Durante i mesi del lockdown, oltre a svariate riflessioni di ambito economico e sanitario, uno dei pensieri che mi ha assillata è stata l’idea di perdere Mantova. La sineddoche (o forse la metonimia) sta per il FestLet, che da sette anni è per me il regno dell’inaspettato, il banco di prova delle mie perseveranze e la conferma della bellezza nel mondo. Perderlo, nell’economia dell’anno che per me inizia a settembre e non a gennaio come i bizantini, sarebbe stato come saltare un gradino con l’inciampo.
E invece sono riusciti nel miracolo, nonostante virus globali e il bruttissimo lutto dell’indimenticabile Luca Nicolini. “Coincidenze e miracoli”, mi dice in treno Fabio Stassi riguardo a tutt’altro, e io rido in attesa che il treno sfiori il Mincio perché è davvero miracolo, e lo dimostra fin dall’inizio con la coincidenza di un amico incontrato per caso in stazione per una comune tratta di treno. Non ho presenziato ai suoi eventi, sulla mia amata letteratura per ragazzi, e me ne dispiaccio. Saranno stati bellissimi, e ne avrò conferma non appena l’Archivio, magnifica istituzione del FestLet, me ne darà l’occasione.
Il mio è un capolino di pochi giorni. Mi siedo ad ascoltare Luca Daino e il suo profondo studio di Raboni, troppo, autore troppo vasto, per lui, per essere definito “lombardo” se non addirittura “epigono della linea lombarda”, e piuttosto “autore europeo”. Daino si concentra sulle critiche di Raboni e più specificatamente sulle stroncature che comparivano nei giornali e nelle riviste per le quali collaborava, critiche verso le “opere false”, che assecondano i gusti del pubblico «mostrando i lustrini dell’arte alta» per illudere il pubblico di avere gusto; opere che sono spinte non dalla forza del loro valore ma da quella dell’ufficio stampa e di parte della critica letteraria. Vittime illustri di queste stroncature sono state Tamaro, Eco, perfino Borges, «effetto ottico di grandezza».
Nella stessa tenda a Piazza Sordello, un po’ diversa per adattarsi al momento storico (tutto a Mantova è sempre stato adattamento e ricerca di soluzioni ed elasticità).
Nello stesso luogo, quella sera, Michela Murgia e Chiara Valerio proseguono il gioco che tanto ci ha tenuti divertiti durante il lockdown, la tenzone verbale di “Buon vicinato”, l’arte di tirare a sorte l’accordo o la contrarietà su un argomento e svilupparli fino all’estremo dell’oratoria. Il tema del loro incontro al FestLet riguarda appunto l’opportunità dei Festival. Tra le molte cose che si dicono, paradossalmente tutte condivisibili, un concetto di Murgia mi colpisce molto: come il lettore accampi diritti sul corpo dell’autore per il solo fatto, del tutto estraneo a ogni patto di confidenza interpersonale, di aver letto un suo libro. Come pretenda di conoscerlo in virtù di uno scritto che il più delle volte è diventato estraneo all’autore stesso. E io, che sono una grande estimatrice del pudore, mi chiedo se mi sono mai presa confidenze che scavalcassero il mutuo accordo tra due umani (e chi ha letto le mie cronache mantovane del passato sa che in questo momento c’è almeno un Cunningham al mondo che sta annuendo vigorosamente).
Chiara Valerio presenta anche, in una Piazza Castello ruotata di novanta gradi che disorienta e stupisce, Sandro Veronesi, e lo fa con domande sempre vispe e puntuali. La più interessante riguarda forse quanto l’architettura sia importante nel suo modo di scrivere. Dal canto suo, Veronesi risponde di non sapere come si possa scrivere avendo studiato Lettere: la scrittura è spazio, si misura lo spazio nell’assembrarsi delle storie, ed è questo che insegna l’architettura, che non lascia niente al caso. Lo spazio, dice, non ha casualità, in architettura come in letteratura, fin dai tempi di Omero e delle descrizioni dell’Olimpo. «Ci sarebbe tutto quello che ho imparato ad architettura anche se facessi il ristoratore: il rapporto spaziale con il sugo, l’impiattamento che è vera cosmesi». Per non parlare della poesia, che sa dove dev’essere spezzata e non altrove, e nel risicato spazio, nella giusta forma, «si può dire quello che Victor Hugo ha detto in molte pagine». Ulteriore appassionante punto di vista è sull’e-reader, che non permette di donare singoli libri ad amici o biblioteche, istituzioni o privati: libro superno, sta lì come un contenitore di cose inscindibili.
Di sera invece, nella luce soffusa del Chiostro del Museo Diocesano, si sente la voce di Fortini leggere alcune delle sue più famose poesie. Donatello Santarone e Massimo Raffaeli presentano il nuovo libro di scritti su Franco Fortini a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, I chiusi inchiostri. La voce di Fortini scandisce sempre il dettato della poesia così com’è scritta, così com’è, dice Raffaeli, «lavorata nella forma e nella sintassi come forse non ha fatto nessun altro poeta del secondo ‘900». Si ripercorre il celebre scritto di Mengaldo del 1974 come introduzione alle Poesie scelte, si ragiona sul titolo Poeti italiani e non Poesia italiana del ‘900, che crea una costellazione con alcune stelle fisse che ha espanso il secolo oltre Ungaretti e Montale, apportando al dialogo critico Saba, Sereni, Fortini. Mengaldo ricorda la conferenza cui aveva invitato il poeta per parlare di politica, che si era risolta in dei fogli spiegati e una lettura di alcune traduzioni; chiarisce il suo stile superbamente classico, che genera però tensione e non identità tra forma e contenuto; spiega come, tornando indietro nella scrittura dei suoi saggi, non insisterebbe più così tanto sul legame tra Fortini e Brecht, proprio perché quest’ultimo non usava per dire un linguaggio classico ma si appoggiava alla poesia popolare. Per Donatello Santarone, il libro di Mengaldo su Fortini ha la stessa tensione tra forma e contenuto che il critico ha attribuito al poeta. I saggi affrontano una dimensione storica, ideologia, sociologica. Si guarda alla specificità della critica di Fortini, per Mengaldo superiore alla sua poesia, e che ama una poesia che è tale, non fintamente ingenua, insegnando che la poesia non è effusione del cuore ma anche esercizio di ermeneutica.
«Sereni è il mio poeta», conclude Mengaldo. «Nessuno dei miei recensori si è mai accorto che Fortini non è il mio poeta. Con lui è un rapporto intellettuale, non empatico. Si può lavorare su un poeta anche così.»
Penso a tutte le cose che non ho fatto per amore, e penso al FestLet che puntualmente inaugura il mio anno bizantino rivelandomi dopo la stagnazione estiva che posso essere svelta, efficiente a digiuno e a volte perfino ubiqua. Penso a come questi cinque giorni riescano a rubare tutta la parte mentale e sentimentale di quello che banalmente viene chiamato “cuore”. Ringrazio chiunque ha reso possibile che questa coincidenza, che questo miracolo, si verificassero anche in quest’anno difficile. Grazie.
© Giovanna Amato