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Mariagiorgia Ulbar, Un Bestiario (Nervi edizioni). Recensione

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Mariagiorgia Ulbar, Un bestiario, Nervi edizioni, 2015, € 22,00, nerviedizioni.it

Per accedere ai versi della recente raccolta di Mariagiorgia Ulbar, Un bestiario, uscita per i tipi di Nervi edizioni (2015), si può partire da uno spunto o meglio da un’intuizione che non ha a che fare con la poesia ma con la filosofia: “Dubito fortemente che esista un’etica della convivenza che possa prescindere da un’etica della terra”. Si tratta di una citazione di Duccio Demetrio tratta dal suo recente volume Green Autobiography. La natura è un racconto interiore (Booksalad, 2015). Ancora Demetrio, che da anni si occupa di narrazione, in particolare di autobiografia, aggiunge:

cose, oggetti, paesaggi non possiedono i nostri codici linguistici per comunicare (e non sanno di essere i protagonisti o gli interpreti della loro storia), ma nell’istante in cui essi entrano a far parte della nostra esperienza, suscitando attenzione e curiosità, il paradigma narrativo ci soccorre: per raccontarli, salvarne il ricordo, dar loro un passato, una voce.

E, infine:

Che cosa dunque più della Terra cui apparteniamo inequivocabilmente […] può dirsi sacro? […] Sacralità è […] udire il richiamo di un uccello e provare una gioia pura nel riconoscerlo in volo. La terra sa rivelarci se stessa, nel suo manifestarsi estetico, aprendoci al contempo a noi stessi per meglio offrirci la coscienza di appartenerle indissolubilmente anche perché un giorno torneremo a essa.

Un bestiario ha molto a che fare con questo e vedremo perché.
Partiamo dal titolo, da quel non rovesciamento del sacro – secondo le parole di Demetrio – che Ulbar ci suggerisce nei suoi versi ancora prima di leggerli, che ci prepara ad affrontarli; ma il suo “bestiario” si può dire che risieda contemporaneamente nell’ordine dell’estetica e che, proiettato all’io e al tu che in questi versi vivono, non rifugga del tutto la sacralità. Ed è un “dare voce” agli oggetti del paesaggio: la fauna cui la poetessa pensa, esprime quell’etica della terra auspicata da Demetrio; un ritorno a essa si compie nel segno della ricerca di un’appartenenza, che in poesia sappia dirsi nuova com’è in questo caso. Riporto tre esempi: «Ma più muto dei pesci chi c’è/ tra tutti i mille animali? Non c’è/ scampo, non c’è un suono mai»; «E non dirlo ancora mai, continua,/ saremo ancora noi le foche lucide/ dello zoo, nere come il metallo/ giovani ma con i baffi bianchi.»; «Ci somigliano i lupi usciti dall’inverno/ sospesi sulla neve un po’ per volta/ scendono verso terra e torna/ l’erba che odora rovinosa e forte». Ulbar si serve così di una tensione alla personificazione, quasi giocando con la sostituzione dei soggetti poetici, di certo con uno spostamento degli stessi. La lettura mette di fronte a immagini potenti e limpide, quasi come a delle fotografie che nella natura affondano le radici. Queste poesie potrebbero essere le didascalie alle fotografie di Sebastião Salgado del ciclo Genesis; forse non è così forzato pensarle vicine a quegli scatti, tanti sono la luce e i colori contrastanti che accomunano i versi di Ulbar e le foto di Salgado.

Ho visto le balene una notte
arenate nei pressi di uno stagno.
Tu dormivi teso nel respiro
e io vegliavo, tesa anch’io ma senza sonno.
Dormivano loro per sempre o
quasi per sempre
una almeno, mezzo respiro e un soffio più sottile.
E tra noi e loro solo il buio
e l’acqua immobile
e secoli di sconoscènza
di vita animale perduta
di vivere per cibo e per stanchezza
e vastità che non sappiamo immaginare.
Siamo tra la camera e lo stagno
e come ci arrivammo non si sa;
nessuna differenza, nessuna, amore,
due morti e due vivi per poco soltanto.

L’inventario poetico qui è emblematico di una condizione dell’umano, pare dirci “quello che siamo”. Nella poesia citata, in particolare, l’uso di “sconoscenza” (etimologicamente sconoscere significa “ignorare”) è attento: richiama al piano dell’esperienza come l’ha inteso Demetrio ma forse, non senza azzardo, ad un livello non ancestrale può rimandare al piano della risignificazione psichica. La camera e lo stagno si approssimano naturalmente. Colpisce, inoltre, come in queste poesie Ulbar si serva degli avverbi, per “precisare meglio”: il «mai» che chiude la prima poesia e apre la seconda ad esempio (come nei versi citati e virgolettati poco qui sopra), ci fa fermare, ci chiede una stasi che coincide anche con la mancanza di suono, quindi di movimento e di equilibrio insieme. L’attesa che si crea – e il recupero della direzione di cui ci si riappropria – dal primo testo in poi serve a comprendere il gioco delle parti di cui si è parlato sinora, che tra gli altri culmina nelle penultima poesia, citata per intero: qui nell’ultimo verso la condizione di vita e morte è unica, è un tutt’uno, in un tempo che si dà breve. In tutti i testi della plaquette, il tempo è assimilabile – ancora con rischio – a quello onirico; questo tempo-non-tempo, passato-presente insieme, si espone completamente nei versi dell’ultima lirica; è il cavallo l’animale prescelto (un animale freudiano) ma lo spazio e il tempo sono quelli del sogno nel sogno, che raddoppia le immagini e i significati. Ecco la chiusura: «Un cavallo ora è il sesso ora la morte/ la libertà oppure la liberazione,/ mi stendo e sogno ancora:/ io sogno un cavallo e poi il sogno/ è un cavallo/ e io femmina e maschio insieme.»

© Alessandra Trevisan

Una replica a “Mariagiorgia Ulbar, Un Bestiario (Nervi edizioni). Recensione”


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