[…]
Il pensiero nasce sempre per contrapposizione
No!:
sovvertire il punto esclamativo:
noi.
(VII, p. 25)
Nella galassia della poesia italiana contemporanea, fra due libri si è ingenerata una forte risonanza, a dispetto delle notevoli differenze, sia nello stile, che nella provenienza (sociale e culturale) degli autori.
La terra del Rimorso, opera prima del tarantino Stefano Modeo (Italic, 2018), cioè l’oggetto di questo articolo, e L’adatto vocabolario di ogni specie del parmense Alessandro Silva (Pietre Vive, 2015), infatti, ammiccano l’un l’altro, incontrandosi sul funesto comune territorio dell’ILVA e di Taranto.
Il libro di Silva è un poemetto incentrato sul dramma di un operaio della rinomata e maledetta fabbrica, mentre quello di Modeo contiene una parte (la seconda) che tratta di Taranto e della fabbrica, allargando i suoi confini non solo spazialmente, ma concettualmente, nella prima sezione, pur mantenendo in entrambe il medesimo piglio doloroso, a tratti disperato, piglio che pare poggiare (in antitesi alla disperazione) sulla speranza della protesta e della lotta, fattori di riscatto sociale che vengono dedotti dalla lettura; ciò controbilancia lo stralcio introduttivo, tratto da La terra del Rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud di Ernesto De Martino (Il Saggiatore, Milano, 1961), opera fra le più celebri dell’antropologo, filosofo e studioso delle religioni napoletano, titolo riproposto da Modeo, la cui scelta è da considerarsi quale immediata, netta e potentissima contestualizzazione del libro a seguire.
Ci si domanda, allora, riferendoci agli studi di De Martino, quale sia – nel moderno sud di Taranto e nella nostra intera società – il rito che ripeschi l’evento primigenio dal bacino culturale metastorico, mirato a guarire il male (nel senso più ampio del termine) in quanto “male già risolto” nella cultura simbologica di riferimento. La mia domanda, naturalmente, non considera quale soluzione il tarantismo (il cui concetto, si badi bene, permea totalmente le atmosfere di Modeo, divenendone premessa), ma aspira all’individuazione d’un rito assemblato demiurgicamente oggi, guardando alla simbologia e alle idee del ventunesimo secolo, in quanto, come descritto da De Martino, rimorso va letto come ri-morso, morso nuovamente, senza possibilità di scelta, ed è palese agli occhi di tutti come l’attuale situazione tarantina sia segnata e intrappolata dal e nel ri-morso e assurga a tragico simbolo della condizione del sud; probabilmente la soluzione vagheggiata da Modeo supera il rito, indicando la via dell’attivismo e della protesta, ma soprattutto della consapevolezza, o meglio, continuando nei concetti di De Martino, nel ritrovare ed accudire, quale bene primo, la presenza, l’assopimento della quale è la reale causa del tarantismo, della fascinazione, e ciò assume importanza capitale anche per decrittare il messaggio del libro, messaggio talvolta incastrato fra tasselli linguistici che rimandano anche alle avanguardie artistiche del primo ‘900: dietro al linguaggio duro, a tratti scheletrito, all’impatto che in alcuni versi – per parentela artistica fra i lari del poeta – rimanda una lontana eco del potente e marinettiano Zang Tumb Tumb, si ricava quale unica speme proprio la presenza dell’uomo, che equivale, adagiandoci su di una simbologia più diretta, all’imperitura immagine del buio quale assenza di luce.
Vista l’opera di Modeo da questa prospettiva, la stessa assume anche impalpabili sfumature foscoliane, senza alludere allo stile – Modeo è da tutt’altra parte – ma al fatto che il giovane autore in analisi abbia vissuto simbolicamente il suo tragico Campoformio, un trattato moderno e reiterato che vede sempre all’opera inarrivabili e algidi giochi politici, e che stenda la sua pubblica accusa e rivolta esule a Ferrara, laddove vive e lavora.
La poesia di Stefano Modeo è marcatamente “grafica”, per tre diverse ragioni: anzitutto le immagini vengono restituite da versi essenziali, da un linguaggio diretto e affrancato da nuances tese a edulcorarne il messaggio. Ne è d’esempio la poesia II (p. 20, Sezione I):
tutte chiuse le galere, nebbia e ancora bere.
Dormi. Ogni giorno una notizia:
fare politica è sempre più complesso. Dormi.
(e in molti dicono:) Questo è l’anno giusto.
(e in molti dicono:) Dentro ma contro.
(e in pochi dicono:) Sciopero.
Intanto vi rabbocco il bicchiere.
Intanto: andiamo a vivere insieme [l’affitto chi lo paga?]
A chi ti chiede che cosa hai: cosa inventare?
(e in molti dicono) qualcosa si trova: dormi.
È grafica, inoltre, per via del protagonismo della punteggiatura e del segno grafico in generale. Ne risulta un incedere frammentato, a scariche (ecco la poesia VII, p. 25):
Affrancarsi: prendere per mano la lingua morta
riportarla nei laminatoi a freddo
Lingua bene comune!
(poi: additarsi le destre passioni, stanarle)
Non imitare: uccidere lo standard:
A morte l’io.
Il pensiero nasce sempre per contrapposizione
No!:
sovvertire il punto esclamativo:
noi.
Grafica, infine, per come il verso dispone dello spazio, alimentandone e potenziandone il ritmo saltellante, che, nella poesia XIV (p. 38, Sezione II) riesce così a trasmettere il respiro spezzettato, a singhiozzo, dei manifestanti che attendono la carica (si noti che, in questo caso, la punteggiatura è assente):
Cordone
ci guardiamo
non è Maggio
Cordone
la storia è una questione di attimi
e questo scirocco è una crepa nel tempo
due minuti e vi carichiamo
Cordone
sulle nostre spalle si carica la parola:
Ricatto
poi di scatto
lasciamo solo il potere
stringendoci in un abbraccio.
Cordone
Nella poesia XX (p. 44, parte II) troviamo un artifizio poetico caro all’autore, che si presenta anche in altri componimenti (come la poesia XII a p. 33 e, senza lo stacco del carattere maiuscolo e gli spazi ad isolare il verso, nella poesia II, riportata sopra, nella poesia XIII, a p. 36): la ripetizione.
Una parola
e gli tremò la voce
gli chiesero una parola
Compagni,
non ebbe più nulla da dire.
Dal verso al conflitto
si è spezzato il tempoFRANTUMARE FRAMMENTARE
Non è il sole che sorge ad Est
Non è niente.FRANTUMARE FRAMMENTARE
Oltre l’oltre della maniera
è conclusosi il mille e novecento
Faro nella notte senza navi
Ad ogni morto c’è un fiore
legato per coccarda
una lingua che si annoda
e ci fa viola
un compromesso
non detto.
La terra del rimorso di Modeo mostra riferimenti, come ho già accennato, alle correnti artistiche del primo novecento, correnti che hanno formato Vladimir Majakovskij (uno dei numi di Modeo), ma sin dalla prima lettura, i versi hanno in me evocato il Ginsberg di America (incipit): «America ti ho dato tutto e ora non sono nulla./ America due dollari e ventisette centesimi 17 gennaio 1956./ Non posso sopportare la mia mente./ America quando finiremo la guerra umana?/ Va’ a farti fottere dalla tua bomba atomica./ Non sto bene non mi seccare./ Non scriverò la poesia finché non avrò la mente a posto./ America quando sarai angelica?/ Quando ti toglierai i vestiti?/ Quando ti guarderai attraverso la tomba?/ Quando sarai degna del tuo milione di Trotzkisti?/ America perché le tue biblioteche sono piene di lacrime?/ America quando manderai le tue uova in India?/ Sono stufo delle tue folli pretese.»
Altro faro di Modeo è Dino Campana (l’autore ha conseguito la laurea in Filologia moderna presentando la tesi proprio su Dino Campana) e proprio Campana respiro nel primo verso della poesia X (p. 28, Sezione I):
La notte è un desiderio che preme e che nasce dal petto
mi sveglia e mi richiama verso il tuo corpo, abbandonato nel letto
sono solo nel verso del mio disagio incapace,
mi rivolgo e ti chiedo, nel gesto di una luce soffusa,
di un braccio donato al cuscino,
asilo tra i tuoi capelli, asilo nel nervo ottico dei tuoi occhi,
asilo.
E ti svegli lo so, te ne chiedo perdono, ma se il mondo è complesso
ed io forse lo ignoro, mi suscita angoscia questo attendere il giorno
senza parlare di notte, per chiederti cose, sino alla notte di ritorno.
Nel libro, la lezione di Campana emerge anche nell’uso delle rime e nelle già citate ripetizioni, queste che appartengono sia al poeta di Marradi (caratteristico di Campana è il ripetere sia parole, che frasi) sia al russo Majakovskij e al futurismo, a cui accenno in apertura.
La poesia XVII (p. 41, Sezione II) consuona con la prima poesia della raccolta (Adesso, p. 17, l’unico componimento non numerato: «Volo all’altro capo del Paese/ ciò che lascio ogniqualvolta/ è un verso che risuona straniero/ un’onda di mare che brucia salina/ quella ferita mal ricucita di spina. […]») e ripropone lo strappo operato dall’esule, la cui sopravvivenza richiede l’allontanamento dalla Terra del rimorso:
Un cortile lacerato dagli scrosci delle piogge:
è un luogo sacro per cui ti guardi intorno.
Ogni bambino ci vive il suo tempo in quel villaggio
violentando pareti con un pallone che vola alto
è una mongolfiera quella sfera di cuoio
porta altrove, porta verso il cielo intero
dove possiamo vedere quanto è misera la mia casa
fatta di angoli e gatti sul balcone
dove possiamo vedere quanto è vasto il mare:
per pescare
C’è una signora (preziosa) che ci vuole bene sta
sempre in casa e vende droga a buon prezzo
il marito l’hanno preso, il marito non c’è a cena
mi spiega il mondo che si fa piccolo in bocca sua
da quel viale a quello stretto che porta al mare
– Vattene via da sta città non ci sta niente –
Quel che resta sono i puntelli tra i palazzi:
solidali li tengono. Poi,
uomini formiche con lo sguardo secco
panni che si stendono.
Propongo la poesia XV (p. 39, Sezione II), perché scritta per Francesco Zaccaria, una delle tante morti sul posto di lavoro, un morto dell’ILVA, ripescato a trenta metri di profondità nella cabina della gru, finita in mare a seguito di una tromba d’aria. Poesia che a mio avviso si discosta leggermente dallo stile dell’autore, per via di un testo più fluido:
Si svegliò operaio e soltanto
soltanto al dolore del cuore
il cuore malato di solitudine
non seppe mettere a tacere.
Il negro che era in lui agitava
agitava i remi della scialuppa
barcamenandosi schiavo suo
nella fradicia piscina della testa.
Le ruote dell’auto chiusero
gli occhi nella polvere rossa alta.
Davanti quel turbine in mare:
cosa si soffre nella pioggia raffica
cosa si soffre nella pioggia acida
– Viene il destino e ti porta via –
pensò stringendo il volante
che tremolante
ancora teneva lui a terra
mentre negli occhi la gru nel mare.
A conclusione di questo articolo, invitando alla lettura di questo giovane e appassionato autore, colloco una poesia che ha il suono d’epitaffio e che sintetizza lo spirito di Stefano Modeo:
XXIV.
Ad ogni modo fummo mobbizzati
decretizzati, demoralizzati, spezzati
terrorizzati, spiazzati, smitizzati.
A nulla valse, a tutto vale – invece –
il desiderio di rivolta.
© Carlo Tosetti
2 risposte a “Stefano Modeo, La terra del rimorso (rec. di C. Tosetti)”
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