Luciano Cecchinel è una figura d’eccellenza nel panorama contemporaneo, nota principalmente per la poesia, con cinque splendide raccolte (prevalentemente) in lingua e due eccellenti lavori nel dialetto della sua vallata alto-trevigiana. La sua personalità è conosciuta anche per la discrezione con cui si muove nel mondo della letteratura: preferisce la lontananza dai riflettori e circoscrive il proprio campo d’azione, riconoscendosi una certa sensibilità come fruitore, ma non la caratura di un critico, rilievo presente anche all’interno della prosa qui offerta ai lettori per la prima volta.
Credo che l’acume di Cecchinel nell’avvicinarsi all’arte di Luigi Marcon ne contraddica nei fatti la personale convinzione, perché questo scritto è davvero bello e ‒ se a dominarlo vi è da un lato un senso di profonda amicizia per l’incisore trevigiano, dall’altro il sentimento condiviso per i paesaggi prealpini che entrambi abitano ‒ vi trapela anche una conoscenza della materia che va oltre la norma, segno di un segreto ascolto di Cecchinel verso quanto accade nel mondo delle arti visive, almeno all’interno del suo “quadrilatero” (per usare un’espressione tipicamente zanzottiana).
D’altronde in questo caso, a stimolare la parte cognitiva del poeta di Revine-Lago, vi è la finezza superlativa del “gesto incisorio” di Marcon, che il testo che segue ci aiuta a riconoscere nella sua piena autonomia e nell’assoluto valore artistico, come dimostra la riproduzione di “Neve a Valmorèl” che ‒ su generosa indicazione di Cecchinel, e da lui molto amata ‒ abbiamo il privilegio di offrire ai lettori di «Poetarum Silva», invitandoli a visitare la “Saletta” presso cui, a Vittorio Veneto e in rete, l’incisore ospita una parte del suo universo cromatico. (Paolo Steffan)
Il gesto incisorio di Luigi Marcon
prosa inedita di © Luciano Cecchinel
La prima impressione che scaturisce dalla contemplazione dei lavori di Luigi Marcon è più generalmente quella di un sereno equilibrio fra cognizione, sentimento e tecnica.
È d’altro canto indubitabile che, per essere veramente tale, ogni opera d’arte, anche quella che si presenta più leggibile, deve comunicare più di quanto il suo autore scientemente abbia voluto.
E sembra essere innanzi tutto prova di questo il poter cogliere entro i paradigmi naturali e rurali del Nostro Artista un senso di supplice mestizia: i casolari sorpresi nel loro silenzioso abbandono, le bocche vuote e scure dei fienili, gli alberi protesi verso misteriose sfuggenze vivificano, quasi “stendardi di preghiera”, la mente e dalla mente vengono vivificati, come il vento attiva e viene nello stesso tempo attivato dalla materia con cui viene a contatto. E le betulle, che a tratti ricorrono nei suoi lavori, sembrano assurgere nella loro mansueta flessibilità ad emblemi di un mondo sconvolto da un improvviso fortunale, quasi redivive testimoni di uno “stravènt cru”, come direbbero del vento rovescio nella materna lingua i muti spiriti che si addensano, evocati da amorosa arte figurativa, attorno alle loro ultime vestigia, forse a sostenerle, affinché non diventino esse pure maceria e roveto. Perché dalla sostanza cromatica delle sue incisioni, quasi dalla cenere di secolari “larin” (focolari), si ricompongono e allungano sulle vene petrose di indimenticati muri ombre ataviche, come precariamente sorrette da una fiamma vacillante.
Qualcosa di molte opere di Marcon sembra reclamare pacatamente giustizia, anche se probabilmente l’impressione è segnata dal senso di colpa che si annida nel lettore-ombra, per usare qui un sintagma più consono alla letteratura: è il senso di un tradimento, del travaglio di una cultura sofferente che per aver cercato di uscire da se stessa è incorsa, amaro contrappasso, nella pena di una svisante corrosione.
La visione poetica di Marcon, sottraendosi nella sua sensibile e fiera immediatezza alle insidie dell’oleografia e del rovinismo, tende a colmare questa lacuna di valore. E di qui la sua opera, assai lontana dal vicolo tautologico dell’arte per l’arte, assume un valore popolare e civile: i fienili spossati dal tempo e dalla solitudine, le casere che ancora reggono all’avanzata di boschi senza più galateo, le macine sconnesse dei mulini abbandonati riprendono un valore d’uso che va ben oltre quello di schiudere sorprendenti varchi sulle pareti.
E operando, come in un rito inesauribile, una sofferta ricomposizione col passato è come se Marcon ritornasse con occhi ingenuamente stupefatti alla nativa solitaria casa dei Piai.
Non certo da critico, quale non sono, ma di appassionato fruitore brado, mi sembra di poter dire che, ove non si considerino certe opere in cui l’azione è volutamente più marcata e quasi scabra, il suo tratto incisorio si caratterizzi per una delicatezza impressionistica ma che poi, in rappresentazioni di remota solitudine ‒ penso qui a certi suoi rustici e alberi ‒ si imponga, magari anche solo per grumi, una grande forza espressionistica, sì da far sentire che questi due caratteri dell’espressione, tradizionalmente opposti, abbiano trovato naturali forme di convivenza.
E mi viene qui di citare un’opera che ha particolarmente “torchiato” la mia mente, Neve a Valmorèl contenuta nella cartella Immagini della Valbelluna in cui la delicatezza impressionistica dei tratti dà campo a un paesaggio che è certo di uno slavato nebbioso e smateriante ma pure di una fradicia avvolgente potenza: vi trovo inesausta da anni e anni l’ideale epifania del detto dialettale di compiaciuto effetto fonico-ritmico “al piof / al nef / al fa / calif” (piove / la neve / fa foschia).
La produzione di Marcon si è caratterizzata da un certo punto con le raffigurazioni delle architetture medioevali e rinascimentali che, a partire dal Trentino e dall’Alto Adige, lo hanno portato, divenendo assecondato leit-motif, a percorrere come un viandante di altri evi le strade del Nord Europa: ne è risultata costituita nel tempo una specie di “sinfonia curtense”, che ha lasciato tra l’altro un ben evidente segno in terra germanica con la scelta di una sua incisione a colori della città di Landshut da parte di un ministero della Repubblica Federale Tedesca per un francobollo nazionale commemorativo.
Certo la produzione di Marcon ha trovato ispirazione anche ben al di fuori dell’alveo che gli ha dato quello che potremmo definire il linguaggio d’imprinting, percorrendo vari tragitti di sperimentazione in esecuzioni ad olio e a tempera. Nelle composizioni effettuate con queste tecniche a prendere la mano ‒ pariteticamente a quanto per la poesia è con la rima, le assonanze, le dissonanze e altri effetti verbali ‒ è soprattutto la dialettica fra i colori, in Marcon talvolta agitata, quasi un corpo a corpo, talaltra pacificata, come in esausta rilassatezza, ma comunque con “sortiti” di più o meno informale ma sempre suggestivo cromatismo.
E in quest’ultimo periodo in cui certa difficoltà manuale gli ha interdetto il gesto incisorio, questi filoni di esperienza gli sono tornati particolarmente fecondi.
Si direbbe che, come altri artisti nell’età avanzata, Marcon abbia saputo fare di necessità virtù.
Se si accetta l’assunto che l’espressione artistica è anche “arte di dire non dicendo” ‒ o, di converso, “di non dire dicendo” ‒, come in poesia il dover ricorrere a figure retoriche (in particolare a delle perifrasi ove non si trovi il termine che si senta adatto ad esprimere quanto voluto) porta ad un piano di allusività che può essere ideale per avvicinare quanto non risulta altrimenti esprimibile, così in pittura il dover rendere un soggetto in un modo che si sedimenta più vicino ad un sentire che ad un manualmente rappresentare, è assai funzionale a dare il senso arcano di una situazione interiore nella sua sfuggente complessità, a restituirne, per così dire, il profumo.
Così sembra essere, in particolare, per la rivisitazione del Nostro delle amatissime montagne. Laddove la contemplazione delle diapositive amorevolmente scattate e archiviate nel corso delle sue appassionate peregrinazioni, lo porta inevitabilmente a commisurare la situazione della primigenia rappresentazione “en plein air” con quella del ritorno ad essa attraverso un nostalgico movimento mentale; e questo sentire sembra “colare” nelle tele sopra quel senso di vago di cui si diceva di un “fare di necessità virtù”. Come potenziare l’effetto di straniamento indissolubile dalla vera arte: su quello della rapente suggestione della prima esperienza rappresentativa si instaura lo straniamento di natura tecnica, che non sta a noi dire quanto acuito da cogenza o volontà, e a questo si sovrappone quello della sua rivitalizzazione attraverso un ritorno, che, altrimenti negato, assume i caratteri di uno struggente sortilegio.
La fucina artistica di Luigi Marcon ritorna così in piena accensione.
© Luciano Cecchinel