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Coriandoli a Natale #12: Fabrizio Sinisi, Paesaggio di Milano un’ora prima dell’alba #2

4.

Le madri e le nonne del quartiere di Loreto si lamentano spesso e volentieri: “Va bene tutto”, dicono quando ogni tanto una troupe televisiva o un blogger, con l’aria avventurosa di reporter in territorio di guerra, vanno a interpellarle, “ormai va bene tutto, ma i travestiti di via Padova sono i peggio”. Come un mondo sotterraneo che ogni tanto affiori in quello diurno, con brevi interferenze e rapidi balenii, i travestiti di via Padova capita spesso di vederli anche di giorno, in quello che a Milano può chiamarsi giorno, grigio e sporco in un perenne tardo pomeriggio, al Parco Trotter o al Pinetti o anche ai giardini di piazza Gobetti, Durante, Aspromonte, fino a Cimiano: si prostituiscono tra i cespugli o su una panchina, con una coperta sulle gambe, non lontano dai bambini che giocano. A differenza dei colleghi che lavorano nei bordelli e nelle case del centro, questi non hanno abbastanza soldi per essere belli: le mani adunche, la pelle malrasata, le tette malfatte e abnormi come protesi tumescenti, gli occhi stanchi cupi di cipria emergono da volti sgrossati e incattiviti. Ma ora, nel punto più basso della notte, qui, nel buio degli scantinati dove vivono e lavorano, dove Samir e gli altri sono scesi forse troppo rapidamente e rumorosamente, spaventandoli e scatenando il panico, sono solo ombre gibbose, mostri o vampiri pieni di furore, parrucche scalmanate, un coro di proteste. E un odore, un odore insopportabile di merda, di piscio, di muffa, di sperma. Questi tuguri dove non c’è neanche il cesso li affittano a quattrocento euro al mese e dentro ci campano e ci lavorano, pisciano e cagano dentro i portaombrelli di plastica, per poi svuotarli la mattina nei giardini. Uno si butta addosso a Farid, gli brilla un mano una lametta per le unghie, Farid urla, il travesto gli ha fatto un taglio sul braccio, una cosa da niente ma Farid imbestialisce, e tira al travesto una poderosa testata sul naso, quello crolla dentro la stanzetta da cui è emerso, dentro c’è un materasso lurido buttato per terra, una borsa, una masnada di oggetti alla rinfusa, il travesto rimane supino metà sul pavimento metà sul materasso, urla con la bocca aperta con un suono continuo, un interminabile muggito che sembra scaturire dal profondo della terra; il sangue intorno all’immensa bocca spalancata lo fa sembrare una maschera africana, un idolo totemico. Farid in un attimo gli è sopra e inizia a pestarlo. Gli altri travesti si mettono a urlare, sono almeno cinque, come gli è venuto in mente a Corvetto di mandarci solo tre persone, afferrano i pitali e tirano loro addosso secchiate di piscio freddo. Poi con le lamette da barba si tagliano le braccia, succhiano le ferite e sputano il sangue. Samir ne abbatte uno con una gomitata, sente lo zigomo spaccarsi sotto il colpo come un frutto: quello crolla e lo prende a calci nelle costole e nella schiena. L’odore è terribile: l’aria è densa, spugnosa, irrespirabile. Farid, paziente e metodico, continua a pestare il travesto nel suo stanzino senza che nessuno si curi più di lui. Intanto a furia di botte Samir e Karim riescono a trascinare in strada gli altri quattro, si fanno consegnare le chiavi e scendono per riportare su Farid e l’ultimo travesto. L’ha quasi ucciso intanto, la faccia è ridotta a un pastone sanguinolento. Non urla più e sembra morto. Richiudono lo scantinato e trascinano su il travesto di peso, a braccia. Nella luce dei neon i travesti sembrano zombi di un film dell’orrore dozzinale. Uno bestemmia e continua a insultarli, uno singhiozza forte con un suono che sembra il nitrito di un cavallo, un altro chiama l’ambulanza perché quello pestato da Farid è a terra e non risponde e non si muove. “Comunque respira, respira” sostiene Farid, ma si è incupito. Riprendono la macchina e se ne vanno, le chiavi a Corvetto le riporta Karim che abita a Gabrio Rosa, si separano a Piazza Emilia, senza parlare.

5.

In via Orsenigo c’è un grande condominio con un cortile e una grata che dà in un vasto scantinato, dove c’è una piccola associazione islamica, una moschea minuscola dove spesso Samir si fa lasciare a fine nottata. Sono le cinque e mezza, e in tempo per la prima preghiera del mattino. La sua preferita: la gente è pochissima, fuori è ancora notte, e nel fajr rituale c’è quel versetto, “Pregare è meglio che dormire”, che non sa perché ma lo commuove nel profondo e quasi lo ferisce: “Dio forza tremenda / ben altissimo è il tuo luogo, / segreto il tuo operato, / sfuggire al Tuo governo è cosa assurda”. C’è l’amico Ghoulam che conosce la poesia araba e a volte dopo la preghiera gliene canta come una ninna-nanna che l’accompagna, un’ora dopo, nel sonno:

“Vieni, coppiere, l’amato è con noi.
È lui stesso, lo vedi, è lui stesso che chiede
di brindare per lui.
Mettiamo a nudo l’anima e irroriamole il volto
d’acqua di vita lieve.
Sì, dovremmo rassegnarci, lo so bene, dovremmo,
ma come, come, dimmi, portare pazienza
in questo viaggio breve?
È l’alba, dolce coppiere,
porgi l’ultima coppa:
al labbro nostro inquieto
la coppa del mattino.
È il momento dell’ansia e del tremore:
fra poco tutto, forse, sarà perduto o vinto, appassirà la vita,
s’abbuieranno i fiori.
M’attardai nel mio canto:
m’attardai nell’amore”.[1]

Quando finisce la preghiera la madre di Ghoulam e le altre preparano il couscous e la crema di lenticchie, mangiano insieme, e giacché è ancora notte parlano piano e l’aria si riempie del vapore dei cibi caldi. Samir si sente finalmente piombare addosso una splendida, terribile stanchezza. Dopo il pasto risalgono all’aperto dal sottosuolo come i sopravvissuti a una catastrofe. Fra i palazzi il cielo è di un azzurrino morbido e pastoso, una lattigine biancastra densa di fumo e nebbia che presto sarà il giorno. Il silenzio è perfetto, l’aria è fresca e ha un buon odore. Samir tira fuori il cellulare e stavolta, senza più la minima traccia di esitazione, invia a Corvetto la traccia della registrazione con Ruggerino: segue con gli occhi la barra d’invio che s’allunga come una lumaca tesa fino allo spasimo e sparisce. Andata.

Passa il 16, pulito e scampanellante e luminoso come un carro di carnevale o un treno in festa, deserto. Saluta tutti e s’incammina a piedi per le strade deserte mentre già alcune finestre negli enormi condomini, simili a murature di una città assediata, iniziano ad accendersi. A Brera, dov’è andato a prendere le chiavi del dormitorio dall’amico Tariq, il cortile è bianchissimo, le statue cieche raggelate nel silenzio, le astratte balconate del portico e la grande scalinata sospesa, tutto è immobile e imminente, tutta Milano sembra il set di un film un attimo prima del ciak – i pendolari sonnolenti pressati nei treni della metro, gli impiegati che escono di casa, i baristi che sollevano le saracinesche, i mendicanti ammassati negli androni e negli immensi porticati monumentali di via Pisani umidi di piscio, i manager incravattati, gli addetti alle pulizie che battono i corridoi delle aziende e degli uffici – tutti pronti a entrare nei loro ruoli, a dare il via alla messinscena anche stavolta, anche oggi, tra un attimo: ora. Tariq sta montando la sua bancarella accanto a un grosso ciliegio scuro, vende monili, sciarpe, berretti. Samir per gioco prende una lunga collana di finte perle, s’appende ai lobi degli orecchini fintoafricani, indossa un cappellino rosso. Si volta ridendo, cercando uno specchio, un riflesso che però non trova – “Sono bella?” chiede mimando una voce femminile, e inclina la testa su un lato, con civetteria, come se fosse in posa per una fotografia.

© Fabrizio Sinisi

[1] Khwarazmi, XIV secolo, p. 164


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