
La letteratura come bene comune
Se dovessi usare una sola frase per definire il mio rapporto con la letteratura, direi che mette ordine nel mio cuore. E credo nel cuore di ognuno. Poi, di conseguenza, se così fosse, credo metta ordine nel mondo. Della poesia Zanzotto diceva che tesse le trame invisibili del creato fino a ricostituirlo nelle sue infinite varianti. Anche quando crediamo che crei scompiglio, quando scuote le nostre certezze, la letteratura, per usare una definizione cara a Carlo Levi, inventa la verità. Lo fa dando i nomi alle cose e all’esistenza che abbiamo sotto gli occhi ma non sappiamo pronunciare. Per inventare la verità e darle un nome, aggiungo, occorrono almeno due condizioni: la prima è essere liberi; la seconda è avere molto coraggio. Dire la verità, ce lo insegnano le dittature, può essere molto rischioso. Darle forma attraverso simboli, attraverso frammenti, trame, è un passo verso la giustizia. Verità e giustizia spesso necessitano di uno sprovveduto coraggio.
Come per la scienza, sapere o conoscere è sempre positivo. Quindi la letteratura, con la verità, ponendo agli esseri umani il problema della giustizia, diventa morale. E la morale, intesa come insieme di valori che regolano la comunità, finisce per farsi politica. Mi viene in mente Orwell quando sostiene che «non esiste letteratura genuinamente apolitica e meno che mai in un’epoca come la nostra, in cui paure, odi e convinzioni strettamente politiche sono nella coscienza di tutti.»
Orwell è un socialista democratico che scrive soprattutto contro il totalitarismo. Anche lui come Céline e Marx è sicuro che il mondo sia una storia di ricchi e poveri, di deboli e oppressori. Inoltre, lo scrittore inglese è convinto che quando la scrittura porta alla luce l’ineffabile, il recondito dell’uomo, con l’ausilio di audacia e tecnica, «l’effetto è l’abolizione, anche se momentanea, della solitudine […].» Ed è proprio vero che leggere letteratura fa sentire meno soli. Sappiamo che Orwell, per sua stessa ammissione, quando si accinge a scrivere un libro, lo fa per combattere qualche menzogna, o per denunciare quelle che ai suoi occhi risultano palesi ingiustizie.
Tornando alla libertà che occorre per fissare la verità, potrei aggiungere che la condizione della libertà a sua volta apre al rapporto col potere.
Nella mia esperienza, dopo qualche infatuazione di troppo, prediligo gli scrittori che non amano giocare con le parole, che ne ponderano il peso e la sostanza, delle parole, perché se è vero che scrivere può aiutare l’individuo, è vero pure il contrario: può contribuire a confonderlo, a farlo aderire al mondo così com’è, a rendere più morbide le sue ingiustizie e storture, quando non a giustificarle.
Sto tentando di dire che se la letteratura contribuisce a svelare e decifrare il mondo, essa possiede pure questa capacità intima di liberazione, di opposizione e rivolta, che spinge chi ne fruisce non solo al desiderio, ma spesso alla lotta attiva per contrastare la realtà circostante.
Certo tornano alla memoria personaggi emblematici che essa ha reso folli: da Don Chisciotte al Kien di Canetti in Auto da fé, passando per l’Osmoc di Michele Mari, protagonista del suo Di bestia in bestia. Cultori di libri e biblioteche, che finiscono per incarnare l’inadeguatezza, nonché lo scarto tra studio, contemplazione astratta e realtà circostante. Ma esistono anche esempi come quello di Scipio Slataper, scrittore triestino irredentista che muore sul Carso, a 27 anni, alla ricerca di un Patria.
Insomma, a riguardo potremmo concludere con le parole di Giuseppe Montesano che per esempio della poesia scrive: «leggere poesia, non per svago, lo svago è l’ultimo giro di chiave alla cella della prigione, ma per respirare con ritmo umano, e ritrovare il filo, e Arianna, e la luce dolce in cui si potrà alla fine imparare ad amare.»
© Sandro Abruzzese
Una replica a “Sandro Abruzzese, La letteratura come bene comune”
L’ha ribloggato su raccontiviandantie ha commentato:
Letteratura come educazione sentimentale e “luogo” comune
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