Tredicesimo quaderno italiano, Marcos y Marcos, 2017, € 25,00
Ho scelto l’acqua per attraversare il XIII Quaderno italiano di poesia contemporanea.
L’acqua è un elemento che compare in quasi tutte le poesie di Agostino Cornali (1983); una presenza costante, persistente. Il campionario è vastissimo: si tratti di rogge, fossati, pozzanghere, sorgenti, marcite, vasche, ghiacci, torrenti, laghi, fiumi, mari, proprio attraverso l’acqua sembra dettarsi, prima di sciogliersi nel nulla, la sua (sua e potenzialmente di ognuno) “geografia dell’io”. Dirò meglio: Cornali prova a pescarsi in una toponomastica che gli serve da puntellamento esistenziale e immaginativo, e l’acqua è un contorno fondamentale. Siamo in presenza di una ricerca e di una fantasia dell’io. I luoghi e le situazioni di Camera dei confini sono dunque punti, nomi che diventano tracce di epifania, perché del suo io avvenga l’annullamento. Cornali è autore anche di prosa, ama l’invenzione e lo scavo di Mari, ama l’asciuttezza e l’essenzialità di McCarthy. Così tutto è un confine nella sua poesia, che si muove tra storia, leggenda (come quella del Lago Gerundo col Drago) e la quotidianità di tutti. Cosa resta, alla fine? Una grandezza, una vastità sognante, potremmo dire, tra antichità e futuro dell’io, in una poesia che ci fa toccare magnificamente solitudine e abbandono.
Chieve
È il respiro del drago Tarantasio
che fa tremare le persiane
nelle notti di febbraioe sulle barche che solcano il lago
i nostri antenati longobardi
si alzano in piedi, tremanti sulle prue,
le spade e gli scramasax in manoguardano la testa crestata del mostro
che emerge lentamente dalle acque,
i suoi occhi accesi nella nebbia
le fauci spalancatee allora divampa
il fuoco sulle torri
dei castelli di pianura
e il pianto dei bambini risuona sulle coste
da Fara Gera d’Adda ad Acquanegra.Di quel lago maledetto
che dà il nome alla tua via
è rimasta una piccola pozza
che non riesce ad asciugare
in un campo di frumento.Ma tu, nel sonno, continui a tossire.
Il nome di Franca Mancinelli (1981) è un nome già affermato, saldo nel panorama della poesia contemporanea. Tasche finte, dopo i libri Mala kruna e Pasta madre, è il contributo di novità che si offre in questo Quaderno. Ha ragione Antonella Anedda, introducendo l’opera, nell’evidenziare quanto il gerundio sia venuto in soccorso in queste ultime prose poetiche (o possiamo forse dire: “false” poesie). Interessa notare il procedimento creativo di Mancinelli, come le immagini cioè diventino incisioni, e come il gerundio, in effetti, consenta in modo efficace e affascinante un rallentamento nel farsi di queste immagini: raffinate immagini che pian piano si disegnano, entrano in un disegno filmico, entrano nella nostra mente, depositarie di una delicatezza (ma non disgiunta dalla forza) che le distingue e le esalta. Scelgo ancora l’acqua, come dicevo, per poterci inoltrare nella sua poesia. Fin qui, dove l’approdo è appena oltre il silenzio:
Qui ciò che cade indurisce nello spazio assegnato dal caso o dal destino. Cadendo si abbandona, perde ogni appartenenza. Iniziano a crescere radici, sottili come capelli. I tuoi, sul pavimento, nella polvere. Ma oggi il tempo è entrato, risuonando sui vetri. Le pareti si sono fatte sottili. La casa di membrana. Ogni stanza entrava nell’altra, sovrapposta come in un gioco di dimensioni perfette. Ne restava una sola alla fine, profonda di tutte le altre. Vi entrava anche il giardino, con gli alberi, la strada di auto lente, il canale. Ti stava facendo questo, pazientemente, la pioggia. Aprendo una sillaba all’infinito fino all’inizio dell’articolazione di un suono. Portandoti appena dopo il silenzio. In quella durata dove potevano fare ritorno, trovare luogo le cose.
Claudia Crocco (1987) è la più giovane protagonista di questo Quaderno. Massimo Gezzi, nella sua presentazione, sottolinea quanto Il libro dei volti sia «un libro di poesia integrale e post-lirico». Cosa vuol dire? Che c’è sperimentazione (capace tuttavia di non dimenticare la tradizione, che Crocco, da studiosa, conosce bene); che entrano in gioco i materiali e le forme della nostra contemporaneità; che identità e personalità dell’autrice sono in grado d’infiltrarsi tra i frammenti di questa nostra realtà odierna. Per arrivare infine a farne, in forma di poesia, un «mosaico tutto suo». Colpisce, soprattutto, la schiettezza dell’enunciato. Spesso la sfrontatezza. Basti leggere le due poesie iniziali, Skype night e Hotel Luna. Al centro di questi testi ci sono le nostre esistenze sempre più in bilico tra vita vera e virtuale. Dove finzione, solitudine e nulla, rischiano di diventare dimensioni sovrane. Ma l’acqua che ci sta conducendo all’interno di questo Quaderno mi porta a scegliere altri due testi, in parte diversi da quanto detto, ma ugualmente bellissimi e dolenti, tratti dalla sezione intitolata Lutto:
II
Lascio l’acqua scorrere e farsi calda
provo piacere per il rumore martellante, per lo spreco,
vorrei che qualcuno mi vedesse ora non c’è nessuno.
La guardo così mentre continua a scorrere
penso che se non la chiudo il tempo si ferma
e non ci sarà più nessun dolore e allora avrò fermato il dolore.
.IV
Ma non volevo allagare tutto, e non volevo
fermare il tempo. Io volevo solo
volevo scegliere io come morire.
Adesso credo che il mondo non si fermerà più.
Flavio Santi, nella sua originale e ispirata introduzione, sottolinea quanto nel retroterra della poesia di Daniele Orso (1982) si senta, eccome, la presenza di Fortini. Aggiunge, Santi, che nel “sottobosco” della sua poesia c’è anche la presenza della canzone d’autore, e le altre voci, importanti, da cui Orso ha scelto di provenire: soprattutto Giudici (citato con Fortini in esergo a Muri portanti) e Saba. Si consideri poi che Orso si dichiara «Quasi lombardo nell’animo, come quei nomi / Solenni che scrivono di laghi e di campagne». Siamo al cospetto di un lavoro in cui ritmo, suono, struttura sono molto marcati. E mentre il corridoio d’acqua che stiamo percorrendo porterebbe a proporre la poesia intitolata L’estate in piscina, con i versi: «Lasciarsi affondare, toccare / Il fondo e risalire / In superficie ciclicamente», una poesia in cui l’elemento dell’acqua c’è meno, appare solo nella figura dei fossi, appare troppo importante per non essere evidenziata qui, tanto è centrale a mio avviso nella silloge. Una poesia splendida, intitolata L’educazione cattolica, in cui sono avvertibili credo, almeno in parte, echi del conterraneo Mario Benedetti:
Boh, non so. Non tiene, non tiene niente.
Questo sole, quest’aria, e non è questo sole, non è quest’aria.Le piante, quante sono, non sono mai state.
Il rosso ai fossi è questo rosso,Non conosce altri rossi. Le mosche
Che s’alzano dai fossi in nugoli neri,Sono nate oggi, false mosche di ieri.
La luce è questo esser felici, questeCampane e i suoni riflessi
Che sbattono contro ai gridiDei gelsi che nascondono bene
Bambini che tremano al fresco dei campi.Ma non è che i preti mi fecero felice
Non è che i preti mi aiutarono a salireSui muri della chiesa a spiare le partite
Non fecero per me fionde e catapulte.Non fui un solo giorno felice grazie ad altri.
Né io fui mai agente di grazia altrui.
Nell’opera di Stefano Pini (1983) ritroviamo l’acqua subito, a inizio silloge, sotto forma di pioggia, con la pianura e i campi. Treviglio, la Gera d’Adda, la giovinezza compongono il terreno della sua poesia. Poi molti altri elementi, certo, prendono vita nella sua Sentimentale Jugend, e le città soprattutto emergono nelle altre intense sezioni, intitolate Nomi, Stagioni, Diserzioni. Come in Cornali, anche in quest’opera la nominazione dei luoghi assume un ruolo essenziale; la loro precisazione va infatti a comporre una serie di indizi-chiave per muoversi nel labirinto esistenziale, nell’idea di labirinto anzi, che è matrice dell’uomo e della sua esistenza. Lo stile è affilato, nel voler raggiungere un ritmo proprio. Compaiono endecasillabi mirabili, come «dove poggiavo e adesso guardo: il giorno»; e mirabili, perché taglienti e assolute, sono tutte le chiusure delle poesie. Appaiono al fondo, per nulla negate, ma felicemente ricondotte al proprio respiro, le figure di due maestri per Pini imprescindibili: De Angelis, che è anche prefatore della silloge, e Benedetti.
Treviglio, via Milano
Era da queste parti
dove dicevi che sono nato,
la piega dei fogli che ho letto e gli steli
del grano d’estate, la terra
dove poggiavo e adesso guardo: il giorno
era a più distanze, ricordo
la luce rotta di chi adesso, labirinto
tra i campi è uomo.
Le mura sono cresciute senza germogli
attorno la pioggia che porta per mano
fino alla carta, dove s’impara il seme
e che questa è una casa so scriverlo,
un amore dove la radice arrampica.
una pianura, quanta fatica per tornare qui.
Antonio Lanza (1981) presenta un poemetto narrativo, intitolato Etnapolis. Etnapolis, la città del tempo ritrovato, recita la denominazione che, offendendo terribilmente Proust, è stata assegnata a un tempio commerciale, un mostruoso complesso multifunzionale progettato nel Catanese da Massimiliano Fuksas. Il poemetto è potente, ha ragione Pusterla nell’introdurlo. E ha ragione nel dire che «mescidazioni, ibridismi, riduzione al minimo di lirismo ed egolalia» sono caratteristiche evidenti. Il poeta passa (ci fa passare) alcuni giorni in questo “contenitore”, in questa Babilonia, enorme e innaturale tanto che è «Più irreale l’Etna una tonalità di blu / più scura del cielo alle spalle / che Etnapolis ancora illuminata». I giorni diventano sezioni dell’opera, da Domenica a Mercoledì, alla luce di una poesia in cui tutto può e deve entrare. Tra brani rubati, pezzi di discorsi, annunci, notizie, la prosa del mondo fluisce nel mare dei giorni e ci consegna questa «Balena spiaggiata» che è Etnapolis:
Etnapolis di etnapolis, tutto
è etnapolis, dalla terrazza da cui solo mi sporgo
lamento, finito il turno, la prova.
(C’è buio fitto adesso – e dorme distesa
tutta sotto le stelle la colossale
Babilonia.) Balena spiaggiata, Etnapolis,
colonia penale, Etnapolis,
pista di decollo, navicella spaziale, Ecclesia –
piàcciati entrare intera nel mio canto,
le luci come l’immondo.
Quelle di Jacopo Ramonda (1983) sono prose brevi da ricondurre alla poesia per quanto sanno offrire nel loro esito e per il taglio dello sguardo da cui prendono vita. Sul confine tra prosa e poesia, quella di Ramonda è poesia potremmo dire per origine e destinazione. Oltre l’idea del racconto e la volontà del raccontare, che pure ci sono, si tratta di una popolazione di nomi e di situazioni che via via si rivelano più che altro in qualità di cartoline, biglietti, piccole finestre sulla vita di molti. E sono vite senz’altro rappresentative di ognuno. La finestra non è mai spalancata, la griglia è giusto accostata, entra poca luce e solo un po’ d’aria: quello che serve per lasciare fluire di queste vite le annotazioni salienti. Particolarmente importante l’utilizzo dell’idea di cut-up nella sezione Noi significativamente dedicata ad Andrea Inglese. Buffoni fa riferimento, nella premessa, a Giampiero Neri quale ascendente possibile per Ramonda. C’è molta differenza tra i due, ma credo la stessa vocazione alla tessitura, lo stesso movente:
Nina (#2)
Dopo quarantacinque minuti spesi inutilmente tentando di addormentarsi, Nina si alza dal letto e si dirige verso il bagno. Appena entrata, prende una sigaretta dal pacchetto che ha lasciato sulla lavatrice e l’accende. Mentre fuma, regola il miscelatore e osserva il livello dell’acqua salire. Controlla un paio di volte la temperatura con la mano libera, poi lascia scivolare il pigiama sulle piastrelle fredde e immerge il suo corpo nella vasca. Con la nuca appoggiata al bordo, socchiude gli occhi, aspettando un segnale di resa. Appena lo sente arrivare, rilassa i muscoli della schiena e si abbassa leggermente, lasciando che l’acqua sommerga le spalle e il collo. Il calore che l’avvolge contribuisce a ricostruire la condizione d’isolamento fetale di cui ha bisogno. Una simulazione, per certi versi simile alle esercitazioni in assenza di gravità con cui gli astronauti allenano il fisico alla permanenza in orbita, ma in previsione di un viaggio con caratteristiche opposte, fondato sull’immobilità. Il sonno. […]
Cristiano Poletti