere poco più grandi di qualche centimetro. […] Tra le dita, ci davano una sensazione di mesto sconforto, di stupore astratto» (p. 159). L’infinità da cui scrivono gli alieni, il loro linguaggio agrammaticale fuori della Storia ci parlano forse del nostro rimpianto o nostalgia del futuro, dei segnali che l’avvenire ci ha mandato e non abbiamo saputo leggere: «il nostro riscatto era sempre alle nostre spalle» (p. 178); del tempo che non si è fatto ma che sembrava annunciarsi, «quando gli alberi dei giardini privati, frusciando, tenevano sospeso il quartiere» (p. 159).
Concludo con Gianluca D’Andrea e con il suo Nuovo inizio, che non è materialmente un libro, ma un poema ipermediale in due parti, che mischia versi, prosa, immagini, video, un progetto molto ambizioso e suggestivo, fruibile per intero sul sito dell’autore. Anche qui troviamo una sorta di cornice fantascientifica, la strana situazione in cui si trova l’io lirico protagonista: «Nella capsula, l’aria viziata/ non era stata ancora incanalata/ nel tubo di espulsione./ Guardavo in apprensione/ eppure con distacco/ l’acqua intoccabile dopo/ che l’ultimo strato si era dissolto./ Fuori dalla piccola sfera/ non avrei sopportato l’aria/ se non per qualche ora» (I, I). Molti frammenti dopo, scopriamo però che si era trattato piuttosto di un qualche esperimento psichico: «Al risveglio non mi sentivo frastornato, perché il ciclo di ottanta minuti, se non disturbato da imprevisti esterni, come nella fase REM, si conclude senza traumi. Lo psicologo è subito pronto a riattivare il dialogo che, nella percezione del soggetto, sembra interrotto da anni» (I, XL). Il tutto si configura come uno sprofondamento nella mente e nella memoria, dove ricordi, associazioni, visioni personali emergono comunque da una dimensione collettiva stridente e totalizzante, che va dalle tragedie della Storia al pop più scanzonato. Durante il tragitto incrociamo quindi il record di Ben Johnson, l’architettura razionalista, il Trittico delle delizie e l’incubo di Füssli, MasterChef, IKEA, le ombre di Hiroshima stampate sui muri dal flash dell’esplosione, le canzoni di Fiordaliso che accompagnano tramonti che uniscono «la luce aranciata […] allo strato fuligginoso dell’atmosfera» (I, XIV), e poi il discorso di Martin Luther King e la dichiarazione di guerra di Mussolini, Sinéad O’Connor, David Bowie, il secondo tragico Fantozzi, la visita di Primo Levi ad Auschwitz, e molto altro ancora. Nella seconda parte, con il ritorno a casa, il protagonista ha come un’allucinazione nel salotto, che si riempie di pitture rupestri: «Riflettevo su realtà e rappresentazione perché le ombre sulle pareti assumevano forme sempre meno vaghe. Immaginavo o vedevo animali stilizzati? Scene di caccia preistoriche, come in quei graffiti negli anfratti antichi delle grotte. I predecessori sono il baratro in cui sono risucchiati gli orrori, le ferite e i traumi, i sogni morbosi di ombre che vengono incontro, le forze esterne pronte ad annientarci. La paura di essere niente ha prodotto ogni macchinazione. Cadevo dalla superficie delle pareti dentro le ombre» (II, IV). È come se ogni avvenimento del passato nella memoria si rapprendesse in una scena violenta, incontrollata e misteriosa, come se queste immagini stilizzate non fossero che il precipitato nella mente di tutte quelle altre, senza un centro, un asse che le organizzi insieme («tutti i mostri sfilano/ da epoche numerose, da crepe spalancate», II, XL). Da quel momento in poi attraversiamo un incubo più tradizionale, senza mediazione, dentro spazi aperti, «un lago viscoso […] dentro cui sciamavano/ frotte di moscerini a stento visibili» (II, V), una donna enorme che «avanzava guidando un enorme triciclo» (II, VI), una porta di calcio «disegnata su una parete ricoperta di edera e crepe» e un bambino che incide il pallone «con un falcetto» (II, XVI), la casa di una vecchia zoppa, le alghe del lago appese ai cembri di un sentiero, e la sensazione che ogni evento della vita non abbia «alcuna connessione con ciò che ci ostiniamo a chiamare reale» (II, XXXVI). Questa strana opera ci dice molto insomma sulla nostra mente all’epoca della medialità esplosa, e lo fa in modo mimetico, si fa essa stessa capsula ridondante, scorribanda di immagini, e continua come un percorso in levare verso il proprio sé, che risulta però schermato, fino all’ultimo, perfino negli affetti privati, contro «la paura di essere niente» (chiude infatti la traccia audio di Senza Fine, Gino Paoli, come l’ennesimo contrappunto ironico). È forse questa l’idea che può aiutarci a capire perché dei libri così diversi, delle scritture così lontane fra loro, ma tutte cresciute in questi ultimi anni, abbiano finito in qualche modo per riflettersi nella stessa figura, centrale in Di Dio e Mari, periferica ma pregnante in Bortolotti e D’Andrea. Come se la poesia, ormai surclassata e travolta nella civiltà delle immagini, trovasse comunque uno spazio per durare e rendersi necessaria, e in questa ostinazione si autorappresentasse, con la sopravvivenza e lo stupore di pitture rupestri che ancora si rivolgono agli uomini del futuro.

@AndreaAccardi

2 risposte a “Pitture rupestri e visioni di poetica in Bortolotti, D’Andrea, Di Dio, Mari”