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Per secoli gli uomini hanno saputo opporre alle forze della dispersione un sistema simbolico coeso e forte, tale da porsi a salvaguardia dei valori condivisi: anche questo di fatto è stata l’epica antica per i suoi contemporanei, serbatoio di gesta esemplari compiute dagli eroi e trasmesse alle generazioni successive. Qual è invece il senso di un’epica nel nostro presente antieroico, in cui “la dispersione è rappresentata dalla proliferazione indistinta e indifferenziata di segni” (p. 9) e il rischio dell’oblio nasce piuttosto dall’eccesso di comunicazione e da un vorticare di valori contrapposti che finiscono per annullarsi? A questo cerca di rispondere Vincenzo Frungillo con il suo saggio Il luogo delle forze (Carteggi letterari, 2017), e lo fa di fronte a un effettivo e massiccio ritorno della poesia a una vocazione poematica, a libri di versi fortemente strutturati, opere-mondo “da opporre alla disseminazione” (p. 9). Se infatti non vi è dubbio che una scrittura neo-epica e programmatica risponda a una esigenza di ordine, bisognerà pur vedere in che modo questi autori hanno fatto la loro proposta di ricomposizione del mondo legittimandosi sostanzialmente da sé, in assenza delle basi tradizionali di una volta.
L’argomentazione di Frungillo si incardina intorno alla metafora del corpo, che in età classica si configurava come corpo esemplare, corpo esposto dell’eroe. È il caso del cadavere di Ettore, reclamato dal padre Priamo che diventa garante della memoria eroica: “sul corpo di Ettore si gioca lo spazio del racconto che è uno spazio etico, estetico e metafisico allo stesso tempo, qui si apre lo spazio della memoria […] Dimenticare il rischio della fine significa perdere il senso stesso della parola e quindi il nostro spazio di specie, la nostra nicchia ecologica […] il corpo dell’eroe trattiene lo spazio che permette la Storia e una narrazione condivisa” (pp. 14-15). Il “rischio della fine” è la possibilità che si interrompa il discorso che dai padri passa ai figli e dal singolo alla comunità, e che insomma prevalgano le forze della dispersione. A parti inverse, un altro eroe, Enea, porta sulle spalle il corpo sofferente del padre Anchise, come un’eredità fisica e simbolica a partire da cui poter ricostruire una Patria. L’immagine del corpo va insomma in risalto laddove avvengono scambio e condivisione tra generazioni, e cioè laddove si fonda una tradizione. Che ne è invece del corpo nell’epica contemporanea, che opera in un tempo nel quale “la tradizione, intesa come portato di valori comunemente accettati, non è più garantita” (p. 17)? Già con Pagliarani (autore di riferimento costante per Frungillo, e nel libro termine di paragone per tutti i poeti successivamente presi in considerazione) il ritorno in poesia di macrofigure (linea narrativa, presenza di personaggi) si combina con il senso profondo della loro drammatica inattualità; avviene cioè “la messa in crisi del corpo dell’eroe protagonista come centro ideale della memorizzazione” (p. 20). Con La ragazza Carla, Pagliarani mette in scena “quella società che verrà poi detta ‘dei senza padri’” (p. 25) tratteggiando l’assenza delle figure maschili di riferimento, assenza che genera lo sbandamento dei personaggi filiali: Carla Dondi, segretaria diciassettenne già sottomessa alle nuove logiche capitaliste, non può quindi farsi tramite di nessuna tradizione, e con lei la condivisione stessa del corpo esemplare diventa cattiva, sterile condivisione: in una parola, alienazione (va comunque detto che in quel poema proprio il “cielo colore di lamiera”, che però “è nostro ed è morale”, finisce per annunciare la possibilità, forse l’imminenza di una nuova tradizione). Ci viene poi ricordato come Caproni in precedenza, nel suo Passaggio di Enea, avesse già messo in luce la fatica dell’eroe sotto il peso del padre, la sua inadeguatezza nei confronti di un passato del quale farsi carico: due opere che inquadrano insomma lo stesso disagio rispetto alla vecchia successione lineare, al gesto di far andare avanti il mondo con edipica solerzia. Con un convincente salto analogico, Frungillo dichiara: “la mutazione di un genere, quello epico, va dall’esposizione del corpo esemplare all’indeterminatezza del corpo nero” (p. 45). L’immagine del “corpo nero” proviene dal Pagliarani delle Lezioni di fisica (“Cominciò studiando il corpo nero/ Max Planck all’inizio del secolo (dispute se era il principio o la fine/ del secolo), le radiazioni del corpo nero nella memoria”), ed è quindi desunta dal linguaggio delle scienze: “[i]l corpo nero, in fisica, indica il principio limite dell’indeterminazione” (p. 44), mentre in poesia mostra il contrario della visibilità eroica. Venuta meno la certezza del corpo ideale, “[l]o sguardo si fissa sul corpo come essenziale negazione” (p. 53): negazione dei padri in quanto assenti, negazione dei figli sradicati dalla Storia. Ma il corpo nero presenta anche delle evidenti risonanze psicanalitiche (pensiamo all’idea junghiana di Ombra), per cui l’indeterminatezza invade e modifica l’interiorità del soggetto. Il concetto di inconscio, sconosciuto agli antichi, estrinsecato nelle Muse e in altre figure, si ricongiunge con il corpo dell’eroe, ne offusca irrimediabilmente lo splendore.
Frungillo ci offre quindi una vasta ricognizione della produzione tendenzialmente poematica degli ultimi anni, prima in un capitolo che assomma varie opere, poi attraverso singole schede analitiche. Compaiono Le api migratori di Raos (2007), dove il corpo pulviscolare dello sciame impazzito attraversa anche graficamente il libro, e Darwin di Trucillo (2009), ispirato al teorico dell’evoluzione, la quale è in fondo un’epica al rallentatore, antisublime e quotidiana (vedere S. Brugnolo, il capitolo Darwin e ‘l’elemento fluttuante’ come fattore narrativo, in La letterarietà dei discorsi scientifici, Bulzoni, 2000). Nel dettaglio incontriamo l’opera recente di Cepollaro, e in particolare la sua trilogia (Le qualità, 2012; La curva del giorno, 2014; Al centro dell’inverno, uscito quest’anno), dove il corpo si fa davvero protagonista, un corpo pulsante, intermittente, oscillante tra ristrettezza fisiologica e accensioni epifaniche; corpo che diventa anche refrain sintattico da un componimento all’altro. Con Andrea Inglese, una forte tendenza alla struttura unitaria e alla sviluppo narrativo (che due anni fa lo ha condotto all’approdo romanzesco) produce nel 2011 il prosimetro Commiato da Andromeda (poi confluito nel suddetto romanzo), dove la fine di una relazione amorosa pone il soggetto di fronte al “nulla e i fantasmi” (p. 110) di una rivisitazione circolare; il quadro di Piero di Cosimo, una cui riproduzione decorava il bagno dei due amanti, diventa proiezione a posteriori della loro storia, con Andromeda, Perseo e il mostro marino nel mezzo; il corpo dell’altro si rivela dunque per quello che era, schermo protettivo contro il vuoto, argine alla “semiosi infinita” (p. 112) che adesso s’innesca e travolge l’io, finché questi non impari a riconoscersi “cospiratore” (p. 112) di quella stessa catastrofe della memoria e dell’esperienza, come già mostro al centro della tela (“perché io/ ogni minuto dimentico,/ dimentico agile e sistemico,/ con sottigliezza e precisione,/ portando sempre più avanti/ e sempre più distratto/ il fronte della dimenticanza”). Anche Previsioni e lapsus di Luciano Mazziotta (2014) si configura come “una poetica perlustrazione sulla consistenza dell’io” (p. 123), come la narrazione di un soggetto che va in perdita e si definisce per sottrazione, nelle mancanze, nei lapsus, nei tracolli minimi percepiti con vista periferica (“Succede. È successo più volte/ sempre fuori quadro di sbieco/ tra tempie e lenti”); questa conoscenza accidentale e segmentata del mondo finirà per produrre, negli ultimi inediti dell’autore, una segmentazione della sintassi. Con La neve di Francesco Filia (2012), “[g]razia e minaccia s’intrecciano indissolubilmente, tanto che la prima […] diventa un riflesso lontano e intangibile” (p. 113): il lucore del corpo candido della neve sul Vesuvio risalta infatti come il segno doloroso di un’integrità perduta, forse mai posseduta (“La neve, quella vera, non l’abbiamo mai vista/ se non nella bocca a nord del vulcano”; “Abbiamo confuso la minaccia di neve con/ la sempre promessa e mai caduta manna”).
Concludo con un dubbio non soltanto terminologico. Molti e molti altri sono gli autori e le opere finemente trattati da Frungillo nel suo saggio, e in effetti per alcune di queste l’aggettivo epico potrebbe essere davvero opportuno (e bisogna aggiungere al novero lo stesso Frungillo, in particolare il suo poemetto Ogni cinque bracciate del 2009). Talvolta però un termine così fortemente caratterizzato, pur nella volontà dichiarata di attualizzarlo, sembra mancare la presa. Parlando latamente di scrittura poematica, si può ancora intendere il fatto di valorizzare “la cornice” come “macrometafora” (p. 87) che potenzia e rafforza le singole parti (valga sempre l’equivoco su Dante da parte di Benedetto Croce, che vedeva nella struttura soltanto un’impalcatura inerte). Occorre invece mettere meglio a punto cosa sia l’epos nella nostra attualità, per quanto suoni suggestivo un discorso come questo, che partiva ancora da Pagliarani: “Il rapsodo contemporaneo vede con gli occhi della fisica quantistica e della logica carnapiana l’essenza dell’epica, ‘la grammatica epica di Achille’. Per questo nuovo rapsodo ogni verso è la presa d’atto della differenza di cui è fatto un corpo, ogni testo è l’attuazione del ‘progetto banale della x’, ogni poesia è località della differenza. Ogni poesia che si fa carico di questo compito, che dimostra di saperne sopportare lo sforzo, è poesia epica” (p. 58). Il punto è che per definire un’attitudine epica ci sono aspetti conclamati e superficiali che risultano però ancora dirimenti (su tutti, una traccia pur labile di orizzontalità narrativa, la presenza pur abbozzata di personaggi, e Frungillo parla infatti di “personaggi e identità emblematiche”, p. 86). Facendo invece il percorso inverso, dall’astratto al concreto dei testi, non si vede bene per quale motivo sia eminentemente epica una poesia capace di “provocare il rimosso”(p. 85) nella storia, e di mostrare “il corpo come faglia inestinguibile del gioco di forze” (p. 87). Potrebbe forse riuscirci anche una poesia che diremmo lirica (ci si muove però tra categorie liquide, che Frungillo comunque non contrappone nettamente), e perfino il presunto e vituperato atteggiamento confessionale, in virtù di quel fondo simmetrico che permette sempre un qualche riconoscimento. Insomma, da una parte sembra esserci molto di vero e brillante, dall’altra non tutto è stato dimostrato. Giace forse in questo nesso non rischiarato il corpo nero di un libro che resta nondimeno tempestivo e sorprendente.
@ Andrea Accardi
Una replica a “L’inizio di un’epica: su “Il luogo delle forze” di Vincenzo Frungillo”
L’ha ribloggato su A proposito di un cane in livrea.
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