, , ,

Hilde Domin, Il coltello che ricorda

Domin_Il_coltello_che_ricorda

Hilde Domin, Il coltello che ricorda. A cura di Paola Del Zoppo, Del Vecchio editore 2016. Traduzioni di Valentina Carmela Alù, Maurizio Basili, Nadia Centorbi, Chiara Conterno, Anna Maria Curci, Chiara De Luca, Stefania de Lucia, Paola Del Zoppo, Stefania Deon, Roberta Gado, Ondina Granato, Giuliano Lozzi, Francesca Pennacchia, Silvia Scialanca, Beatrice Talamo.

.

Oggi, 4 febbraio 2016, Il coltello che ricorda di Hilde Domin è nelle librerie. Si tratta del terzo volume di un ampio progetto, che si propone di pubblicare la produzione lirica e saggistica dell’autrice tedesca, ideato e coordinato da Paola del Zoppo, cofinanziato dalla Kunststiftung Nordrhein Westfalen e accolto dalla casa editrice Del Vecchio, che già nel 2011, grazie alla segnalazione di Ondina Granato, aveva pubblicato Con l’avallo delle nuvole. Poesie scelte, di Hilde Domin. Dopo i due volumi dedicati al progetto, Alla fine è la parola/Am Ende ist das Wort (2012) e Lettera su un altro continente (2014), arriva il terzo, Il coltello che ricorda. Anche in questo caso l’edizione italiana fa riferimento a quella del 2009, pubblicata da Fischer curata da Nikola Herweg e Melanie Reinold, Sämtliche Gedichte.
Il coltello che ricorda raccoglie una parte delle poesie che Hilde Domin stessa aveva scelto per un’inusuale e fervida auto-antologia, Gesammelte Gedichte, Poesie in raccolta, del 1987, così come le liriche raccolte nel volume Der Baum blüht trotzdem, Eppure l’albero fiorisce, del 1999, alcune poesie non apparse precedentemente in antologie e poesie dal lascito.
Il volume presenta, inoltre, dopo l’ampia introduzione di Paola Del Zoppo, che porta il titolo La pelle del pianeta e che collega la scelta delle liriche qui raccolte con l’attività della scrittrice come saggista, docente di poetica e curatrice di antologie di autori a lei coevi, tre testi in prosa nei quali chi legge sente vibrare la voce di Hilde Domin: Vita come Odissea linguistica, insieme resoconto autobiografico, testimonianza e atto di impegno, Fermare tempo e scopo – Le fasi della poesia tedesca del dopoguerra viste dal Paese e da chi vi ritorno, la prima delle lezioni tenute nell’anno accademico 1987-1988 a Francoforte, e Libertà nella scrittura, un’intervista a Hilde Domin. I prime due testi in prosa appaiono nella traduzione di Paola Del Zoppo, il terzo in quella di Valentina Carmela Alù.

Mi sembra opportuno soffermarmi qui su alcuni punti di Vita come Odissea linguistica, appassionata dichiarazione di poetica e, insieme, impegno rinnovato ogni giorno. Il resoconto di anni di peregrinazioni da un luogo all’altro del globo, in esilio volontario e forzato, a partire dal soggiorno in Italia, dove Hilde Löwenstein, allora ventitreenne, si reca con Erwin Palm, che poi avrebbe sposato a Roma nel 1936, per proseguire a Londra e poi nella Repubblica Dominicana, che darà il nome d’arte alla poetessa Hilde Domin, è costantemente attraversato da una educazione plurilingue che prende le mosse dalla familiarità con il testo poetico letto nell’originale: «Vi ho presentato qui», scrive Domin, «la fuga permanente come permanente sfida linguistica». Dopo la morte della madre, evento che la scuote profondamente e che la fa sprofondare in un abisso dal quale è la poesia, vero e proprio atto di grazia (“Gnade”, dirà in un’intervista del 1991), a salvarla, Hilde scrive nel 1951 il primo componimento poetico. Ella nasce dunque alla poesia e prende il nome di Domin per distinguersi da Hilde Löwenstein, che nel 1935 aveva conseguito all’università di Firenze il dottorato di ricerca in scienze politiche con Armando Sapori, futuro senatore della Repubblica italiana, con una tesi su Pontano predecessore di Machiavelli, così come da Hilde Palm, che alla carriera universitaria aveva rinunciato e che aveva scelto di essere l’assistente del marito archeologo.
Domin nasce alla poesia, è bene sottolinearlo, già provvista della sola libertà della quale possiamo disporre, quella di muoverci in più lingue, quella di far scaturire senso dall’incontro di una lingua con l’altra. E non solo questo: si tratta di quella libertà autentica, che sola aiuta, che sola salva. Hilde Domin crede nel potere salvifico della poesia – non certo per “salvarsi l’anima”, su questo punto concorda con Marie Luise Kaschnitz («Non si può scrivere per salvarsi l’anima»), ma per salvarsi dall’abisso dell’autodistruzione – e ribadirà questo concetto proprio nella prima lezione di Francoforte, quando sottolineerà la propria vicinanza alle posizioni di Adolph Muschg e di Günter Kunert a tal proposito. Quella libertà è anche impegno, quotidiano mettersi alla prova e mettere alla prova la propria creazione poetica: «Se non mi fossi liberata, non sarei sopravvissuta. Scrivevo poesie. Scrivevo in tedesco, ovviamente. Ma le poesie avevano appena visto la luce che le traducevo in spagnolo per vedere come reggevano in quanto testi».
Le poesie che compongono la raccolta Il coltello che ricorda reggono, eccome. A differenza di ciò che è accaduto per i volumi precedenti, le traduzioni delle poesie non sono qui soltanto di Ondina Granato. È un gruppo piuttosto nutrito di lettori, traduttori, scrittori a cimentarsi con la resa dei testi di Hilde Domin, della quale troviamo qui anche retroversioni in tedesco di componimenti originariamente redatti in spagnolo. Domin stessa ha tradotto molti poeti e amava ricordare le proprie traduzioni di poesie di Ungaretti.
Il tema della fuga permanente, intimamente legato al tema del nostos, del ritorno, ricorre qui in maniera esplicita, con riferimenti autobiografici, biblici e mitologici. In quest’ultimo caso, come è facile immaginare, i riferimenti all’Odissea sono frequenti e carichi di una valenza simbolica che diventa cifra dell’esistenza. Ruth Klüger lo ha sottolineato nell’edizione delle poesie pubblicate da Fischer nel 2009, in occasione del centenario della nascita di Hilde Domin. Tra le poesie tratte da Il coltello che ricorda e proposte qui di seguito, c’è Nell’antro di Polifemo, a proposito della quale ripropongo alcune mie considerazioni.
Nella personalissima mitopoiesi di Domin, Ulisse che fugge con i suoi compagni si affianca a Sisifo che si oppone alla coazione e ad Abele invitato a rialzarsi dopo essere stato ucciso da Caino. È la dimensione plurale della fuga che emerge chiaramente nelle tre quartine di Nell’antro di Polifemo, precedute, a loro volta, da un distico che fa invece preciso riferimento all’io lirico: “Der blinde Riese greift wieder nach mir”, “Il gigante cieco torna a ghermirmi”. Lo scenario torna a essere una Höhle, un antro, una caverna, una cavità – come era già stato nella poesia In der Höhle meiner Angst (tradotta da Ondina Granato con il titolo Nell’antro della mia paura), e, in generale, in tutto il volumetto apparso nell’edizione a tiratura limitata – cento esemplari – Höhlenbilder (Pitture rupestri). Le immagini proposte attingono a quanto narrato nell’Odissea: Ulisse e i suoi compagni sono aggrappati al vello dei capi del gregge del ciclope, che, oramai accecato, ne tasta il ventre man mano che questi, varcando l’ingresso, si recano al pascolo. Il verbo “fortgehen”, che ricorre, sempre nella grafia “fortgehn”, per ben tre volte nella prima e nella seconda delle tre quartine, la prima volta all’infinito (“Andarsene”) e nelle due ricorrenze successive, in una anafora, alla terza persona plurale (“se ne vanno”), lancia la fune allitterativa a “fliehen” (“fuggono”) e “Flucht” (“fuga”) della terza e conclusiva quartina. Il procedere per anafore che caratterizza tutto l’impianto ritorna anche nella conclusione della prima e della seconda delle quartine, “unter der zählenden Hand”, “sotto la mano che conta”. La condanna si ripete, la minaccia della coazione, come per Sisifo, incombe costantemente, la fuga è condizione permanente. Solo la coscienza di tale condizione, sembra suggerire Domin, è antidoto al soccombere, all’essere schiacciati proprio da quell’obbligo alla coazione contro il quale il “suo” Sisifo si era ribellato.
Ancora una volta, «più scettica di Brecht» («la poesia deve cambiare la realtà»),  eppure («dennoch») «più fiduciosa di Benn» («la creazione artistica non ha effetti sul reale»), Hilde Domin riesce a “hochwerfen”, a “lanciare in alto” la parola poetica, a condurla oltre la soglia dell’inerte, dell’inefficace e del manipolabile, a restituirle autonomia e universalità.

© Anna Maria Curci

 

* * *

NELL’ANTRO DI POLIFEMO

Il gigante cieco torna a ghermirmi.
La sua mano conta le pecore.

Andarsene di nuovo
sotto la pancia dell’ariete.
Già una volta
sotto la mano che conta.

Quelli che se ne vanno
lasciano indietro tutto
quelli che se ne vanno
sotto la mano che conta.

Quelli che fuggono
dal gigante
non portano con sé null’altro
che la fuga.

(traduzione di Anna Maria Curci)

 

IN DER HÖHLE DES POLYPHEM

Der blinde Riese greift wieder nach mir.
Seine Hand zählt die Schafe.

Fortgehn schon wieder
unter dem Bauch des Widders.
Schon einmal
unter der zählenden Hand.

Die fortgehn
lassen alles zurück
die fortgehn
unter der zählenden Hand.

Die fliehen
vor dem Riesen
nehmen nichts mit
als die Flucht.

 

*

NAPALM – OSPEDALE DA CAMPO
Ai margini del sonno
emergono loro
teste
nuotano
sull’acqua del sogno
sulle coperte
un orizzonte di morenti
teste dai grandi occhi
“le guerre si fanno con gli uomini”
mi guardano
occhi
nessun cielo ha il pallore
di occhi dolenti

 

(traduzione di Ondina Granato)

 

NAPALM–LAZARETT
Am Rande des Schlafs
tauchen sie auf
Köpfe
sie schwimmen
auf dem Traumwasser
auf den Bettdecken
ein Horizont von Sterbenden
Köpfe mit großen Augen
›Kriege werden mit Menschen geführt‹
sie sehen mich an
Augen
Kein Himmel hat die Blässe
klagender Augen

 *

PRENDI IL SECCHIO

Prendi il secchio
porta te stessa
Sappi che ti porti
agli assetati

Sappi che non sei l’acqua
porti soltanto il secchio
Ma comunque abbeverali

Poi riporta indietro
il secchio pieno di te
a te stessa

Il tragitto
avanti e indietro
dura un decennio

(Puoi farlo cinque o sei volte
contate dal ventesimo anno di vita)

(traduzione di Roberta Gado)

*

NIMM DEN EIMER

Nimm den Eimer
trage dich hin
Wisse du trägst dich
zu Dürstenden

Wisse du bist nicht das Wasser
du trägst nur den Eimer
Tränke sie dennoch

Dann trage den Eimer
voll mit dir
zu dir zurück

Der Gang
hin und her
dauert ein Jahrzehnt

(Du kannst es fünf- oder sechsmal tun
vom zwanzigsten Lebensjahr an gerechnet)

 

*

LE ALI DELLE ALLODOLE

Le ali delle allodole
sono inutili
accecate siedono
nella gabbia
prove contro di noi

Le nostre rose
sono annerite
nella pioggia
Il nostro vino diventa aceto
già nel torchio
e le nostre feste
sono giorni d’esame

Dalle cornucopie dorate
salgono i vermi
Nuvole velenose oscurano
il cielo sulle città
Sarebbe vero coraggio
avere paura

(Traduzione di Nadia Centorbi)

DIE FLÜGEL DER LERCHEN

Die Flügel der Lerchen
sind unnütz
sie sitzen geblendet
im Käfig
Beweise gegen uns

Unsre Rosen sind schwarz
geworden
im Regen
Unser Wein wird zu Essig
schon in der Kelter
und unsere Feste
zu Tagen der Prüfung

Aus den goldenen Füllhörnern
steigen die Maden
Giftige Wolken verdunkeln
den Himmel über den Städten
Es wäre Mut
Angst zu haben

*

PARACADUTE

Poesia intrisa di lacrime
della solitudine estrema
tu rete sopra il baratro
bianco paracadute
che si apre sul precipizio

Un angelo avrebbe le ali
sotto di lui
non si sfalderebbe il terreno
un angelo non riceverebbe mai
messaggi confusi
su ciò che lo riguarda

(traduzione di Stefania Deon)

FALLSCHIRM

Tränennasses Gedicht
der äußersten Einsamkeit
du Netz über dem Abgrund
weißer Fallschirm
der sich öffnet im Sturz

Ein Engel hätte Flügel
unter einem Engel
weicht der Boden nicht
Ein Engel erhält nie
verwirrende Botschaft
über sich selbst

*

LACRIME DI RESINA

La ferita dei pini sempre fresca
mai caduta in prescrizione
questo bosco in lacrime
colmo di calici di pianto
Il coltello che ricorda
e mai consente di guarire

Il tempo
asciugherà le verdi chiome
non la ferita

Questi nudi
tronchi
dovrebbero potersi vestire

(Traduzione di Chiara De Luca)

HARZEND

Die immer frische Wunde der Kiefern
die nie verjährt
dieser weinende Wald
voller Tränenbecher
Das Messer das erinnert
und nichts heilen läßt

Die Zeit
wird die grünen Haare trocknen
nicht die Wunde

Diese nackten
Stämme
sollten Kleider tragen dürfen

* * *

Una replica a “Hilde Domin, Il coltello che ricorda”