Arte e poesia a L’Avana. José Lezama Lima e il gruppo di «Orígenes» (1944-1952)
di Lorenzo Pompeo
Con lo scoppio della Guerra civile in Spagna, nel 1936, giunse a Cuba Juan Ramon Jimenez. Nota Vargas Llosa a proposito di quell’incontro seminale: «L’arrivo di Juan Ramon Jimenez nell’isola costituì un grande stimolo per la generazione di Lezama Lima, che lo frequentò e finì per assimilare molto del suo discorso estetizzante a favore di un’arte pura, minoritaria ed esclusiva». In quell’occasione, infatti, furono gettati i semi di quel gruppo che sarebbe sorto attorno alla figura di José Lezama Lima, allora ventiseienne, e che nel 1944 avrebbe dato vita all’avventura di «Orígenes», una delle più importanti riviste letterarie del mondo ispanofono.
Sempre Vargas Llosa ha tracciato un memorabile ritratto del poeta cubano: «Lezama Lima è nato alla fine del 1910, nell’accampamento militare di Columbia, La Habana, dove il padre era colonnello di artiglieria; la madre apparteneva a una famiglia di immigrati rivoluzionari e aveva studiato negli Stati Uniti. L’infanzia di Lezama Lima trascorse in un mondo castrense fatto di uniformi, alamari e riti, e di tutto questo sembra aver conservato un ricordo assai vivo e grato, e un singolare amore per la disciplina, le gerarchie, gli stemmi, i simboli. Il colonnello morì quando Lezama Lima aveva nove anni e ciò colpì tanto il bambino che, secondo Armando Alvarez Bravo, i suoi attacchi d’asma si aggravarono al punto di costringerlo a letto per lunghi periodi. Fu, da allora, un essere malaticcio e solitario, che giocò poco da bambino e, invece, prese a leggere voracemente. A partire dal 1929 visse soltanto con la madre, che esercitò un’influenza decisiva nella sua crescita intellettuale e nella sua vocazione, e nei cui confronti lui praticò quasi un culto di segno religioso. Lezama aveva studiato Giurisprudenza e quand’era all’università, nel 1930, ebbe luogo il suo unico gesto di militanza politica, contro la dittatura di Machado. A parte questo episodio, la sua vita è stata tutta dedicata, da una parte, alle forzate attività per il sostentamento – come avvocato, come impiegato –, e dall’altra, a una tenace, incrollabile vocazione di lettore universale e, naturalmente, all’esercizio della poesia.»[1]
Qualche anno prima, nel 1933, la presidenza del dittatore Gerardo Machado era finita con la precipitosa fuga del dittatore: «La dittatura del generale Gerardo Machado era cominciata nel 1925 come una normale presidenza, con un successo elettorale paradossalmente meno truccato di quelli dei predecessori e con un programma decentissimo: no alla rielezione presidenziale, fine dell’«emendamento Platt», autonomia universitaria, riforma giudiziaria e scolastica. Pochi mesi dopo l’assunzione del potere, cominciarono però gli assassinii politici, che colpirono avversari politici anche moderati e soprattutto sindacalisti.»[2]
Quando, nella notte tra il 12 e il 13 agosto, Machado era fuggito a bordo di un aereo carico d’oro, a l’Havana si scatenarono le vendette e i saccheggi in modo incontrollato (secondo le stime in quella notte mille persone vennero assassinate e trecento case saccheggiate). Per riprendere il controllo della situazione, il 4 settembre i militari presero il potere (la cosiddetta “Rivoluzione dei sergenti”). Tra essi, si mise in luce il sergente Fulgencio Batista, il quale si autoproclamò Capo di stato maggiore. Il 10 settembre venne eletto presidente Ramon Grau, un medico, allora poco conosciuto, oppositore di Machado, da questi incarcerato e mandato in esilio. Il suo governo assunse misure nazionalistiche, decisamente in autonomia rispetto ai grandi potentati del continente. Gli statunitensi, allarmati e sollecitati dalle classi tradizionalmente al potere, cercarono di porre rimedio appoggiando il golpe militare di Fulgencio Batista, che prese il potere il 15 gennaio del 1934 e lo detenne, direttamente o attraverso presidenti sotto il suo controllo, fino al 1944, anno in cui decise di rischiare un confronto elettorale relativamente libero, vinto poi da Ramon Grau. Queste elezioni aprirono una breve parentesi democratica (nella quale però la corruzione continuava a essere pratica diffusa) chiusa nel 1952 da un nuovo colpo di stato che riportò nuovamente al potere Fulgencio Batista.
Non è un caso che proprio nel 1944 era cominciata l’avventura di «Orígenes», la rivista fondata da José Lezama Lima insieme a José Rodriguez Feo e che uscì fino al 1952, per un totale di 42 numeri. «A Orígenes non interessa formulare un programma, ma solo lanciare le frecce della propria stella… la libertà consiste per noi nel rispetto assoluto che merita il lavoro della creazione, per esprimersi nella forma più appropriata al proprio temperamento, ai suoi desideri, o alla sua frustrazione, partendo però dal proprio “io” più oscuro, dalla sua azione o reazione di fronte alle sollecitazioni del mondo esteriore, sempre che si manifesti all’interno della tradizione umanistica e nei termini della libertà che deriva da questa tradizione, a cui gli americani aspirano e che è stata per loro motivo di orgoglio»,[3] si legge nell’editoriale del primo numero della rivista.
Vi collaborarono anche poeti e scrittori spagnoli, come Juan Ramon Jimenez, Vicente Aleixandre e Luis Cernuda. Sulle sue pagine comparvero anche traduzioni di autori stranieri, come Albert Camus, T.S. Eliot. Quasi tutti i poeti cubani pubblicarono sulla rivista.
Altrettanto importante per le varie implicazioni fu il soggiorno a Cuba di Maria Zambrano tra il 1940 e il 1945 (definirà l’isola “una sorta di patria prenatale” e vi farà ritorno nel 1949 soggiornandovi fino al 1953, anno in cui si trasferì a Roma.). Aveva già avuto modo di conoscere José Lezama Lima nel 1936, e aveva cominciato a intrattenne con lui anche una corrispondenza. Successivamente era entrata in contatto anche con il gruppo dei poeti che si stava raccogliendo intorno alla rivista, sulla quale Maria Zambrano avrebbe pubblicato con una certa regolarità.
Lezama Lima era nato il 19 dicembre del 1910 nel Trocadero, una modesta strada della cosiddetta “Vecchia Havana”. Eccezion fatta per due brevi viaggi, uno in Messico nel 1949 e un altro in Jamaica nel 1950, non lasciò mai Cuba. L’attaccamento alla città dove era nato, aveva vissuto ed era morto divenne un elemento importante della sua scrittura, non solo sotto forma di tema dei suoi saggi, come ad esempio il suo Tratados en La Habana del 1958, ma anche come simbolo nei suoi romanzi e nella sua creazione poetica. Il legame di Lezama Lima con la sua città è diventato un nesso tra il profondo amore che provava per la madre e le sue idee relative alla poesia. Nella sua poetica, infatti, la città e la madre diventano i simboli delle iterazioni tra il poeta e la sua musa. In altre parole, il rapporto tra l’uomo e la sua città, e tra il figlio e la madre vennero usati da Lezama Lima come un modello di iterazione tra il poeta e la poesia (poesia come espressione dello spirito). La presenza di queste entità femminili, sotto forma di città, di madre, i della poesia danno vita alle immagini di un utero-paradiso che dà la vita al poeta/figlio. Inoltre, essendo uno scrittore cattolico, la poesia per il poeta cubano è un avatar dello Spirito Santo.
Il forte impatto del sistema letterario di Lezama Lima sulle lettere cubane – in alcuni casi seguito e in altri rifiutato – lasciò una forte impronta nella sua generazione di scrittori cubani, cosa che può essere solo in parte spiegata con il ruolo seminale che la sua figura ha avuto durante il periodo della cosiddetta “epoca repubblicana” (fu un infaticabile promotore culturale nel momento in cui l’isola soffriva gli effetti di una generale apatia e di un malessere generato dalla corruzione della politica e dall’instabilità economica). Per questa generazione di poeti cubani, tra cui possiamo annoverare Eliseo Diego (1920-1994), Cintio Vitier (1921-2009) e sua moglie, Fina García Marruz (1923), Lezama Lima fu il maestro, la figura carismatica a cui anche la loro creazione letteraria è debitrice.
Il suo debutto poetico avvenne nel 1937 con la raccolta Muerte de Narciso e i critici sono concordi nell’individuare in questa raccolta gli elementi di quel sistema poetico che l’autore avrebbe sviluppato nel corso di tutta la sua vita. Uno di questi elementi è rappresentata dall’immagine della morte e resurrezione di Narciso. Come scrive il critico Guillermo Sucre: «l’immagine, in Lezama Lima, non è un “doppio” né un sostituto della realtà. L’immagine è la realtà del mondo invisibile».
Nel 1941 Lezama Lima pubblicò quello che per molti è il migliore dei suoi libri di poesia: Enemigo rumor. I lettori di questa raccolta furono pochi, ma tra loro vi erano i poeti che fecero parte della generazione di «Orígenes», tra cui Cintio Vitier, il quale scrisse, a proposito: «Mi sento incapace di spiegarle cosa questo libro significò in quegli anni. Leggerlo fu qualcosa di più di leggere un libro. La sua originalità era talmente grande e gli elementi che integrava (Garcilaso, Quevedo, Lautréamont, il surrealismo, Valéry, Rilke) erano così violentemente eterogenei, che se non fosse degenerato in un caos, avrebbe dovuto generare un mondo».
In questo libro il linguaggio poetico rimanda all’origine, non come regressione nel passato, bensì come accesso al tempo sacro, senza storia e senza computo. Così il regno della poesia s’introduce nel regno “assoluto della libertà”, nel distacco da ogni condizionamento logico, estetico, intellettuale, e l’immagine – “termine dell’eros metaforico” che a volte risulta equivalente a “cosmovisione” – è una scintilla dell’intelligenza divina. Percepire questa scintilla significa accedere alla conoscenza del divino e alla comunione con il tutto universale. La poesia è la perfetta mediatrice tra l’umano e il divino e il suo “rumore” onnipresente – intelligibile ma non pienamente raggiungibile – è manifestazione dell’Assoluto. Attirato da questo “nemico rumore”, il poeta risponde all’appello, al suo fascino sacro. La poesia Un oscuro prato mi invita tratta da questa raccolta, ne è un chiaro esempio:
Un oscuro prato mi invita,
le sue tovaglie stabili e aderenti,
girano in me, nel mio balcone si addormentano.
Dominano la sua estensione, la sua indefinita
cupola di alabastro si ricrea.
Sopra le acque dello specchio,
breve la voce in mezzo a cento strade,
la mia memoria prepara la sua sorpresa:
daino nel cielo, rugiada, fiammata.
Senza sentire che mi chiamano
penetro nel prato lento,
allegro in nuovo labirinto fuso.
Lì si vedono, illustri resti,
cento teste, trombe, mille funzioni
aprono il suo cielo, il suo girasole tacendo.
Strana la sorpresa in questo cielo,
dove senza volerlo tornano passi
e suonano le voci nel centro colmato.
Un oscuro prato sta passando.
Fra i due, vento o carta sottile,
il vento, ferito vento di questa morte
magica, una e accomiata.
Un uccello e altro già non tremano.[4]
Sul fondo di un cielo che si presume al primo mattino (lo possiamo dedurre dalle tovaglie addormentate) compare una cupola di alabastro, in contrasto con il prato scuro del primo verso. Questa sovrapposizione di oscurità sulla chiarezza è una delle caratteristiche più importanti della poesia di Lezama Lima: le immagini irradiano una luce abbagliante. Una luce che acceca per rendere visibile l’ermetico. La poesia lezamiana è un invito a percepire l’oscurità dietro il lampo, l’enigma dietro la cupola di alabastro. Verso la fine della lirica il prato oscuro è ciò che si interpone tra l’io lirico e il mondo del sacro, un velo che è possibile attraversare solo con una morte, che il poeta definisce “magica”, a cui fa seguito una rigenerazione segnata dall’incontro con il divino (l’uccello dell’ultimo verso).
Maria Zambrano dedicò alla poesia di Lezama Lima, e agli altri poeti legati alla rivista, alcune pagine illuminanti del saggio Cuba segreta, nato come recensione all’antologia Diez poetas cubanos. I937-1947; antología y notas de Cintio Vitier (La Habana, Ediciones “Orígenes”), pubblicato su «Orígenes» nel 1948: «Ma la sola poesia non perviene al divino che la filosofia consegue in alcuni istanti supremi, quando è sul punto di rinnegare se stessa spogliandosi del suo essere che è la ragione. La poesia rimane nel sacro e, perciò, richiede, esige, uno stato di sacrificio permanente. Il sacrificio è la forma primaria di captazione della realtà. Ma, trattandosi della poesia, la captazione della realtà è un addentrarsi, una penetrazione, in ciò che è ancora informe. […] La parola poetica è azione che libera le forme chiuse nel sonno della materia e il soffio addormentato nel cuore dell’uomo».[5] Nicola Licciardello lo definisce: «Vate di un Rinascimento isolano che vuol rinnovare lo “splendore ispanico” della lingua con il natural maravilloso “Neobarocco americano”»;[6] ma come giustamente nota Martha Canfield: «Poiché misticismo, esoterismo e religione confluiscono nel sistema poetico di Lezama, il suo linguaggio ermetico e oracolare risulta difficilmente comprensibile […]. La sua rimane un’opera aperta e il mistero dei suoi versi un invito seducente e inquietante».[7]
Anche i più importanti pittori cubani di quegli anni, come Wilfredo Lam, René Portocarrero, Amelia Peláez, collaborarono con la rivista prestando volentieri le loro illustrazioni.
Alla fine degli anni Trenta si era consolidata quelli che alcuni denominano “Escuela de La Habana”. Questo movimento ha definito linee di sviluppo originali nelle sue relazioni con l’arte europea e americana, aveva creato poetiche definitive, prodotto i suoi primi classici e conosciuto un primo splendore.Una figura di primo piano nell’arte cubana di questo periodo, punto di riferimento per il gruppo di «Orígenes», fu Victor Manuel Garcia (1897-1969), nato a La Havana, dove visse quasi tutta la sua vita, nel 1910 (a dodici anni) si iscrisse all’Accademia di San Alejandro (l’Accademia fondata a L’Havana nel 1818, fin dalla sua fondazione istituzione gratuita e accessibile anche alle classi meno abbienti che fu «centro catalizzatore essenziale del processo pittorico cubano del XIX secolo»),[8] dove all’età di quattordici anni era diventato professore ausiliare di disegno elementare. Realizzò la sua prima esposizione personale nella capitale cubana nel 1924 e l’anno successivo partì per l’Europa. Si stabilì a Parigi, dove fece parte degli artisti che si riunivano a Montparnasse. Ne approfittò per studiare sia i pittori classici che gli impressionisti e i post-impressionisti. Tornò a Cuba nel 1927, dove organizzò subito una mostra presso l’Associacion de Pintores y Escultores nella quale era percepibile un cambiamento del suo stile e del suo segno ed entrò subito a far parte del gruppo di artisti che confluirono nell’Exposicion de Arte nuevo promossa nel 1927 dalla «Revista de Avance», un periodico che sarebbe diventato un protagonista nell’apertura verso nuovi linguaggi nell’arte cubana. Attraverso questa rivista infatti maturò la ricerca delle trasformazioni formali e concettuali della pittura così come un’opposizione all’arte accademica in nome di un’arte nuova.
Alla fine degli anni Venti, proprio nel 1929, Victor Manuel intraprese un nuovo viaggio a Parigi, dove dipinse la sua opera più conosciuta, la Gitana Tropical, un ritratto femminile a olio con colori vivi e luminosi che sarebbe divenuto iconico. José Lezama Lima dedicò a questo ritratto e al suo autore il saggio Otra pagina para Victor Manuel.
Dopo il suo soggiorno a Parigi, il pittore cubano si trasferì in Belgio e in Spagna, dove proseguì nei suoi studi sui pittori delle epoche passata e di quelle recenti; indubbiamente Gauguin e Picasso costituirono due fonti apprezzate dal cubano. Al suo ritorno a Cuba, intorno al 1935, espose nel Lyceum e ottenne numerosi riconoscimenti. Nel 1937 José Lezama Lima dedicò al pittore il suo saggio Victor Manuel y la prision se los arquetipos, nel quale definì la maniera del pittore di relazionarsi con il suo tempo per trovare un archetipo come «un equilibrio prima non raggiunto, che favorisce la cattura del volto di ciò che è isolano». Al pittore il grande poligrafo cubano dedicò anche la poesia Nuevo incuetro che apparve nel libro postumo Fragmentos.
Victor Manuel era una persona che tutti vedevano percorrere le anguste vie de La Habana antica verso la sua casa-studio, al secondo piano dell’antico Palazzo dei Marchesi di Aguas Claras. Da lì i costanti riferimenti all’immagine adusta di quell’uomo che percorreva continuamente le strade habanere, la cui costante inquietudine trovò spazio nella poesia e nella prosa di scrittori cubani come Fina García Marruz, Nicolas Guillen, Cintio Vitier e Lezama Lima. Victor Manuel si fermava nella piazza della cattedrale a conversare tanto con i suoi coetanei che con i più giovani, fosse in un caffè (uno dei più frequentati era La lluvia de oro, nella Calle Obispo), in una osteria o in una bottega di oggetti d’arte.
Nel 1941 tornò a L’Avana il pittore Wilfredo Lam dopo diciotto anni di assenza. Era nato nel 1902, da padre cinese e madre mulatta. Fin da bambino aveva conosciuto nel proprio ambito familiare la pratica spiritista, i riti della santeria, le leggende contadine e le divinità cinesi. A L’Avana giunse con l’intenzione di iscriversi a giurisprudenza, ma nel 1920 si iscrisse all’accademia di San Alejandro, dove all’epoca insegnava Victor Manuel. La sua prima personale, nella sua città natale Sagüa la Grande, risale al 1923. Subito dopo partì per la Spagna dove rimase fino al 1938, vivendo in prima persona gli orrori della Guerra civile. Nel maggio di quell’anno giunse a Parigi anche per conoscere Pablo Picasso, che divenne suo amico (lo aiuto e lo incoraggiò, apprezzando i suoi quadri). Nel 1939 espose a Parigi, ma l’anno successivo, a seguito dell’invasione nazista, decise di tornare a Cuba, dove, tra la fine del 1942 l’inizio del 1943 dipinse La jungla, un quadro che lo rese famoso in tutto il mondo, definito da Alain Jouffroy come «il primo manifesto plastico del Terzo Mondo». L’autore, a proposito di questo quadro, scrisse: «In La jungla i miti africani sono in funzione attiva dentro il paesaggio cubano dei canneti. Tutto il destino di Cuba, fino ad oggi, ha girato intorno alla coltivazione della canna e ai suoi risultati economici. Con tale convinzione dipinsi La jungla, come un combattimento contro il gusto e i concetti che aveva la borghesia cubana sull’arte».[9]
Tra i membri della redazione di «Orígenes» non vi erano solo poeti, ma anche alcuni pittori e scultori attivi nell’isola (il sottotitolo del periodico era «Revista de arte y literatura», vi comparvero infatti anche saggi di critica teatrale a arti plastiche, oltre che incisioni e grafica di artisti cubani), come il pittore Mariano Rodriguez (1912-1990) e lo scultore Alfredo Lozano (1913-1997). I due si erano ritrovati in Messico nel 1936, dove erano entrati in contatto con Diego Rivera e con gli altri pittori “muralisti” messicani. Mariano Rodriguez fece ritorno a Cuba nel 1937 e l’anno successivo partecipò al II Salon de Pintura y Escultura, dove ottenne il terzo posto con l’opera Unidad, quadro a olio che denunciava forti influenze dell’arte messicana. Nel 1941 disegnò la copertina della raccolta di poesia di José Lezama Lima Enemigo rumor. Nel 1943 realizzò una personale al Lyceum de La Habana, nella quale dimostrava di essersi allontanato definitivamente dal muralismo messicano verso un colorismo più personale con cui affrontare temi locali («Dopo il suo ritorno dal Messico, Mariano andò assimilando la disciplina compositiva, che poco a poco gli permise di definire al sua personalità artistica mediante un’articolazione tra il rigore strutturale, la forza dei suoi personaggi e i segni visuali dei suoi interessi ad indagare le peculiarità autoctone», scrive Olga Maria Rodriguez Bolufé).[10] L’anno successivo partecipa alla collettiva Modern cuban painters a New York e da allora viaggerà frequentemente negli Stati Uniti. Nel 1949 illustrò la copertina del libro di Eliseo Diego La calzada de Jesús del Monte. Anche René Portocarrero, amico di José Lezama Lima, nel 1944 espose a New York e da allora sarebbe diventato uno dei più noti pittori cubani a livello internazionale. Era nato nel 1912 a L’Havana. Fu un autodidatta, anche se frequentò le lezioni dell’Accademia di San Alejandro e nel 1934 espose per la prima volta al Lyceum de la Havana. Su di lui ha scritto Olga Maria Rodriguez Bolufé: «i motivi su cui questo artista cubano concentrò la sua attenzione si mantennero sempre costanti: paesaggi, interni, l’architettura coloniale e i suoi dettagli, le feste popolari, i diavoletti o iremes, le donne, i fiori, sempre con il respiro de La Habana nelle sue tele».[11] Nei suoi scritti sul suo amico pittore, Lezama lima evidenzia in Portocarrero la capacità di assimilare diversi linguaggi plastici e di generarne uno personale, che lo scrittore definisce come “indifferenziato”.[12] Ammirava il barocchismo del pittore, e comprendeva che esso era parte nella costruzione di una poetica che andava oltre il fatto meramente stilistico, per la capacità di cogliere essenze fondamentali per la cultura cubana.
Infine, altra figura legata al gruppo di «Orígenes» fu la pittrice Amelia Peláez (1897-1968), che divenne una delle pittrici cubane più note a livello mondiale. Era entrata nell’Accademia di San Alejandro nel 1916, dove rimase fino al 1927 (al 1924 risale la sua prima esposizione presso la Associacion de Pintores y Escultores de La Habana). In quell’anno viaggiò a Parigi, dove prese lezioni dalla pittrice russa Alexandra Exter.
Di ritorno a Cuba, nel 1934 espose al Lyceum de La Habana alcune opere che univano innovazione formale e riferimenti visuali che le venivano dalla sua cultura di origine, come frutta, pesci, giardini, inferriate coloniali. Scrive a proposito O. M. Bolufé: «La pittrice in parte riscopriva e in parte conquistava esperienze visuali; ma la sua disciplina compositiva, l’ordine che prevale nella sua opera plastica, riuscivano ad equilibrare la forte espressione del colore e il ritmo delle sue linee dentro un barocchismo contenuto, leggero e ondulante che dà alla sua opera un tocco molto personale».[13]
Attorno alla figura di Lezama Lima in quegli anni si stava raccogliendo una vera e propria scuola che lo riconobbe come suo maestro; scrive a proposito Martha L. Canfield: «Il sistema poetico di Lezama si costruisce a partire dalla sua fede nel potere salvifico della poesia, fede ricevuta dalla tradizione simbolista e accentuata dalle speculazioni sulla poesia pura. Tale concezione sarà al centro dei poeti del gruppo di “Orígenes”».[14] Tra i poeti che appartennero a questa scuola, una delle figure più importanti è quella di Eliseo Diego, nato nel 1920 ad Arroyo Naranjo, un paesino nei pressi de l’Havana, in una grande villa costruita dal padre (spagnolo originario dell’Asturia), dove il futuro poeta vivrà fino all’età di nove anni. Al 1926 risalgono i primi viaggi in Europa (Francia e Svizzera) con la famiglia che, stando a quanto dichiarò l’autore nelle sue memorie, saranno fondamentali per la sua formazione. Nel 1929, a seguito della Grande depressione, il padre è costretto a cessare la propria attività e ad affittare la villa di Arroyo Naranjo. La famiglia si trasferì al Vedado (oggi un quartiere de l’Avana). Si iscrive al locale liceo La Luz dove conosce Cintio Vitier, poeta e sodale di una vita, con il quale, nel 1936, fonda la rivista studentesca «La luz». Nel 1940 si iscrive all’università, alla facoltà di Giurisprudenza, ma non porterà mai a termine gli studi di diritto. L’anno successivo conosce Bella García Marruz, che sarà sua moglie e compagna per tutta la vita, sorella di Fina, poetessa che divenne la moglie del suo amico Cintio Vitier. Nel 1942 Eliseo Diego pubblica la sua prima raccolta di racconti e due anni più tardi, nel 1944 (l’anno in cui morì suo padre), è tra i fondatori della rivista «Orígenes».
Nel 1949 pubblicò En la calzada de Jesús del Monte, la sua prima raccolta di poesia, all’età di ventinove anni (in precedenza aveva pubblicato due raccolte di racconti, En las oscuras manos del olvido, nel 1942, a cui aveva fatto seguito, nel 1946, Divertimentos). Il debutto poetico di Eliseo Diego avvenne quindi sotto l’ala protettiva di José Lezama Lima. Tratta da questa raccolta, Vale la pena citare è la poesia Nominerò le cose, sorta di dichiarazione di poetica:
Nominerò le cose
ultimi piani che il vento corteggia,
gli anditi profondi, i paraventi
che si chiudono all’ombra e il silenzio.
Dirò gl’interni sacri, la penombra
che solcano gli uffizî polverosi
e il legname dell’uomo, il notturno
legname del mio corpo quando dormo.
La povertà della casa, la polvere
dove testarono le orme paterne,
luoghi di pietra limpida e sicura,
spogliati d’ogni ombra, sempre uguali.
Non dimentico la pietà del fuoco
nel rigore della casa distante
né il lieto sacramento della pioggia
nell’umile corolla del mio parco.
Né il tuo stupendo muro, mezzodì
terso, indaco e interminabile.
Nominerò le cose, così lento
che quando avrò perduto il paradiso
della mia via, che l’oblio muta in sogno,
possa chiamarle di colpo con l’alba.[15]
Il suo traduttore italiano, Francesco Tentori Montalto, insieme alla critica cubana, individua poetica di Eliseo Diego nella “profonda enormità” della realtà rammemorata, nell’”oscuro mistero familiare” tratto dalla luce e nella “frontiera di caos” che le cose sprigionano. «Poeta della memoria, Diego traccia un paesaggio che è insieme il paese reale e un limbo del ricordo […]. Sogno e memoria, non agevoli a distinguersi, sono il nutrimento della sua poesia, per la quale Cintio Vitier parla di “preziosismo della nostalgia”»,[16] scrive Francesco Tentori Montalto.
Amico fraterno di Eliseo Diego, Cintio Vitier, nel prologo al suo Ese sol del mundo moral: para una historia de la eticidad cubana egli stesso si è definito «Aspirante a vita a diventare poeta e cristiano». Intellettuale cattolico, ha dedicato la sua vita alla poesia, come testimoniano i titoli, i premi e le gratificazioni, tra cui “Il premio nazionale di poesia cubana” del 1989. Nella sua lunga attività Vitier ha pubblicato poesia, saggistica e prosa e scritto alcuni testi cardine sulla letteratura cubana, inclusa la sua antologia del 1948 sul gruppo di «Orígenes», Diez poetas cubanos: 1937-1947 e il suo celebre studio Lo cubano en la poesia, del 1958.
Figlio del saggista, educatore e critico letterario Medardo Vitier, Cintio nacque a Key West (Florida) nel 1921. La famiglia tornò presto a Cuba, nella provincia di Matanzas, dove Vitier crebbe e frequentò una scuola fondata dal padre. Dall’infanzia mostrò interesse verso la letteratura e fu un lettore vorace. Lo stesso Vitier riconobbe l’importanza nella sua formazione della biblioteca del padre, che poteva vantare un’ampia collezione di scrittori cubani e ispano-americani, di classici spagnoli e alcuni libri inglesi.
Quando Vitier aveva quindici anni, suo padre fu nominato segretario dell’educazione nell’amministrazione del presidente Carlos Mendieta e così la famiglia si trasferì all’Avana, dove rimase per tutta la vita. Qui frequentò la scuola La luz, dove conobbe Eliseo Diego. A questi anni risalgono le prime poesie, confluite nel libro del 1938 Poemas e nel più noto Luz, ya sueño, sempre del 1938. In questi anni il poeta cubano conobbe Juan Ramon Jimenez nel corso del suo soggiorno cubano (l’influenza del poeta spagnolo, che scrisse anche una premessa a Luz, ya sueño fu sempre riconosciuta da parte dell’omologo cubano). In Luz, ya sueño sono visibili, secondo la critica cubana, quei segni di uno stile personale peculiare, definito “la metafisica del concreto”.
Nella capitale dell’isola Cintio si era iscritto alla facoltà di giurisprudenza e nel 1947 terminò il dottorato in legge, anche se non esercitò mai alcuna professione legata a questa laurea. In questi anni conobbe e sposò la poetessa Fina García Marruz, anche lei collaboratrice di «Orígenes» (nonché sorella della moglie di Eliseo Diego) e cominciò a insegnare il francese (lingua dalla quale tradusse prosa e poesia) nella Escula para maestros a L’Havana (cosa che continuò a fare fino al 1961). Come gli altri membri del gruppo, anche Cintio in qualità di poeta era più interessato all’espressione lirica che alle istanze sociali. Il loro distacco dal contesto sociale è collegato con la ricerca dell’identità cubana, relazionata però a una ricerca metafisica e universale.
La multiforme poesia di Vitier è connessa con una varietà di argomenti che vanno dal tempo nella sua dimensione esistenziale alla natura della poesia, dagli eventi quotidiani nella loro manifestazione poetica all’identità cubana. Questa prima fase della sua poesia è considerata “lirica ed ermetica”. Vitier stesso l’ha definita “Coscienza della poesia”. La pubblicazione della raccolta poetica Enemigo Rumor di Lezama Lima, nel 1941, aprì nuovi cammini ai giovani seguaci del maestro, soprattutto al ventenne Cintio.
L’estetica vitieriana parte da Lezama Lima, per il quale, come afferma Julio Cortazar, «No importa los caracteres, le importa il misterio total del ser umano, le existencia de una medula universal que rige las series y las exepciones».[17] Per Lezama Lima tutto si muove intorno alla «poesia como clave del enigma»; Da lui «surgiò el anhelo de un proyecto teleologico que canalizara las fuerzas creadoras de la isla».[18]
Vitier e Lezama si ritrovano sul territorio teleologico e di un vero e proprio “intento de una teologia”, come riconosce Vitier stesso in un suo articolo del 1970.
Se le radici prossime dell’estetica vitieriana nascono da Lezama Lima, le radici lontane affondano nei maestri europei, soprattutto francesi. L’idea del poeta come decifratore risale direttamente al simbolismo francese e non a caso Vitier, nel saggio La rebeldion de la poesia esalta Baudelaire, perché «concepisce in modo consapevole ed esclusivo la funzione poetica, per la prima volta nella sua storia, come conoscenza sistematica dei misteri dell’anima». In quelle pagine Vitier è affascinato da Rimbaud dal quale si sente attratto, in modo particolare, per le evidenti contiguità teoriche e visionarie contenute nella celebre lettera a Paul Demeny, ove si avvalora più che mai la funzione del poeta “voyant”, lettera che Vitier definisce «logica mistica de la poesia».
La “palabra” è il nucleo di tutta la poetica, è quella che rivela il mondo che sta dietro o che sta sopra, è la voce della funzione anagogica. Qui la “palabra” ha una evidente funzione demiurgica, che richiama ancora una volta Lezama Lima, il suo neoplatonismo e il senso neopitagorico della scrittura; Lezama Lima vede nella “palabra” una specie di “supra verba”.
Come nota Giuliano Soria, «L’ossessione della “palabra” come essenza della poesia, della comunicazione, illumina tutta la mappa della mistica estetica vitieriana: è l’archetipo chiave di tutta la liturgia gnoseologica da cui si dipanano gli altri motivi-simbolo, gli emblemi sacramentali, che sono: “la union nupcial” (archetipo della comunione e della fruizione del Verbo), il “deseo” (che è metafora dell’ascesi), il “silencio” (che è mistica condizione dell’auscultazione), la “nada” (che è l’impossibilità della comunione, l’aridità dell’enigma irrisolto), “el arco” (emblema della tensione ascetica della poesia), la “memoria creadora” (che è la funzione strutturante del tempo e dell’esistenza). L’uomo è perduto in questo mondo di simboli ove tutto è da decifrare; la sua condizione fondamentale è la “extrañeza de estar”; egli è sommerso in “lo disconocido”, nell’occulto del mistero».[19]
Tra i libri della sua prima fase, vi è la raccolta Sedienta cita (in it: “appuntamento triste”) del 1943, influenzato dal poeta peruviano Cesar Vallejo, che viene considerata più complessa del suo precedente Luz, ya sueño.
Nella successiva silloge Extrañeza de estar, del 1944, Vitier riflette su “la stranezza dell’esistere” raggiungendo un grado maggiore di complessità. Temi che approfondirà in Capricho y homenaje del 1947 e nel successivo El hogar y el olvido del 1949 nel quale, secondo il critico Enildo Garcia, «Il poeta si prefigge di scoprire il regno dello spirito, tentando di raggiungere con un viaggio attraverso la fede “Il luogo impossibile dell’anima”». I successivi Substancia del 1951, e Conjeturas del 1951 hanno a che fare con il problema esistenziale dell’assoluto, ovvero l’impossibilità di afferrare l’assoluto in quanto tale. Chiude questa prima fase della sua creazione poetica Canto llano, una raccolta di cinquanta poesie che si rifanno ai Salmi, al Nuovo testamento e a Tommaso d’Aquino nei quali l’autore ritorna a schemi metrici chiusi. Nel 1958 pubblicò il saggio Lo cubano en la poesia, una brillante analisi della poesia cubana in relazione alla “cubanità”.
Tra le figure legate all’avventura di «Orígenes», unica presenza femminile fu quella di Fina García Marruz. Nacque nel 1923 a L’Avana in una famiglia borghese (sua madre era una pianista e suo padre un medico). Dai genitori ereditò una propensione artistica e la passione per la lettura (iniziò a scrivere versi in giovane età). La sua decisione di diventare poetessa è legata alla visita a Cuba di Juan Ramon Jimenez, che lesse e apprezzò i versi della ragazza (allora tredicenne), dandole così un importante incoraggiamento. Nel 1940, mentre studiava all’università, conobbe e poco dopo sposò il poeta Cintio Vitier. I due condivisero per tutta la vita la loro passione per la letteratura e la poesia. La figura di José Lezama Lima fu un punto di riferimento per entrambi e con lui formarono un solido “triumvirato” che fu il punto di riferimento del gruppo di «Orígenes». Fina García Marruz Aveva cominciato a pubblicare nel 1938 su alcune riviste e nel 1942 era uscita la sua prima raccolta Poemas. Tra il 1942 e il 1943 collaborò alla fondazione della rivista «Clavileño», un periodico che ebbe vita breve, ma al quale parteciparono molti futuri collaboratori di «Orígenes», che vide la luce l’anno successivo. Alcune sue poesie apparvero sull’antologia Diez poetas cubanos curata dal marito nel 1948 per i tipi di Orígenes (che fu anche casa editrice), dove l’anno precedente era apparsa la smilza raccolta Transfiguración de Jesús en el Monte. Sia nelle liriche che nei saggi apparsi in questi anni su «Orígenes», Fina García Marruz stava mettendo a fuoco i caratteri del suo stile peculiare, che i critici definirono «estetica mistica della trascendenza quotidiana» e che svilupperà poi negli anni successivi.
Fondamentale anche per la poetessa fu l’incontro e il dialogo con Maria Zambrano. La filosofia, nel suo citato articolo Cuba secreta così aveva scritto sul gruppo di poeti cubani: «In Cintio Vitier, Eliseo Diego e Fina Garcia Marruz vediamo la poesia svolgere quella funzione, in ognuno di loro in modo differente, che possiamo definire come “salvare l’anima”. Nessuno di loro sembra praticare la poesia come proprio modo di essere, ovvero, pur essendo poeti, non sembrano decisi a esserlo e a considerarsi tali. In Fina Garcia Marruz, direi “in aggiunta”. Fina Garcia Marruz è colei che testimonia in modo più chiaro quell’atteggiamento non tanto di fronte alla poesia, quanto di fronte alla vita. E come ogni cosa che si ottiene “in aggiunta”, possa in un solo istante cessare oppure svilupparsi in una vera grandezza senza difetto. Anche quella cosa più innocente che è la poesia porta in sé una inevitabile macchia, un certo peccato. Fina Garcia Marruz, raccolta, avvolta nella propria anima, compie quell’impresa che è scrivere senza rompere il silenzio, la quiete profonda dell’essere. Di conseguenza possiamo aspettarci da lei qualcosa che ha già fatto in Transfiguración de Jesus del monte, ma anche di più: una sola, unica, parola.»[20] La poetessa, più tardi, così ricorda il soggiorno nell’isola della filosofa: «Non passerà mai per noi l’ombra lieve di quelle notti indimenticabili in quell’Habana con lo sfondo azzurrissimo del mare, la cui brezza per Maria portava le ali di una Vittoria decapitata da altri venti impetuosi e che allora riuniva le nostre teste così giovani con quella della nostra amica, venuta da lontano per rimanere sempre con noi, innamorati come lei di ciò che è sul punto di nascere.» Secondo Francesco tentori Montalto il contatto tra le due grandi donne avrebbe dato vita a un profondo legame. Scrisse a tal proposito: «Fina Marruz realizza nella sua poesia il messaggio filosofico della Zambrano, la sua capacità di soffrire con amore e di riuscire a mantenere il silenzio nella parola. Questa capacità di restare nell’attesa e nella speranza, coltivando un’esistenza schiva eppure vigile le donano una voce poetica delicata e profonda che le permette di attraversare la nostalgia mantenendo integra la nitidezza del suo sguardo».
Nel 1951 Fina pubblicò Las miradas perdidas 1944-1950, libro nel quale la poetessa raccolse il meglio della sua creazione letteraria fino a quel momento. Anche se non ottenne un grande consenso da parte della critica e dei lettori, anche per via delle immagini non facilmente decifrabili, questo lavoro rappresenta il punto più alto raggiunto dall’autrice nella sua lunga attività.
Scrive Catherine Davies: «Ciò che colpisce nella sua poesia è la singolare miscela di familiare e metafisico. La sua poesia è radicata nell’esperienza femminile ordinaria, ma la routine domestica è inframezzata da momenti di profonda riflessione filosofica. Il tema ricorrente de Las miradas perdidas è la fragilità della memoria. Le poesie di questa raccolta offrono una visione rosea della casa dell’infanzia con i suoi magici interni, le sue lampade, gli specchi, i ritratti le finestre che affacciano su un paesaggio simbolico».[21] Forse uno dei testi esemplari della poetica della poetessa può essere considerato il sonetto Voglio vedere la sera che sai e che qui di seguito riporto nella traduzione di Francesco Tentori Montalto:
Voglio vedere la sera che sai,
il parco tante volte contemplato.
Voglio riudire la musica udita
nella sala notturna dove oscilla
il mio tempo più vero. Che futuro
in te brilla fedele, più splendente,
che possibilità nel tuo frondoso
giardino spento, infanzia, falso muro.
Oh futura sostanza dell’oscura
sera che fu! Istante, astro velato!
T’amo, ieri, non di nostalgia impura,
né perché ami la polvere del vivere,
ma perché solo tu, passato, puoi
condurmi nella luce sconosciuta.[22]
[1] Mario Vargas Llosa, Paradiso, di José Lezama Lima, pubblicato per la prima volta in «Amaru», n. 1, gennaio 1967 tradotto e stampato in: José Lezama Lima, Paradiso, Einaudi, Torino 2001, pp. 557-558.
[2] Breve storia di Cuba, Datanews, Roma 2004, p. 59.
[3] Tratto da: Encyclopedia of Latin American Literature, Fitzroy deaborn publishers, Chicago 1997, pp. 451-452.
[4] Da: Poeti ispanoamericani contemporanei, Feltrinelli, Milano 1970, p. 215.
[5] Maria Zambrano, Luoghi della poesia, Bompiani, Milano 2011, pp. 597-599.
[6] Da: Antologia della poesia spagnola e ispanoamericana, La biblioteca di Repubblica, Roma 2004, p. 676.
[7] Da: Infrazioni dell’avanguardia. Poesia pura ed esistenziale, in: Storia della civiltà letteraria ispano-americana, Utet, Torino 2000, T. II, p. 349.
[8] Da: Olga Maria Rodriguez Bolufé, Altri sguardi, altre interpretazioni. La pittura cubana dagli inizi del XIX alla Rivoluzione, Forum, Udine 2011, p. 34.
[9] Da: Olga Maria Rodriguez Bolufé, op. cit., p. 220.
[10] Ibidem, p. 268.
[11] Ibidem, p. 271.
[12] Ibidem, p. 272.
[13] Ibidem, p. 275.
[14] Da: Infrazione dell’avanguardia. Poesia pura ed esistenziale, in: Storia della civiltà letteraria ispanoamericana, Utet, Torino 2000, p. 349.
[15] Traduzione di Francesco Tentori Montalto, in: L’oscuro splendore, Edizioni Accademia, Milano 1973, p. 23.
[16] Francesco Tentori Montalto, da: Introduzione alla poesia ispanoamericana, in: Poeti ispanoamericani del ‘900, Eri edizioni Rai, Torino 1971, pp. 46-47.
[17] Julio Cortazar, Para llegar a Lezama Lima, in: La vuelta al dia en ochenta mundos, Mexico, 1967. Citazione tratta da: Cintio Vitier e le liturgie del mistero, di Giuliano Soria, prefazione a: Cintio Vitier, Fogli dispersi, Bulzoni, Roma, 1990, p. 9.
[18] Ricardo H. Herrera, Cintio Vitier: un destino matinal, introduzione a: Palabra a la aridez, Buenos Aires 1989, p. 12.
[19] Cintio Vitier, op. cit., Roma, Bulzoni 1990, p. 18.
[20] María Zambrano, La Cuba secreta, apparso su «Orígenes», anno V, n. 20, 1948, pp. 3-9. Traduzione mia.
[21] Encyclopedia of Latin American Literature, p. 660.
[22] In: Poeti ispanoamericani del ‘900, Bompiani, Milano 1987, p. 554.