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Niccolò Amelii, La poetica di Josif Brodskij

Permanere nella fugacità
La poetica di Josif Brodskij

di Niccolò Amelii

 

Quando nel 1972 Josif Brodskij raggiunge gli Stati Uniti, all’età di trentadue anni, l’eco della sua triste e dolorosa vicenda biografica – il processo per “parassitismo sociale”, vagabondaggio e corruzione della gioventù, i periodi trascorsi forzatamente negli ospedali psichiatrici, i cinque anni di confino nel villaggio di Norenskaja, vicino al Circolo polare artico – lo precede. Eppure, nonostante l’alone a metà tra leggenda e verità che circonda e sempre circonderà, sino alla morte, la sua esperienza da transfugo, l’opera di Brodskij non è né diventa mai mera riproposizione in versi di una storia personale, perché essa si configura come tentativo costantemente in fieri di intuire poeticamente l’uomo colto nella sua solitudine esistenziale, entro il perimetro d’una condizione universale che trascende dunque coordinate geografiche o temporali contingenti. La solitudine dell’esule è in fondo la solitudine stessa dell’uomo, qualunque sia il suo posto su questa terra. Nonostante la possibilità tangibile di fare della propria autobiografia il canovaccio principale su cui sviluppare l’intera tessitura lirica, Brodskij, profondamente convinto che arte e vita non siano identiche, ha saputo evitare di porre all’ombra dell’ingombrante esperienza umana la propria vocazione poetica. Frutto maturo di un talento compositivo non questionabile, di una formazione autodidatta che si consolida soprattutto attraverso la precoce assimilazione e traduzione della poesia inglese (i Preraffaelliti, Donne, Eliot e in seguito Auden) e lo sviluppo di un’affinità naturale con la fondamentale generazione di poeti russi che lo ha preceduto – Cvetaeva, Mandel’štam, Achmatova e Pasternak –  a cui succede sotto l’egida favorevole di una predisposizione quasi filiale, la poesia di Brodskij s’incarica di preservare la ricchezza formale, fonetica, ritmica, prosodica, della lingua russa, che il poeta continua ad utilizzare sebbene l’inglese rappresenti dopo l’esilio la soluzione più congeniale, innervandola però con una serie di tematiche, di nuclei semantici, di semi concettuali, che ne decretano la singolare grandezza e unicità. La poetica di Brodskij fonde allora un certosino lavorio tecnico, fatto di cesellature e affinamento, di condensazione e riscrittura, con una riflessione ininterrotta sulla natura fuggevole del tempo e sulle modalità con cui esso si deposita sulla vita degli uomini e su quella degli oggetti, mutandone la fisionomia e il valore, rivelandone l’intrinseca caducità e finitezza. All’interno di una struttura lirica contrappuntistica, che nel corso degli anni si fa più spezzata e frammentaria, fitta di rimandi interni, di riferimenti mitologici e biblici, la parola poetica tenta di cogliere quindi le cose in transizione, svelandone l’essenza transeunte, ma solo a metà, in tralice. Nei componimenti di Brodskij infatti la profondità del ragionamento creativo è sempre nascosta, sottaciuta, così come l’afflato metafisico, di cui è dato scorgere solo alcuni barlumi fugaci. Ne vien fuori un discorso obliquo, indiretto, eppure potente ed intenso, in cui le parole, i luoghi, le persone evocate non sono mai semplice simbolo o correlativo di qualcos’altro, ma mantengono un loro specifico peso, uno spessore ed un volume peculiari. In virtù di questa doppia natura costitutiva, la parola poetica di Brodskij, priva sia di un tono assertivo che del suo controcanto dubitativo, fluisce via senza il bisogno di veicolare messaggi o ideali d’alcuna sorta, così come tutta la grande poesia e le frasi ed i periodi, grazie ad una costruzione tecnica impeccabile, lucida e quantomai precisa, restituiscono con esattezza millimetrica i lineamenti di un pensiero abbozzato, di una visione repentina, di una speculazione astratta, di un’immagine estemporanea. Consapevole che l’innovazione compositiva può verificarsi solamente entro i confini ben precisi della forma e della regola e che il rifiuto totale della metrica è un atto ingiustificato di superbia, superficialità o codardia, Brodskij opera una puntigliosa regolamentazione dell’impulso scrittorio, presta un’attenzione maniacale alla qualità stilistica dei suoi versi e assume con decisione una postura autoriale rigida per cui oltre l’orizzonte del linguaggio e della sua declinazione poetica non c’è nient’altro. In fin dei conti, come afferma durante il discorso di accettazione del premio Nobel nel 1987, «l’estetica è la madre dell’etica». La sua voce lirica si articola dunque negli interstizi della quotidianità, abbracciando un registro ed un lessico piano, sobrio, asciutto, che si va rinforzando in questa direzione soprattutto dopo l’approdo in terra straniera – in cui cresce molto l’influenza di Auden –, senza però recidere il legame con la tradizione, col lignaggio a lui più prossimo, senza dimenticare il valore estetico dell’arte prosodica, l’importanza delle sue regole interne, dei suoi veti, convinto anzi che proprio dalla fervida dialettica tra impostazione e imposizione ritmica, metrica, retorica e flusso poetico intimo scoppi la scintilla lirica, l’epifania linguistica che differenzia un semplice componimento da una buona poesia. Nelle liriche di Brodskij la parola poetica assume su di sé il compito ingrato di colmare la mancanza che il tempo rafforza, oscurando a poco a poco i ricordi e le immagini di un mondo oramai lontano e irraggiungibile. Eppure, non c’è alcuna speranza di vittoria o di trionfo, la mancanza resta mancanza, così come la solitudine resta solitudine, nonostante la loro sublimazione artistica; il tempo è tiranno e lascia dietro di sé solamente schegge, frammenti, impressioni fugaci, volti e gesti confusi. La nebbia del passato indebolisce la percezione delle cose che sono state e le reminiscenze nostalgiche, intorbida le fisionomie e i sentimenti, ed è all’interno di questo determinato scarto ontologico che viene a depositarsi e ad innescarsi il potere immaginifico della parola, del verso, che si fa realtà sulla realtà. Ma la seconda realtà che si profila è destinata a non reggere, percossa dai continui smottamenti del terreno sottostante; essa si sfilaccia e si sgretola a poco a poco così come la memoria che la sostiene e la alimenta e la poesia allora non può che prenderne atto e cantare, quasi rassegnata, la fallacia dell’uomo e della sua esistenza scissa e condannata. Ecco perché l’intera opera di Brodskij è popolata da fantasmi, ombre, opalescenze. Dal momento che ogni idea di rinnovata completezza, di ritrovata organicità, è pura utopia, la poesia si svela negli indizi tratteggiati labilmente sotto l’imponente coltre della Storia e dei suoi dogmi, editti, imposizioni e l’effimero, destinato a riscattarsi ora in virtù della sua costitutiva fuggevolezza, accompagna il disvelamento silenzioso dell’identità umana, sempre dimezzata, sempre mancante, sedimentata nei riflessi e nei dettagli. Nello spazio poetico di Brodskij non c’è posto per la collettività, l’uomo è fondamentalmente solo nella realtà così come nella trasfigurazione lirica, che viene allora a riempirsi di vuoti, pallide evanescenze, silenzi e sussurri. La linearità delle composizioni e delle rimembranze si rompe, lo scheletro interno abbandona una dimensiona di regolarità orizzontale e consequenziale, il verso si spezza insieme col passato e con la memoria che di quel passato è esile proiezione presente. I residui impazziti di ieri si infrangono sulla lastra dei giorni a venire, causando ferite e lacerazioni profonde e l’Io lirico è in grado di sopportare la crescente deflagrazione solo in virtù del potere catartico della parola, del verso, dello stesso atto poetico. Nonostante le costanti e inquiete peregrinazioni intellettuali e cerebrali e la diffusa vena virtuosistica, la poesia di Brodskij non si perde in un eccesso di retorica o di sovradeterminazioni metaforiche. Vi è una lievità di fondo che conferisce al significato primario della parola ciò che le spetta, senza costringerla a continui sovraccarichi semantici né a ridondanti ambiguità. Brodskij, convinto che l’esilio sia innanzitutto una condizione metafisica, conserva una lucidità di visione e composizione che rimane intatta anche nel perpetuo dramma esistenziale. I suoi versi esprimono infine il coraggio della persistenza, una virtù che il poeta trasferisce ai propri componimenti perché consapevole di non poter fare altrimenti. La poesia è destinata a rimanere, il poeta no.

 


Niccolò Amelii (1995) ha conseguito il titolo di laurea triennale in “Studi letterari e filosofici” all’Università di Siena nel 2017 e il titolo di laurea magistrale in “Editoria e scrittura” all’Università La Sapienza di Roma a gennaio 2020. Ho pubblicato articoli saggistici su «Diacritica» (Requisitoria contro lo stato attuale della letteratura e dell’editoria in Italia, fascicolo 22, agosto 2018; Sul limine della vita. Rosselli e Celan tra poesia e autobiografia, fascicolo 28, agosto 2019; Gobetti oggi, fascicolo 31, febbraio 2020), su «Nazione Indiana» (L’intellettuale dissidente, 27 maggio 2020) e su «Frammenti rivista» (Alberto Arbasino, «Fratelli d’Italia» e il beat all’italiana, 23 maggio 2020) e racconti su «Altri Animali«, «Rivista Blam» e «Clean».


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