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Capire di cosa viviamo: Suite Etnapolis

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Il poema Suite Etnapolis di Antonio Lanza si autopresenta nelle sue ultimissime battute come “un esteso epos di racconti”, dove le storie dei personaggi si combinano fra loro nell’arco dei sette giorni della settimana, intervallate dalla voce di un io lirico sopraelevato, lo stesso che prende la parola per chiudere l’opera. Se Vincenzo Frungillo dovesse immaginare una prosecuzione ideale del suo nuovo saggio sulla scrittura poematica degli ultimi anni (Il luogo delle forze, Carteggi letterari, 2017) non potrebbe ignorare questo impressionante esperimento riuscito, ancora largamente inedito, apparso in quattro sezioni (Domenica, Lunedì, Martedì, Mercoledì) nel Tredicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2017, qui d’ora in poi Tqi) e in precedenza nel primo Quadernetto di poesia contemporanea 4×10 (Algra Editore, 2015). Cos’è Etnapolis? Un grande centro commerciale, realmente esistente, alle porte di Catania e a trenta chilometri dal vulcano: già l’individuazione del referente come materia di poesia preannuncia lapilli di frizione stilistica, residui di lirismo antico dentro un pathos da marketing. All’interno di Etnapolis seguiamo le vicende di alcuni suoi impiegati, persone normali con problemi e incombenze normali, amori infelici, licenziamenti, figli in arrivo, al limite lutti. Il tutto puntualmente esasperato da una focalizzazione che passa da Laura di Lovable, «serena dopo un fidanzamento rotto» (Tqi, p. 111) ma presto vittima di stalking, a Nuccio, malinconica guardia giurata; da Vanessa di Father & Son, giovane mamma ingrassata e depressa, ad Alfredo, barista che invece sta per diventare ansiosamente padre; e altri ancora. La lingua di Lanza procede così per strappi, interferenze, improvvisi cambi di voce, pluristilistica e politonale, e pure unificata dalla struttura, resa ipermercato di sé stessa.
Tra le tante voci ce n’è una che cade dagli altoparlanti, scandisce i momenti di Etnapolis, alterna «il divieto, cifra/ del padre» alla «voce accogliente di donna» (Tqi, p. 142). Risuona onnipresente, autoreferenziale, autopersecutoria («Tutta/ Etnapolis è raggiunta da etnapolis,/ non c’è angolo che scampi al suono/ della sua voce», Tqi, p. 113). Ricorda poi nella sua inevitabilità («Invitiamo tutto il personale/ ad ultimare le operazioni/ di apertura, grazie», Tqip. 112) il refrain che nella seconda sezione della Terra desolata mette fretta e ansia agli avventori del pub («HURRY UP PLEASE IT’S TIME»). Con Eliot pare instaurarsi un continuo dialogo sotterraneo, anche in porzioni più circoscritte di testo: le «cucine/ domenicali in cui il cielo/ entra a allungarsi sul tavolo» (Tqi, p. 112) sembrano quasi citare la sera che si stende contro il cielo «like a patient etherised upon a table» del canto d’amore di Alfred Prufrock. I manichini che angosciano tanto Vanessa («mi vengono i brividi, non scherzo!, mi pare di vestire cadaveri», sezione inedita), con le loro dechirichiane «uniformi/ teste metafisiche» (Tqi, p.138), sono in fondo il rovescio simmetrico degli hollow men, il loro riflesso da vetrina. Tornando poi al poema eliotiano, lì erano il risveglio primaverile e il ciclo della vita a essere rifiutati; dentro Etnapolis invece non ci si può sottrarre alla circolarità dei giorni, all’eterno presente del continuo aggiornamento, al nuovo che non conosce tempo e degradazione: «Così/ la città che dicono del tempo ritrovato/ identica si ripete» (sez. ined.).
La perenne giovinezza degli scaffali è vanitas nella sua accezione più contemporanea («Etnapolis di etnapolis, tutto è etnapolis», Tqi, p. 112; «Vanitas vanitatum… hai presente, no», sez. ined.). A portare invece dentro Etnapolis il turbamento del tempo che passa, del cambiamento, infine della morte, sono proprio i personaggi che vi lavorano, incapaci di separarsi dal pensiero delle proprie vite fuori delle mura. Lanza sviluppa i fili di ogni storia intrecciandoli, abbandonandoli, riprendendoli: il lettore è quindi chiamato a un continuo lavoro paradigmatico, di ricostruzione delle singole narrazioni date in frammenti e scorci. Vale per questo autore il discorso che Biagio Cepollaro riferiva a Pagliarani e Majorino, situandoli «alla convergenza di sperimentazione e problematica realistica» («Varianti», n. 8, inverno 1988-1989). Vengono ad esempio annesse alla poesia zone del nostro linguaggio quotidiano che forse solo una scrittura epica poteva motivare e riscattare pienamente, come nel caso di uno status su Facebook (scritto da Laura, che denuncia così, pubblicamente, il suo stalker) e dei commenti sottostanti. La stessa rinuncia a un io lirico forte sta dalla parte di un discorso corale fatto di mescolanze, salti di registro, escursioni stilistiche. E quando l’io torna in risalto lo fa solo all’orario di chiusura, dal terrazzo più alto di Etnapolis, e in quei momenti sale anche lo stile, che assume una sorta di andamento formulare: «Dalla terrazza da cui solo mi sporgo, il paesaggio/ sembra quasi bucolico […] Ma: Etnapolis di etnapolis – salmodio, a scanso/ di inganno, rientrando – tutto,/ tutt’intero è etnapolis» (Tqi, p. 117); «Dalla terrazza da cui solo mi affaccio/ scorgo il sole che si affossa./ Etnapolis di etnapolis, canto/ rientrando, perduti i fili delle storie,/ tutto è parte di etnapolis» (Tqi, p. 125). Fabio Pusterla nota nella prefazione come il precedente sintattico di questo ritmo, e di un verso in particolare («Questo/ anche questo, offre funambola Etnapolis», Tqi, p. 105), è un famoso finale di Sereni, nel testo olandese che parla di Anna Frank («Per questo è sui suoi canali vertiginosa Amsterdam»). Con Sereni però la vertigine della sintassi faceva tutt’uno con la vertigine del tema. In Suite Etnapolis siamo invece pronti a ripiombare subito nel quotidiano più dimesso, e dalla sua terrazza l’io serotino e sopraelevato ci dice pure questo: «Balena spiaggiata, Etnapolis,/ colonia penale, Etnapolis,/ pista di decollo, navicella spaziale, Ecclesia – /piacciati entrare intera nel mio canto,/ le luci come l’immondo» (Tqi, p. 133). Lanza insomma percorre e attraversa gli stili, e arriva giù fino all’appuntamento giornaliero con l’escrementizio delle silenziose addette alle pulizie, «indurite madonne» dai «forti guasti del vivere/ tracciati su visi ormai corazzati» (Tqi, p. 137). C’è dunque qualcosa di sacro nel lavoro degradante, una sofferenza che lo innalza, e viceversa si assiste al degrado del sacro, al suo abbassarsi alle ragioni del mercato: così «se un gesù tornasse a Etnapolis/ richiamerebbe i venditori scacciati/ dal tempio» (Tqi, p. 114), mentre in fila si esibiscono «croci dal design/ moderno dove è cancellata ogni scomoda/ traccia di sofferenza» (Tqi, p. 131). Ma quando le luci all’interno si spengono, Etnapolis mostra davvero il suo lato inumano, chiuso al pubblico, ed è uno dei passaggi più lirici e belli del poema: «Come un luna park spento, buono per ambientarci/ un racconto dell’horror: se poteste vederla, Etnapolis,/ spenti i negozi, le vetrine; la galleria vuota da cui/ ti aspetti il prorompere di un qualche spettro,/ e il silenzio pesante, e di tanto/ in tanto un rumore sospetto, giù, che poi/ non è niente. Parola di Nuccio, parola/ di guardia giurata: basterebbe che vi aggiraste/ una volta per Etnapolis spenta, spenta/ come un luna park da racconto dell’horror,/ per arrivare a capire di cosa viviamo» (Tqi, p. 133). L’horror di cui si parla è, anche, horror vacui, venuta meno la visione pienissima della merce, che pure aveva qualcosa di stordente, avvolgente, rassicurante.
Paradossalmente, Etnapolis all’orario di chiusura gareggia con il suo grande modello e vince: «Più irreale l’Etna una tonalità di blu/ più scura del cielo alle spalle/ che Etnapolis ancora illuminata» (Tqi, p. 131). Il dato fortemente innaturale non è però privo di una qualche riconosciuta bellezza, e gli stessi interni frenetici nell’ora degli acquisti assumono in fondo un carattere consolatorio, di abbagliante e consumistica fratellanza: «C’è un’allegra spensieratezza adesso a Etnapolis […] La gente agli ingressi appende la morte/ sugli appositi attaccapanni, è pronta a lasciarsi/ portare su e giù sui nastri mobili, per i negozi,/ la musica ripetitiva, martellante; degli altri rassicurante la presenza» (Tqi, p. 123). Dietro la loro facciata ironica e spiazzante, questi versi vanno presi anche alla lettera. Lanza d’altronde procede sempre per figure, evita i toni ideologici e propone una qualche mozione anticapitalistica solo attraverso formulazioni antifrastiche («Santa e benedetta la domenica di Etnapolis,/ santo il profitto santo lo sfruttamento santa la pena», Tqi, p. 114) o diegeticamente censurate, come nel caso dell’intervista a una commessa che denuncia con rabbia le condizioni di lavoro: «… anziché andarvene in giro a fare domande del cazzo sul cervo di qua e il cervo di là, perché non fate onore alla vostra professione e chiedete quali sono le condizioni lavorative di chi lavora qui a Etnapolis, quanto sono in nero, che tipo di contratti hanno, se si sentono rispettati nella loro dignità di lavoratori. Io ad esempio ne ho uno part-time, di contratto, quattro ore per cinque giorni: da venti ore che dovrei fare, sapete quante sono costretta a farne, sono costretta a farne quasi cinquanta a settimana, e sa per quanto, per seicento euro al mese, e non ho ‘diritto’ né alla tredicesima né alle ferie, praticamente diritti non ne ho, solo doveri, e dovrei sentirmi fortunata perché un lavoro ce l’ho, un lavoro!, di questo dovreste parlare, di questa specie di colonia penale che chiamano ‘centro commerciale’, per questo dovreste essere qui, non per il cervo del cazzo… tanto lo so che neanche morti quest’intervista la trasmettete, MI AVETE SENTITO, TANTO LO SO…» (sez. ined.). Non è insomma nella denuncia il senso centrale di questo libro, e nemmeno la sua forza.
A un certo punto, infatti, appare un cervo. La sua presenza imprevista sconvolge l’ordine di Etnapolis, chiama in causa le forze dell’ordine, incuriosisce e inquieta i clienti. Alcuni indizi disseminati nel testo lo avevano in precedenza annunciato, come il logo di un marchio («Tanti hanno/ buste con la scritta HEVEL/ e vi campeggia fiero un cervo/ ferito», Tqi, p. 116) o una metafora agile («Tornano forti le zampe cerbiatte che prima cedevano/ e sdrucciolavano», Tqi, p. 123). Il cervo diventa star di Youtube, «centinaia/ di visualizzazioni e nugoli/ di commenti» (sez. ined.). Soprattutto il suo non dover essere lì sembra suggerire la possibilità di altri mondi dentro il nostro, ma la solerzia censoria dell’intervistatore stavolta elimina gli eccessivi allargamenti di significato: «UNA TESTIMONE: Cos’ho provato. Ho provato tipo un senso, un senso di stupore, inizialmente: non lo sapevo che un cervo poteva essere così enorme, e pensi che lo vedevo dalla terrazza, saranno almeno cinquanta metri da lì… poi, quando ha preso e si è messo a correre, dico una cosa stupida, ho sentito come se, i suoi zoccoli, come se mi battessero qui, sul petto. Me li sentivo qui. E poi, la grazia della corsa. Come se voleva mostrarci qualcosa. E in un attimo era dall’altra parte di Etnapolis. Questo» (sez. ined.); «IL VIDEOMAKER: […] Niente, poi sarà stata la nostra presenza, che lo ha impaurito, o che altro, insomma, prende e con un movimento improvviso del collo si lancia in una corsa che lì per lì mi è sembrata diretta verso di me. Questo carica sul serio, ho pensato. Ma neanche l’ho pensato, non ho avuto il tempo per pensarlo. Mi sono buttato a terra. O sono scivolato. Addosso me la sono fatta, si può dire. E l’ho perso. E qui si chiude il video. Il suo modo di correre. L’ho visto mentre cercavo di rialzarmi: niente che avessi visto prima. Peccato che non sono riuscito a riprenderlo. Come se non era di questo mondo, e allo stesso tempo come se di questo mondo voleva che vedessimo qualcosa, qualcosa d’altro, attraverso di lui. E mentre si allontanava seguendo la linea degli ulivi ricordo di aver pensato, no, ma questa è una sciocchezza, non la dico.» (sez. ined.). Si è passati evidentemente a un livello che è anche allegorico, alla ricerca di una epifania di senso che ricorda molto quella del Caproni del Conte di Kevenhüller: lì però la fatidica bestia da catturare infestava la campagna del Ducato di Milano in un anno remoto (1792), e questa doppia distanza produceva spiragli metafisici; il cervo di Lanza invece profana oggi i limiti di Etnapolis, invade il cerchio degli uomini contemporanei e sembra illuminare proprio il mondo materiale in cui viviamo. Allora l’inganno è credere che possa esistere ancora l’Etna senza Etnapolis, che possa esserci poesia senza il quotidiano e impoetico lottare per il pane, «imbestiarsi per esso» (sez. ined., che detto con termine dantesco non può non suonare antirealistico e già in qualche modo sublimato). L’incantamento non priva insomma della coscienza dei torti da correggere, delle iniquità da contrastare, e il mondo moderno del lavoro aveva già avuto poeti capaci di mostrarne gli «asettici inferni» o le ragazze Carla. Forse però prima di Lanza quel mondo non era mai stato raccontato con tanta risentita ma inevitabile adesione, come un sofferto gioco da giocare non dissimile dall’esistenza stessa. Tutto avviene a Etnapolis, che è «colonia penale», ma anche «pista di decollo, navicella spaziale».

@ Andrea Accardi

2 risposte a “Capire di cosa viviamo: Suite Etnapolis”


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