DIRE di Fabio Michieli (ed. 2019)
di
Emiliano Ventura
Anche l’essere lettore è soggetto al karma, il mio è in uno stato di grazia, evidentemente, visto il cospicuo numero di bei libri in cui continuo a imbattermi. Una spiegazione più prosaica sarebbe ricondurre il fatto a una acquisita e raffinata capacità di selezione, ma sarebbe pur sempre una spiegazione prosaica. Così come per la scrittura, anche per la lettura è giusto parlare di uno stato di grazia, questa è infatti un’attività tutt’altro che passiva, contrariamente a quanto si crede. Dopo un’ottima lettura il pensiero tende all’astrazione e all’argomentazione, si schiarisce alquanto l’ombra dell’idea (direbbe Bruno); e la conseguente azione è diretta, pulita, raramente imprecisa. Come se lo stile poetico ‘provocasse’ un’azione dalla precisione chirurgica, da ricondurre lo stilo che incide la parola.
Questo accade dopo la lettura di Dire, la raccolta poetica di Fabio Michieli che L’arcolaio riedita in questi giorni (2019) in una nuova veste. È raro trovare una poesia che sia al contempo giusta misura e leggerezza; ciò che è troppo leggero sfugge via, così come ciò che troppo pesa cade e Michelstaedter ci ha insegnato che “il peso pende”:
seppi volare un giorno questo cielo:
distesi le ali in sogno-[1]
Si noti la doppia leggerezza, e la maestria, del verso “distesi le ali in sogno”. Per Dire di Michieli sarebbe meglio parlare di leggiadria, di sottile eleganza del verso, più distici che terzine o quartine, un dire che vuole farsi aforisma; ci sono filtri alla voce poetica e sono dettati dal corsivo alternato, dalla pagina bianca e da Euridice stessa. Siamo abituati a ‘sentire la voce’ di Orfeo mentre Michieli lascia dire alla seconda voce del mito. Non si può evocare Orfeo senza ritrovarsi in compagnia di Édouard Schuré, Angelo Poliziano e Dino Campana, eppure le atmosfere di Michieli non sono infere ma acquoree, la presenza di Venezia si attesta nell’idea di maschera e di carnevale, appaiono anche le gondole.
È leggiadro questo Dire perché tanto ricorda quel dantesco “Poscia che amor m’ha lasciato”, anche per il pathos, dall’amore al lutto, è necessario sia anche ethos. A un corretto sentire corrisponde un corretto agire, ecco la leggiadria dantesca; solo così amore che mi ha lasciato potrà tornare da me, ora che ne sono degno.
Ci si aspetterebbe, da un poeta contemporaneo, un agone in atto con il mondo, mentre Michieli trova la misura in sé, e se agone c’è stato è più interiore che esteriore.
la poesia, amico mio, è la nostra voce:
(le trame sul telaio,
i versi all’arcolaio…)
di questo ci cibiamo, notte e giorno –
dici non sta più a noi
combattere incupirsi,
ma non son nuvole quelle che passano!
l’inconsistenza spesso ci attanaglia
di chi coi versi ingaggia la battaglia
Si esce con un peso specifico diverso da questo libro, tutto è meno grave, il peso viene meno e la misura si fa leggerezza: «Chi cade ha le ali» (Ingeborg Bachmann).
Ancora una volta il poeta autentico ha pensato ciò che è fondamentale pensare, non grava il dolore, o grava meno, se si redime nella poesia, ciò che si è perso trova una nuova misura in noi e ne rinnova la memoria:
ritrovo il tempo andato tra la cenere
se si consuma il fuoco –
Alla poesia, autentica poesia, corrisponde sempre un agire consapevolmente adatto, anche François Villon si redime nei suoi versi e i romanzi cortesi di Thomas Mallory stridono con le accuse mosse all’autore stesso.
se mi intridevo del vostro respiro:
se mi stingevo nel vostro colore
(se mi estinguevo nel vostro dolore)
Si esce, e ci si ritrova, con un senso di leggerezza dal Dire di Fabio Michieli, sgravati e perfino purificati; quasi fosse la salita del monte del Purgatorio, più si sale più il peso diminuisce:
volevo un libro chiaro per noi due:
una pagina bianca – quasi pura.
Il lettore, più o meno avveduto, rimane colpito da Euridice dalla posizione esemplare della fanciulla:
spegni il tuo amore incauto! eternami nel canto!
annientami, dissolvimi – esaudiscimi, annullami
Sono versi di una forza inane, ogni amante sa che, presto o tardi, dovrà lasciar andare l’amato, lasciarlo essere ciò che è, così come l’ultima lirica di Mario Luzi Lasciami, non trattenermi; solo perdendo Euridice (annullami) Orfeo potrà cantarne (eternami nel canto). Non è chiaro se Michieli, per la sua Euridice, si sia ispirato all’epistolario tra Abelardo ed Eloisa, ma le parole che la giovane fanciulla (ormai monaca) scrive al più adulto magister e amante ricordano, nel significato più autentico, i versi appena citati:
Il mio amore è stato così folle da provarsi da sé, senza speranza di recupero, dell’unico oggetto del suo desiderio, quando pur di obbedire al tuo comando, ho cambiato ad un tempo e l’abito e l’animo […] quanto più per te mi umiliavo tanto meno avrei potuto offuscare lo splendore della tua grandezza di uomo […] io preferisco l’amore al matrimonio, la libertà al vincolo.[2]
La sezione Circostanze è un dialogo con il padre, l’evoluzione e la cura del lutto: «mentre ciò che la lingua non sa dire/ è bianco di dolore», curiosamente il colore del lutto è preso dalla civiltà indiana e non da quella europea, ma non per questo il pathos della poesia è meno assoluto.
Il verso, «quell’imminenza dei miei quarant’anni» riconduce inevitabilmente a Luzi e attesta, come per il poeta fiorentino, un momento di riflessione sul proprio passato, sul vissuto, l’inevitabile scarto tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere:
non sono stato ciò che ti aspettavi:
quel figlio, quel bastone che reggesse
il tuo corpo oltre il passo dell’età –.
Nella nota finale, che comprende anche i ringraziamenti, Fabio Michieli svela come alcune poesie non facessero parte della prima edizione, e come abbiano trovato la loro giusta collocazione in questa nuova veste. Colpa delle occorrenze della vita, gli inevitabili cambiamenti avvenuti, così come la necessità di recuperare un dialogo, sia pure fatto di silenzi che la pagina bianca ha riempito di versi: «Dire è un discorso su ciò che ci si lascia alle spalle e su ciò che ci si porta avanti, per proiettarlo nel futuro».
Le voci autorevoli della raccolta sono Euridice e la figura del padre, una in prima persona l’altra attraverso la voce dell’autore, ma sono la variante di un unico mito che si riconduce all’orfismo; la voce del poeta che eterna le perdite nel canto. La Storia nel poeta non progredisce ma segna il passo, si accumula e si sovrappone, come nei Fiori blu di Raymond Queneau dove il cavaliere incontra l’automobilista, la poesia è il luogo delle coesistenze, qui convivono realtà temporali diverse ed opposte, non per questo meno reali.
Le ultime righe sono dedicate al padre, l’altra voce del dialogo silenzioso del poeta: «Grazie papà, per essere stato il padre che sei stato; e per essere stato un lettore migliore di me».
E grazie al Dire di Fabio Michieli anche noi siamo divenuti lettori migliori (il karma sentitamente ringrazia), i poeti che forse non saremmo mai, e sicuramente la sua misurata leggerezza ci farà camminare con diverse “ali in sogno”.
© Emiliano Ventura
Una replica a “Su “Dire” di Fabio Michieli (di Emiliano Ventura)”
L’ha ripubblicato su asSaggi criticie ha commentato:
#Dire #EmilianoVentura
"Mi piace""Mi piace"