Ventidue carte, ventidue racconti. Per ventidue settimane pescheremo insieme qualcosa di diverso per tema, lunghezza e stile, ascoltando solo le carte. Buona lettura con la seconda parte de Il Mondo, carta del tutto.
[qui la parte prima]
«Secondo me dovresti andare», mi disse E indicando il solito rifugio degli sceneggiatori di thriller senza idee, il condotto di aerazione.
«Ha ragione», continuò T. «Sei, ecco, no, non sei la più mingherlina. Ma sei giovane, puoi scappare più veloce se le cose si mettono male.»
Mi guardarono tutte come se fossi stato il Messia. Un eroe. Evidentemente un martire, agli occhi di M, che venne chiusa nello stanzino delle scope.
«Non telefonate. Non vi muovete. Non vi picchiate. Vorrei trovarvi tutte in un posto e sane di mente quando torno», dissi.
Fu così che mi ritrovai per strada, uno svincolo silenzioso e senza stole di statale deserta, pieno di cartacce, con vista su pastore tedesco investito. Non c’erano balle di fieno solo perché eravamo in una periferia di città, e non c’erano gli avvoltoi – ma c’erano i gabbiani, in genere impazziscono, preferiscono farlo a mezzanotte ma quella mattina urlavano a poco più di venti metri sopra la mia testa, a mucchi. Uno stava pasteggiando, ad ali aperte, incredibilmente grande per avere paura di me, da un cumulo di carne sanguinolenta abbandonato sull’asfalto. Non era un corpo morto; era una bistecca scivolata da un cartoccio che rotolava poco lontano. Per dirla tutta era a ben tre metri dal corpo morto di R, caduta a piombo dalla finestra della sua camera probabilmente la sera prima. Forse i gabbiani non sono quegli assaggiatori di cadaveri su cui il campo si stringe nelle discariche; non capisco perché la stessa bestia possa rappresentare libertà e grandezza quando ha per sfondo il mare e omicidio e putrefazione quando abita in città. O forse, più semplicemente, l’animale aspettava che proseguissi prima di assaporare la signorina R, e si stava dando solo un tono.La strada, per quanto potessi vedere lungo l’asfalto, era deserta e sporca. Qualsiasi cosa avesse potuto rappresentare esistenza e mattino – giornali, avanzi di cibo, bottiglie sane e bottiglie rotte, palloni, valigette, ombrelli – era abbandonato sul terreno; sembrava una notte senza netturbini illuminata per sbaglio dal sole.
In lontananza, ma molto in lontananza, delle voci e dei passi si richiamavano e si rispondevano come tamburi di guerra. Era scoppiata una rivoluzione. Una rivoluzione che aveva rivoltato la città e la civiltà come un maglione il cui davanti sia colorato e variopinto e l’interno una semplice sagoma di feltro nero.
Un cane attraversò la strada e fece pipì contro un cassonetto. Mi resi conto di non sentirli solo perché erano ovvi, ma dei fringuelli litigavano i loro posti sugli alberi. Solo l’uomo non esisteva, a parte le risate lontane dei bambini e quel tizio vestito da fattorino d’albergo che non si decideva a spegnersi. Mi allontanai dalla strada e dalla puzza di carne andata a fuoco. Alla mia sinistra, una strada portava ad un parcheggio di ghiaia circondato da un boschetto (le macchine erano rigate, i finestrini completamente sfondati) e dopo il parcheggio a una scalinata accostata da muri di pietra che si inerpicava verso alcune case.
Cominciai a salire guardata dai gatti. Quello che è successo, non lo dico come scusante, ma solo per amore di cronaca, si è svolto in pochi secondi: ho sentito un dolore pazzesco alla nuca, e un colpo, dietro la schiena, aveva rimbombato di un rumore sordo, come a schizzarmi le vertebre contro l’addome. Poteva esserci stato un urlo, un rantolo, ma i denti piantati nella nuca mi avevano annebbiato i sensi. Un ragazzino di dodici anni al massimo mi aveva afferrato alla schiena e si era chiuso a tenaglia contro di me; scalciava sui fianchi, graffiava il petto, e mordeva, disperatamente, atrocemente, la mia nuca. Barcollavo con lui addosso, non potevo guardarlo in volto, formicolavo di dolore e di spavento, e quando lui mollò la presa e cominciò a gridare, assalendomi l’orecchio, non pensai a nient’altro che a farlo smettere. Due colpi fortissimi, due colpi contro il muro, di schiena, con lui abbrancato addosso; il primo gli provocò un colpo di tosse, il secondo non fu un tonfo, ma un rumore pieno, scricchiolante, come un cocomero che cade. Me lo scrollai di dosso e proseguii.
La scalinata era piena di curve, e ripida, e lunga. Quando alla mia destra il muretto, più basso, si apriva su cortili o scorci di tetti e sentieri, tentavo di camminare china sul terreno. Mi ritrovai in un largo piazzale da cui partivano due lunghe strade, carrozzabili, e vicoletti da ogni punto cardinale.
Fu da uno di questi che scese Giulia, terza D, affiancata da due ragazzini silenziosi e benvestiti. Giulia aveva un chiodo di pelle stracciato, un paio di Raybans e quattro orologi che le penzolavano dalla caviglia. Portava i capelli sciolti sulle spalle e guanti da motociclista alle mani.
«Come cazzo di sei vestita?», le urlai.
Giulia sollevò lo sguardo verso di me. Uno dei due ragazzi cominciò a fischiare e batté un piede sul terreno, l’altro si parò davanti a loro:
«Un zhelil, Mohrà Giulia, che facciamo?»
«Stai tranquillo, fehnòr, è quella di musica, non è del tutto zhel, lasciami chiedere se vuole venire con noi.»
I due si rimisero accanto a lei, in silenzio, e mi guardarono sospettosi. Giulia mi afferrò una spalla e mi portò in un angolo della piazza, verso una ringhiera che guardava a sud.
«Non è bellissima, la nostra rivoluzione?»
«Io vedo solo una statale deserta, e dei parcheggi abbandonati. E… sì, quel tizio che tenta di scappare. E quella pietra. Che mira, complimenti.»
«Stiamo tracciando le frontiere. I più piccoli pattugliano gli interni, i medi si occupano di controllare i confini; hanno l’ordine di cacciare tutti gli zhelil ribelli, quelli che non vogliono emigrare o suicidarsi. I grandi sono già andati a parlamentare con gli altri gruppi. Mi hanno nominata Mohrà di queste pattuglie, sai? Andiamo a fare una passeggiata.»
I due ragazzi si mantenevano a pochi passi da noi, ancora in allerta. Avrei voluto chiedere perché tutte le loro parole contenessero una h. Un ragazzino più piccolo attraversò un vicolo, fermandosi a fissarci allo stesso modo in cui i primi bambini, ancora nelle camerate, avevano stretto al petto i quaderni. Inarcò la schiena e mi mostrò una mano insanguinata, da cui pendeva un occhio. Era la prima rivoluzione senza armi che il secolo avesse conosciuto, e vi stavo assistendo.
«Che ne farete di questo posto? Chi sono gli altri gruppi?»
«Questa cittadina fa schifo», disse Giulia. «Stiamo pensando di scambiarla con un villaggio in campagna, e quando avremo cominciato a far fruttare i campi e a vendere della frutta, il valore potrebbe salire abbastanza da poterci permettere una città decente, magari un capoluogo di provincia.»
«Quindi non è solo qui che…»
Giulia scoppiò a ridere.
«Ha ragione, scusi, lei non ne sa niente. E’ successo dappertutto; stanotte, almeno in tutta Europa. I qossur più grandi forse sono riusciti a contattare anche altri continenti, ma dipenderà dal fuso orario. Stasera al massimo potremo chiedere al resto del gruppo, se c’è un qosh tra loro potrebbe saperne qualcosa.»
«Le professoresse sono molto preoccupate per voi, sono convinte che siate stati rapiti.»
«Credo che a quest’ora non sia il loro problema principale.»
In effetti, l’aria si era riempita di sospetta una puzza di fumo e catrame che pungeva leggermente le narici; il vento si anneriva e si gonfiava ogni centinaio di metri.
«Fenhòr, fai compagnia alla professoressa mentre vado. Se si avvicina qualcuno, digli che sta con me. E non metterti a raccogliere roba per strada, sai che ci sono i piccoli per questo. Io torno fra qualche minuto.»
Il ragazzo che aveva fischiato e battuto il piede per terra si mise contro il mio braccio, guardando silenziosamente di fronte a sé. Io non dissi niente. Giulia aveva, dietro la schiena, una collana di denti; alcuni erano puliti, altri ancora macchiati di sangue.
Tirai le frange del cappotto del ragazzo accanto a me, per tastarne la pazienza. Non mosse un muscolo neanche quando provai a fargli delle boccacce. Solo, mi seguiva, spalla contro spalla, ogni passo che muovevo attraverso il piazzale. Da lontano arrivavano ancora grida e risate, e scalpiccii di bambino. Dopo due minuti, Giulia arrivò inchiodando su un’auto nera. Mi fece un colpo di clacson, abbassò la capote e i due ragazzi entrarono, uno accanto a lei, l’altro tenendomi aperta una portiera posteriore. Lo ignorai e provai l’ingresso a sportello chiuso, dall’altro lato, tra l’altro sbattendo un ginocchio contro l’angolo del finestrino. Per fortuna nessuno commentò.
Ripartimmo sgommando. Giulia accese lo stereo, il cd restituì I Wanna Hold your Hand. Partimmo tra le macerie e i corpi affumicati. Giulia sterzava con davvero poca grazia.
Tirai fuori un libro dallo zaino. Usai il tizio accanto a me come poggiaschiena e mi misi a leggere con le caviglie fuori del finestrino.
«E’ questo che proprio non capisco di lei», mi disse Giulia guardandomi sopra le lenti nello specchietto retrovisore. «Qui si sta scrivendo la storia, e lei tira fuori un libro e si mette a leggere.»
«Calma, ragazzini», dissi. «Qui non si sta scrivendo la storia; qui la si sta facendo. E serve qualcuno che poi la scriva. Se permetti, affino un po’ l’orecchio. Non vorrai che le vostre gesta vengano tramandate con la prosa di un liceale.»
Giulia batté le mani sullo sterzo e annuì con forza.
«Accidenti, abbiamo già trovato un cantore!»
Proseguì slittando ad ogni curva. Quando scalava la marcia, la macchina inchiodava su se stessa e ripartiva mugugnando. Si cambia marcia davvero male a tredici anni.
© Giovanna Amato