
Ho aspettato per dirvi che venerdì sera sono stata a sentire Mariangela Gualtieri, a Palazzo Te. Ma lasciate che aspetti ancora, e ve ne parli alla fine.
Palazzo Te è la novità di quest’anno. Basta allungarsi poco oltre San Sebastiano, a due pulsazioni di pedale, e il palazzo apre le porte agli ospiti del Festival con il suo giardino perfettamente disegnato, i suoi soffitti celebri e complessi. La libertà con cui si passeggia rende quasi colpevoli. Faccio capolino una prima volta, ad esempio, per ascoltare Milo De Angelis leggere le sue poesie accompagnato dall’arpa di Eva Perfetti; Umberto Fiori leggerà quella stessa sera, mescolato alla chitarra elettrica di Luciano Margorani; ed entrambe le volte chiedo ai volontari: posso attraversare quella porticina, lì? Al loro assenso alzo gli occhi ai soffitti. Ade rapisce Persefone, come nella melagrana che da quattro anni porto al collo. Zeus si fa toro e pretende Europa, come su quei due euro di conio raro che io colleziono per tutto l’anno per spenderli soltanto qui. E mi ricordano, questi due ratti, di qualcosa che ho studiato, di qualcosa che ho scritto, di qualcosa che è ancora conservato, e che mi è caro. Questi due ratti possono riassumere anni di letture e ragionamenti, e sono a portata di sguardo, su due lunette dello stesso soffitto.
Accadono cose care tra gli eventi dei Festlet, durante i suoi spettacoli e nelle pause tra un atto e l’altro. Mentre si ascolta Cognetti parlare della stagione del raccolto, e di come per i tibetani il pellegrinaggio sia girare attorno a un monte e non scalarlo. E mentre si libera un’ape lasciata a intrappolarsi dentro un bicchiere nel tempo rapido del pranzo. Qualcosa che somiglia al concetto di malinconia come lo spiega Mercedes Lauenstein a Chiara Valerio: il bussare di notte della sua protagonista alle porte delle case con le luci accese. E che somiglia, assieme, al cono d’ombra sotto il pozzo medievale a Piazza Leon Battista Alberti, più testardo del sole che lo genera, mentre si limita a ruotare e a offrire sempre un attimo di quiete a chi ha bisogno di una sigaretta.
La fotografia che vedete in apertura è stata scattata proprio a Piazza Alberti, qualche ora prima che Mariangela Gualtieri tenesse il suo rito sonoro a Palazzo Te. Mentre appunto queste cose su un quaderno, con l’intenzione di dirvele non prima dell’ultimo post, sono presente ma molto lontana dal palco dove la poetessa pronuncia le sue poesie. Ho deciso di sedere sull’erba, nel vasto Cortile dell’Esedra. Ascolto e scrivo, perché questo è stato anche il Festival dell’ascolto da lontano, dell’angolatura più velata da cui guardare. In questa mia quarta, privata edizione, mi sono proibita i programmi serrati, per mettermi in grado di regalare il tempo a quello che non era previsto, provare a improvvisare il gesto dell’attenzione. Ho aguzzato l’orecchio passando in bicicletta agli Accenti di Piazza Sordello come ho imparato l’intonazione con cui la barista mi chiede se anche oggi voglio il decaffeinato. Ho incamerato con una sicurezza selvatica l’odore della tendostruttura del campo. Sono diventata il ciclista che ho sempre odiato. Ho goduto delle ore di frenetica attività come di quelle passate di notte in attesa che si caricasse il telefono, china su un libro comprato per essere regalato e aperto con attenzione per non sgualcirne la costola.
Bello, bello mondo, sta dicendo Mariangela Gualtieri dal palco. E io ricordo la mia prima edizione di quattro anni fa, quando Michael Cunningham chiuse la manifestazione con l’affollatissimo evento di Piazza Castello e io pensai: come fa questo luogo a sapere di me e del mio rapporto con i libri di quest’uomo? Come fa questa città a intuire che leggo Le ore quando ho bisogno di avere conferma della grazia del mondo? Perché questo posto ha permesso che io lo dicessi proprio a lui che l’ha scritto? Ricordo Anna Marchesini, la mia felicità di vederla, la mia consolazione di averla applaudita prima che fosse troppo tardi. E ricordo gli incontri fortuiti con autori che ora sono amici stretti, amici cari, e che potevano diventarlo proprio e solo perché nulla, nel Festivaletteratura, avviene dietro vetri oscurati. Da subito si può dire: sei tu, vero?, noi ci conosciamo, io ti ho letto.
A tra un anno, per il prossimo Festivaletteratura. Io devo alzami in piedi per ascoltare, adesso, perché anche quest’anno il Festlet ha scoperto, in quel segreto modo che gli è suo, un qualcosa che mi rende grata, che mi mette spalle al muro con un improvviso morso di felicità. La Gualtieri dice: E che cosa chiediamo? / Una piena falcata d’amore, / una giusta battaglia, aculei nella voce, / narcisi e rose // essere radiosonda / del niente che trasforma / il trascendente in cose.
© Giovanna Amato