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Lorenzo Mari, Querencia (recensione di Viola Amarelli)

Lorenzo Mari, Querencia, Oèdipus 2019
Su Querencia, o degli spazi inospitali
di Viola Amarelli

 

Lorenzo Mari con Querencia (Oèdipus, 2019) ci consegna un poemetto teso e coeso, già giunto, in una precedente versione, tra i finalisti per l’inedito del premio Pagliarani 2018. La scelta di un lemma polisemico quale titolo testimonia, tra l’altro, l’apprezzata attività di traduttore e ispanista di Mari; ‘querencia’ – derivante etimologicamente dal latino quaerere, cercare – significa infatti in spagnolo affetto, ma anche tendenza  di una persona od animale a tornare nel luogo prediletto, generalmente quello natìo,e, in tauromachia, lo spazio dell’arena dove si posiziona il toro per meglio proteggersi.
Come recita una  nota di accompagnamento del  libro, siamo di fronte a un “desiderio dello spazio o spazio del desiderio” destinato per sua natura a mai realizzarsi. In realtà, al di là di ogni  pur lecita lettura lacaniana, sotteso a tutto il poemetto è il problema del “rifugio”, il bisogno di ogni essere vivente  di sentirsi al sicuro, bisogno che diventa oggetto di un’indagine scandita da affondi ricorsivi, da  sgomenti continui, spesso mascherati da ironie,  di fronte all’impossibilità di  trovarlo.
Gli allegoremi del toro e della scrittura si rincorrono e si intrecciano in tutto il testo (verso lo lascia su alba pratalia la bestia fumante sull’erba, la bestia che fuma, nell’arena, sì che lascia due righe ancora, di vuoto, forse di bianco, in basso, e non si sa chi ne potrebbe gioire), e del resto in esergo vi è una lunga citazione di Michel Leiris tratta da “Della letteratura considerata come una tauromachia”. Si tratta tuttavia di allegoremi che si sfrangiano  delineando rituali che provano inutilmente a dare un parvenza di senso al vivente: l’arena tennistica di Wimbledon, il baluginare di banderillas,  l’affiorare di servi e padrone, la catena che unisce vittima e carnefice, il passo di flamenco, la mistica del deserto e quella del mare, l’ironico ruolo dell’inutile poesia (il sole è ancora alto, alle cinque della sera/ e la poesia:/ certo, in quanto/ potere!/ illumina),  la zona rossa, il corno rosso, le pitture parietali delle grotte di Chauvet si susseguono affollandosi senza soluzione non solo di continuità ma di significazione.
In questo contesto, la poesia-scrittura, lingua nera in salmì, appare e scompare, modulata in maniera difforme e ossessiva, come lo spazio prediletto ma anche il più ingannevole (Predica segno. Senza segno predica lirica; perché la poesia non muta – eco questa di Corrado Costa, al pari di parola è il/ quarto.// il quarto.; – poi: abbiamo pubblicato// scritto sì, ma non compreso, e nemmeno toccato/ chiedendo sempre, al macero, perché non si è taciuto; e ogni sette sillabe si finisce comunque,ogni/ volta che cambia il significato/ per impazzire; riscrive holan… e riscrive bergman), rivelando la sua natura di pura lallazione, parola che traversa obliquamente tutto il poemetto, quasi a richiamare l’inconsistenza di qualsivoglia tentativo di linguaggio, da un lato, e, dall’altro, tuttavia, la sua necessità lungo il viaggio umano  nel vuoto, a mo’ di ritornello deleuziano.
Lallare è, tuttavia, anche porre il problema delle funzioni metriche, al di là degli “schemi (i quali) sono argini, che possono delimitare solo esteriormente il fluire ritmico” come osservava Giuliano Mesa, la cui tensione – attenzione alle forme in vista di una verità etica sembra  introiettata da Lorenzo Mari. Di qui, non a caso, il frequente ricorso in Querencia a spazi metrici di rosselliana ascendenza, dove una ricchezza lessicale si coniuga a un timbro secco, con l’affiorare di  marcatori fàtici (permesso, prego) o conativi  (tu non crederci; in ginocchio) a contenere l’urgenza e l’affollamento di figurazioni, urgenza e affollamento che similarmente connotano i dipinti nella grotta di Chauvet.
Tra gli spazi amplissimi del deserto e del mare o i ristretti perimetri delle arene di tori e di tennis, tra l’interdetto di zone rosse e caverne da eco platonico – dove però ... nessuno confonde/ una semplice superficie per uno specchio – la ricerca di un rifugio diventa aleatoria, come aleatoria è del resto, pare suggerire l’autore, la nostra parvenza, e desiderio, di libertà.

© Viola Amarelli

 

III

Riparte. Ma la parola che esce non ristà. Predice, partendone, il vuoto. Non predica toro. Poi nell’addormentarsi prende sonno, davvero sonno, e una volta arrivato quinci di là conta le fasi senza sogni, le fasi con i sogni, remixa, va avanti, il battito è quello dell’erba, cantavamo tutti però lui cantava il salmo, però adesso: non predica toro, sta tutto, quindi, a quello che fa, alza il battito, prende il cuore, che a noi asportarono la lingua – con stile, anche, e con forma, con significato – e poi parte alla riscossa contro la vita (se poi resta qualcosa che non sia in teoria, nella vita), a testa bassa, a corna puntate, non predica toro, sta per morire, dimenticato il suo spazio che era spazio, se non di vita, almeno di piccola, minutissima scritta, ed è così che scatta: in un momento che d’altra parte è di festa, qui è tutta antica, antichissima, anche mancando il resto, la volontà che è di finire la partita, che se si fosse levato il vento o un gran diluvio a spazzare il sole rotondo, sì da esser rotondo, alle cinque della sera, per tutti, sugli spalti, sarebbe stata palla fuori, o palla uscita, però lui, o lei, rimaneva – lo era – fermo, fermissima nella sfida: con i garretti, con le anche, con tutti gli stinchi – immobile, immutabile
dentro la corrida.

 

***

smettendo gli occhiali e la posa intellettuale:
non era una caverna ma più ancora, al fondo
né arena né chiesa né un libro di poesia
a dire il vero: rinascendo prete tennista
torero scendendo al mare dove non c’è nulla
da dire se non fosse per quel genere, detto
implacabilmente, di sconfitta: in ginocchio
in ginocchio! – allo scopo di evitare in tutto
e per tutto la mistica: lallà, dice, poi lallà

risponde il mare

 

***

nel santo dei santi o nella rosa delle rose – nel quaderno del ginnasio, insieme alle interiezioni e alle citazioni: così ha detto, abbiamo riso, siamo rinati, e così faremo, fino a uscire dallo schema implacabile, e di nuovo adolescente, del desiderio, mentre si prospetta per il resto della vita che niente desidera ciò che desidera sempre, eccetera eccetera
eccetera –

nel sancta sanctorum
oppure

 

Lorenzo Mari è insegnante nelle scuole secondarie della provincia di Bologna. Ha pubblicato alcuni libri di poesia, tra i quali: Nel debito di affiliazione (L’arcolaio, 2013), Ornitorinco in cinque passi (Prufrock Spa, 2016) e Querencia (Oèdipus, 2019).
In prosa, ha pubblicato Via Mascarella alta e bassa (autoproduzione Libreria ModoInfoshop, 2019) e, con il racconto Un percorso sicuro, ha vinto il Premio Teramo 2019, sezione Under 35.
Ha tradotto: dall’inglese Bless Me Father di Mario d’Offizi (Compagnia delle Lettere ed., 2010, in collaborazione con Raphael d’Abdon); La buona stella delle cose nascoste di Afric McGlinchey (L’arcolaio, 2016); Il sogno d’inverno dell’architetto di Billy Ramsell (L’arcolaio, 2018) e dallo spagnolo: Canto e demolizione. Otto poeti spagnoli contemporanei (Thauma ed., 2013, in collaborazione con Luca Salvi e Alessandro Drenaggi); La precisione dell’indifferenza di Pablo López-Carballo (Carteggi Letterari ed., 2017 – menzione di merito al Premio Benno Geiger 2018); Chroma di Emilio Gordillo (Edizioni Arcoiris, 2018, in collaborazione con Eugenio Santangelo); Sonetti teologici di Agustín García Calvo (L’arcolaio, 2019).
Ha recentemente curato l’edizione di Zurita. Quattro poemi di Raúl Zurita nella traduzione di Alberto Masala (Valigie Rosse, 2019).
Collabora con le riviste online PULP Libri, Carteggi Letterari e Fata Morgana Web.


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