Neve o ghiaccio: figure del tempo immobile in Di Dio, Filia, Poletti
di Andrea Accardi
A Edoardo Camassa, re delle nevi
Vorrei tentare qui di ripetere un’operazione che ho già compiuto pochi mesi fa, quando mi è capitato di accostare fra loro tre libri di poesia sulla base di una qualche somiglianza, o, per meglio dire, di una figurazione in comune ossessiva e caratterizzante. Lì si trattava di spazi angusti e inquietanti, dove si addensavano significati universali ma soprattutto riconducibili a una certa angoscia generazionale (tutti e tre gli autori nati negli anni ottanta) rispetto al dover essere qualcosa, al darsi un ruolo e un’identità fissa. In questo nuovo terzetto di opere, invece, a ricorrere in modo evidente sono immagini di neve o ghiaccio, per lo più legate, letteralmente, ad altitudini e paesaggi invernali. Anche ora, come la scorsa volta, non pretendo di esaurire una casistica, che potrebbe anzi allargarsi indefinitamente. L’idea è piuttosto quella di far “vibrare” questi testi fra di loro, cercando di trarne una sorta di interpretazione incrociata. I titoli in questione sono: Verso le stelle glaciali di Tommaso Di Dio (Interlinea 2020), La neve di Francesco Filia (FaraEditore 2012), Temporali di Cristiano Poletti (Marcos y Marcos 2019). Come si vede, due su tre sono pubblicazioni recentissime (Di Dio appena uscito), mentre quello di Filia è un libro importante di qualche anno fa. Si allarga un po’ il ventaglio anagrafico, Filia e Poletti sono degli anni settanta (rispettivamente 1973 e 1976), più giovane Di Dio, nato nel 1982. Anticipo subito che stavolta sembra molto più rilevante l’appartenenza geografica, i luoghi biografici degli autori, soprattutto per Filia, che di fatto cala tutto il poemetto nella sua Napoli, e per Poletti, la cui scrittura si aggira spesso tra paesaggi familiari, lombardi e svizzeri. Questo discorso però vale anche, in modo un po’ trasposto, per Di Dio. In due casi la neve o il ghiaccio compaiono in primissima posizione, fin dal titolo, ma Poletti chiude o quasi la sua opera con due versi memorabili: «Ognuno di noi è stato/ nell’eterno inverno di Bruegel» (p. 94). Analizzerò singolarmente le tre opere, tutte di grande valore e anche (perché non dirlo) emozionanti, per poi tentare di pervenire nel finale a una qualche sintesi significativa.
Verso le stelle glaciali di Tommaso Di Dio è un libro molto stratificato, che converge però in qualche modo sulla sua terza sezione, 1492 Il mare, la mente, una rimotivazione poetica dei diari e del viaggio di Colombo, con cui la scrittura sembra davvero avvicinarsi a litorali inesplorati. Lo sfondo di partenza è invece metropolitano, di una metropoli vista dentro i bar o da una vertigine di tetti, popolata da figure marginali, spesso sofferenti, che diventano per chi le osserva un tormento, l’altro vicinissimo e inconoscibile: «Una donna con le scarpe da ginnastica./ Con i calzini di spugna. Non più giovane/ non ancora anziana» (p. 16); «Quel giovane uomo immigrato./ Che si è impiccato domenica mattina/ al parapetto della ferrovia» (p. 17); «Scartano strade e bivi, procedono/ a testa bassa a lato delle metropolitane» (p. 20); «La ragazza che camminava incinta/ ora è al tavolo del bar, seduta/ con la madre sudamericana e un’amica» (p. 21); mentre incontriamo quasi alla fine «[i]l transessuale brasiliano […] dal parrucchiere cinese» e «il riso pieno/ degli ubriachi che di notte cavalcano/ il secchio bucato dei sogni» (p. 105). Compaiono già qui alcune avvisaglie del viaggio a venire, «la polvere che vortica/ nell’universo mondo mare aperto e solare» (p. 18), o «l’immenso catrame» visto dall’alto (p. 20), che annuncia quello che «fuma; e brilla» per riparare la nave, sull’isola di La Gomera (p. 68). La seconda sezione, L’occhio azzurro L’ospedale, la caverna, è quella del trauma, un amico poeta gravemente colpito che perde parole e memoria (Mario Benedetti), e che il male colloca proprio in quel punto di afasia e di scomparsa che la sua poesia costeggiava: «Per il tuo poema/ intubato e senza suono alcuno/ qui trovi finalmente le parole possibili» (p. 38); «E adesso vai/ a caccia di fantasmi; con lo sguardo/ che vaga vuoto» (p. 45); «Per il tuo poema./ Le parole impossibili» (p. 54). Il racconto di una regressione verso l’infanzia e il preverbale, «in una preistoria senza spazio» (p. 37), trasfigura l’ospedale in una caverna del paleolitico, quella di Lascaux, con «gli animali dipinti da centinaia di mani sulle ruvide e difformi pareti» (p. 130), un altro linguaggio, un altro modo per dire il mondo che «vive nella mente» (p. 37). Anche il viaggio di Colombo sarà diretto dove “le parole finiscono”, e sorprende che una scrittura così ricca, combattiva, carica di enfasi ed energia si protenda invece per esprimere il suo contrario, il suo annientamento, come se Tommaso avesse davvero cercato di buscar el levante por el poniente. Dopo un’altra visione che ne annuncia l’imminenza («fra le braccia/ avremo d’improvviso scheletri di balene», p. 57), dalla terza sezione, come detto, il libro prende il largo. I testi, scanditi secondo le pagine del diario, tengono benissimo insieme il piano realistico e quello aggiunto, simbolico: «ma è l’uomo/ davanti al vento quello/ più esposto al vero» (p. 66); «in ogni dove io trovo/ terra. E ancora/ terra mi manca» (p. 67); «ognuno/ nel buio vede ciò che più teme» (p. 73); «ogni cosa/ all’orizzonte/ impara a scomparire» (p. 74). Come accade sempre più spesso da qualche anno, la poesia ritorna orizzontale, narrativa, le parole come le carte vengono «tracciate in una sfera» (p. 65), che è il mondo ma anche la mente, simmetria abissale su cui il libro si incardina, avvisando di continuo che l’oceano è già in noi e non ha fine («E se io già/ sono da sempre/ nel mare/ come chi s’è perduto», p. 88). È una scrittura sensistica, in movimento, partiamo insieme a Colombo («È venerdì. Alla barra/ dalle otto del mattino. Andammo/ con forti vele di mare e vento verso sud», p. 66), sentiamo il sole, il vento e la calma oceanica («Il mare è liscio/ Il mare è un fiume/ l’aria è dolce e gradevolissima», p. 75), temiamo con lui l’ammutinamento («Ci sono voci in sottocoperta. Parlano/ di mostri che ci aspettano», p. 81) e il buio delle notti sull’acqua («Dopo tanto/ guardare il nero mare; il nero/ spazio senza contorno né coesione», p. 87), attraversiamo anacronismi volontari («fra autostrade di cemento e palazzi/ fra video schermi e terremoti e boiler e facce», p. 71), tocchiamo infine una terra che non è ancora nulla («Solo la candela/ era luce vera», p. 95). Ci sono tanti altri passaggi di limpida bellezza, come ad esempio: «E se questo/ che calcolo e conduco/ a furia di matematiche e compassi e mappe/ non sia che uno dei possibili/ cammini fra mare e mare, l’errore essendo/ un bene moltiplicato altrove» (p. 88). Ma il dato più impressionante è che il viaggio di Colombo prosegue oltre Colombo, nella quarta sezione Verso le stelle glaciali Il vento, i pronomi: «è il mare a fare tutto questo rumore, è il mare […] Il mare. La lampada. La mente» (p. 110). Scopriamo soprattutto che le stelle glaciali non erano quelle utili alla navigazione, ma «un sentiero già segnato, un ritorno» alla «grande neve/ del Millenovecentottantacinque», al mistero della propria identità, «questo io/ che ci ostiniamo a scrivere io/ che è solo un buco/ un calore che scava nella neve un cerchio» (p. 112; come la terra sognata da Colombo «aveva/ le braccia di neve», p. 69, e già in precedenza ci era stato detto che «in uno/ sguardo fermo sulla neve, noi siamo/ esistiti veramente», p. 25). Per finire, in quella che vuole essere una sorta di sconfinamento in prosa oltre il libro stesso, tutte le immagini che hanno accompagnato i testi (chiamate “mappe”) vengono commentate, sotto pretesto di ecfrasi, per esprimere l’idea vertiginosa, la stessa che sigillava o quasi le ultime parole di Colombo («È la mente che di sé/ sempre asseta», p. 95), che il linguaggio o la mente sia la mappa da cui non si esce, «il disancorato, ciò che si abbandona alla deriva senza dimensioni» (p. 132), che «le mappe ci tengono nel loro incanto» (p. 142), e invece bisogna uscirne fuori, «diventare reali» (p. 141). Una poesia così agonistica, che cerca di dire, di afferrare qualcosa del reale, si chiude quindi in una verità negativa del linguaggio, infanzia, preistoria, fine delle mappe. Eppure moltissimo è stato detto.
Francesco Filia fa i conti con un’idea immane, madornale di luogo, di città, di predestinazione («il graffio dei grattacieli/ che emerge da paludi, dal ventre cavo di questa terra spergiura», p. 33; «come/ un destino sbagliato, come la risacca dopo la marea,/ come un mare, una madre», p. 36). Come notava Cepollaro in una riflessione complessiva sulla scrittura di Francesco, la conflittualità di questa poesia «nasce dalla non relazione tra i destini individuali e generazionali e l’insieme della città e della storia», ed è quindi essa stessa nel suo dispiegarsi sulla pagina (verso lungo, prosastico, di immagini agglutinate in fuga) la mimesi di una ricerca caotica del senso in una metropoli lontanissima dall’idillio solare, restituita invece nella sua violenza, nei suoi veleni e nel suo buio: «fissare il niente e il suo contrario/ negli occhi del ragazzo che ti punta la pistola al petto», p. 21; «del nostro stare conficcati/ tra cielo e il tumore di zolle avvelenate», p. 23; «questa città gettata tra il mare e un incubo/ appena iniziato», p. 27; «Respirerai/ la cenere e il calore, il buio che avvolge ogni cosa», p. 28; «nella vastità di un campo d’ortaggi/ e cumuli in fiamme», p. 44. Le minacce, gli spari, la Terra dei Fuochi, le morti per strada («non sono/ altro che cronaca cittadina e un numero tra i reati irrisolti», L’ultimo agguato, p. 31) compongono il ritratto di una Napoli raccontata in tutta la sua carica disforica, come una questione irrisolta tra chi parla e la città. Lo stesso terremoto dell’Irpinia diventa nel ricordo soltanto l’annuncio di ciò che seguirà («Non avevamo capito che il terremoto era appena/ iniziato», p. 25), scorre a sorpresa il nome dell’autore, sfottuto, nel lampo di una rissa infantile («Checco o’ cecof/ mi chiamavano alle elementari, per gli occhiali,/ alcuni scherzavano altri picchiavano, io/ mi difendevo a denti e graffi a calci nelle palle», p. 25), il tempo e il suo significato sembrano separarsi in quel punto per non riunirsi più («Ma/ da allora, veramente, dalle sette e trentaquattro di quella/ domenica sera, lo giuro, io, non ci ho capito più niente», p. 25). Ci sono anche qui le stelle, in qualche modo glaciali, ma non servono a molto, offuscate dall’illuminazione urbana: «Orientarsi con le stelle è difficile in città […] La luce diffusa dei lampioni, delle insegne non permette/ di distinguere le costellazioni e il loro movimento./ Bisogna andare in collina o fuori città […] oppure in inverno/ quando le fiamme del cielo sono graffi di ghiaccio» (p. 29). La neve appare lontana, fuori della città, distesa sul vulcano, di un altro colore e un’altra materia rispetto alle strade, ai corpi e ai palazzi, come uno scandalo visivo dentro il paesaggio mediterraneo. L’autore non conferisce però all’immagine quella valenza utopica che ci si attenderebbe, l’incipit maestoso del libro sembra anzi andare nella direzione opposta: «La neve, quella vera, non l’abbiamo mai vista/ se non nella bocca a nord del vulcano/ nei pochi giorni di cristallo dell’inverno come una minaccia/ che ricorda quel che non abbiamo temuto abbastanza» (p. 15). Solo in un frammento già molto avanzato, il XXII, la minaccia sembra potersi cambiare in promessa, in fragilissima speranza: «Correvamo con la neve in tasca per paura che svanisse/ come un sogno appena sognato […] Abbiamo confuso la minaccia di neve con/ la sempre promessa e mai caduta manna […] Ci sorprendemmo a guardarla come un incanto/ appena accennato, un disegno appena abbozzato» (p. 37). Ma è un’illusione che dura poco, che non fa neanche in tempo a ingannare, come nello splendido testo Desiderantes: «Osserveremo il colmo di questo cielo, il silenzio/ graffiato di stelle, la carovana dei pianeti, il buio/ al bordo di un desiderio senza rimedio […] Fiocchi si sciolgono tra le dita/ un ultimo barlume, nel fondo di questa pupilla» (p. 42), oppure in La madonna della neve: «nel silenzio di esagoni poggiati uno/ sull’altro di fiocchi che definiscano il recinto/ delle nostre preghiere» (p. 41); casomai si fa allora cifra del rimpianto, dell’irresolutezza: «non sei l’ultima cosa/ rimasta ma solo quel che non hai voluto» (p. 26); «siamo, sempre, quel che non abbiamo/ voluto» (p. 35). Prevale invece l’altro senso, quello che ci è dato all’inizio e subito dopo, di un candore apparente in nessuna discontinuità con la violenza («Il bianco sporco della neve si è fermato/ nel riverbero delle colline intorno a una voragine/ di morti lavati via da marciapiedi e palazzi spalle al mare», p. 17; «Non saremo noi a sentire il tepore del disgelo, la neve/ che si scioglie tra lava e cenere ammassata/ l’alito della terra che rinasce», p. 19), che nell’ultimo testo si rovescia addirittura nel suo contrario: «l’ultima neve che cade… nera… Accecante» (p. 45). Direi quindi che la neve di Filia, con trovata spiazzante, antiretorica, non è tanto la figura di una promessa, di un’altra possibilità, quanto la proiezione, la cristallizzazione di una situazione che sembra immutabile, di un sud inchiodato, di un passato collettivo che non si decide a passare. Ma dentro l’ambivalenza di cui l’autore ci avverte («Ogni gesto è il suo contrario come/ un mai e un sempre», p. 38), in un tempo immobile e ferito, «eterno presente d’asfalto […] gelo di un’estate senza fine» (p. 17), c’è spazio per la tenerezza struggente che ognuno prova per la propria infanzia, e come il pallone di Dylan Thomas che non ha ancora toccato il suolo «[l]a ruota di una bicicletta continua a girare, nel vuoto» e «[r]imarremo per sempre nell’attimo tra lo slancio e lo stacco/ del corpo dagli scogli» (p. 24, 12 anni). È nel recupero personale del passato che il “sogno appena sognato” si compie, “la neve in tasca” non si scioglie, e tutto per un poco sembra quasi perdonato.
Cristiano Poletti costruisce l’idea del suo libro intorno a un gioco semantico, l’ambivalenza del titolo, tra occasione atmosferica e fugacità delle cose. L’evento inatteso può così avere il carattere montaliano dello sconvolgimento e della fuoruscita da una condizione di inerzia («Venne su ogni figura un temporale,/ così, improvvisamente,/ mentre tutto era in polvere», p. 27), ma vale anche come ovvia reimmissione nel movimento, nel cambiamento: «e tutto quello che senti va/ in una vecchia paura dei/ temporali» (p. 31); «Ma un temporale ascolta/ si prepara nell’aria, cedono/ l’alta pressione e gli anni» (p. 32). È quindi una scrittura in bilico tra accettazione e rifiuto del tempo, e lo scatenamento dei temporali non può che riattivare l’etimologia comune: «Tu/ lontano temporale vieni/ in questa lunga siccità/ addormentami» (p. 29); «Agli infettivi,/ sotto orizzonti nostri custodi/ che a temporali rinviano e agli amori» (p. 41); «fissando/ il fuori in fiamme col tremore/ dei temporali negli occhi» (p. 64), dove si può percepire il preziosismo nascosto di un genitivo soggettivo, la paura consueta della nostra condizione transitoria. La corsa inevitabile del proprio mondo verso una progressiva cancellazione è motivo di tormento, ma anche di paradossale speranza, di religione personale (o “religione di un giorno”, per dire il titolo della prima sezione): «Ora, non credere,/ niente si è perso, niente/ in filigrana. Le perdite/ tornano, sono qui coi miei anni/ in un solco doloroso, e felice,/ dici, tornano i loro visi» (p. 57); «ritornare/ è solo un’insistenza, sulle perdite» (p. 69). Il rifugio, l’ancoraggio è nei luoghi, qui proposti con totale adesione sentimentale, nominati con trepida familiarità, come unica difesa rispetto agli anni: «l’indirizzo di sempre, l’afa, l’Adda» (p. 12); «Era così, luminosa o no Bergamo» (p. 38); «Nella cavità di una tua domenica, Padova, ero lì» (p. 62); «…o rivolgersi all’aria, in questo/ quadro di caldo/ con le Alpi sullo sfondo» (p. 63); «Bergamo di pietra, tu ci ripeti, insisti, ripeti continuamente che non ci siamo incontrati» (p. 74); «Nella costellazione in cui viviamo/ vediamo combinarsi l’Alto/ Ticino» (p. 75). La stessa immagine della neve, non più colta nel contrasto come in Filia, ma interna alla natura di quei paesaggi, diventa desiderio di un tempo fisso, un tempo ghiacciato: «Dormono secoli di appunti/ sotto la neve. […] È una casa, vedete,/ e al centro c’è una vita resistita nel suo darsi» (p. 15); «Finirà nella/ religione di un giorno solamente/ il disegno non vano […] Sotto il velo/ nelle ragioni del bianco del cielo» (p. 33); «E fuori solo bianco, tanto/ da immaginarsi, immaginare quel fuoco farsi/ vivo da un disordine d’ombre» (p. 59); «la neve/ nelle impazzite stagioni perché/ noi in un bisogno di neve?» (p. 60), e anche lì sempre sotto la minaccia del vero, del tempo, del disgelo: «La neve ancora, in lontananza. Sporca,/ non normalmente neve, ma una mano/di bianco slavato, un altare, un fiato,/ qualcosa che si spezza» (p. 69); «Voi, punti, chiazze, virgole di neve,/ cambiate con la luce e riflettete/ l’attesa» (p. 75); «Ultima neve, piangi» (p. 79). Lontano dalla città tentacolare, stordente che abbiamo attraversato con Filia, o anche da quella innumerabile e anonima in Di Dio prima del viaggio oceanico, qui troviamo invece da subito un amore per i silenzi, per i luoghi travolti, per il compromesso tra l’umano e l’inumano, come nel già citato testo Neve (per una fotografia di Richards) (p. 15; dalla nota esplicativa finale: «nella fotografia appare una finestra dai vetri rotti, con la neve che, entrata, si vede posata sul letto di una casa abbandonata», p. 97): ancora un’illusione di ecfrasi, e la poesia che prolunga e adempie un’immagine che l’annunciava. Di queste montagne, altitudini, distese, dobbiamo quindi sentire la grandezza che ci sovrasta, ma anche la pace di qualcosa che non muta, che va oltre le apparenze («Giusto qui/ al mondo, fatti eterni gli occhi e noi», p. 15) e che si aggancia al biografico di chi è nato e vissuto in quei luoghi (ecco l’importanza della geografia in questa scrittura, spaziale proprio per reggere l’urto del temporale). Anche in Cristiano è poi tematizzata la tensione fra il tempo personale e il tempo della Storia, vista come una forza travolgente, che incombe sulle nostre case («Fuori infuria la storia», p. 22), fino all’ultima sezione del libro, intitolata proprio Storia, che riunisce innanzitutto una serie di testi sul Muro di Berlino. Perché dedicare tanto spazio al Muro, avendo parlato di tutt’altro fino a quel momento? Forse perché si è trattato di un confine artificiale, costellato di tragedie, che ha impedito i collegamenti e i ritorni, e invece questo libro ci parla con insistenza della possibilità di ritornare, sempre, in qualche modo («Mandate lettere al loro indirizzo./ Lì chiara l’anima tornò», p. 42). Così verso il finale, dopo la bellissima poesia dedicata ad Aldo Moro (Caetani, p. 92), un altro testo ha per epigrafe il racconto di Marc Bloch sull’insabbiamento dello Zwin, e la conseguente crisi dei commerci che relegò per secoli Bruges alla condizione sonnolenta di una cittadina di provincia (condizione che ispirò Bruges-la-Morte di Rodenbach). Infine, a chiudere l’opera, Settantasei, data di nascita dell’autore, punto di mistero soggettivo, di apparizione e sparizione, come il 1985 per Di Dio, o il tuffo sospeso di Filia. Compare qui Bruegel e il suo inverno ostinato, fuori del tempo. Ma i ritorni si compiono anche nella lingua, nel dialetto, alla maniera di un amarcord felliniano, di una voce che arriva dall’origine: «O èss ché depernóter, bambini,/ a piàns ergót come la nìf» (p. 60, «O essere qui noi da soli, bambini,/ a piangere qualcosa come la neve», trad. dell’autore). Provo a tirare le fila del discorso, dicendo che in questi tre libri quello che sembrava un movimento in avanti, o un discorso al presente, si è rivelato al tempo stesso un movimento all’indietro, o uno sguardo al passato. Se consideriamo il viaggio verso le stelle più famoso di ogni tempo, in largo anticipo sulla fantascienza, cioè quello dantesco, non possiamo dimenticare che lì valeva la promessa di raggiungere il Tempo senza Tempo «dove gioir s’insempra» (canto X Paradiso, v. 148). Vale invece ancora oggi, probabilmente di più, la grande cesura illuministica, che togliendo forza ed enfasi alla speranza del Paradiso, finì per trasferirle sull’infanzia, secondo una grande intuizione di Francesco Orlando: «il pathos che con Rousseau investì l’estremità iniziale della vita umana veniva da quella finale, era preso a prestito dall’invecchiamento e dalla morte, ritolto all’attesa dell’aldilà» (Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, Einaudi 1994, ed. 2015 a cura di Luciano Pellegrini, p. 323). Le stelle glaciali non si trovano più davanti a noi, bensì alle nostre spalle, dentro il passato, stelle fisse e inalterabili nel segreto della nostra infanzia. Ma dove sono le nevi di una volta?, sembrano chiedersi questi autori, che scrivono di fiocchi in tasca, cerchi nel gelo, un bisogno di neve, la neve o il ghiaccio che incantò i loro primi anni.
Una replica a “Neve o ghiaccio: figure del tempo immobile in Di Dio, Filia, Poletti”
L’ha ripubblicato su A proposito di un cane in livrea.
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