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Festlet #4: Umano

George Saunders (al centro) a Palazzo Castiglioni

Saunders ci dice immediatamente che Lincoln, all’apice della sua notorietà, era anche un uomo all’apice della sua sconfitta. L’uomo che negli anni sessanta dell’800 diceva che ogni guerra era civile perché riguardava l’uomo, doveva «coniugare l’immane dolore della perdita di un figlio piccolo con il dovere di mantenersi saldo nel suo ruolo». Marco Malvaldi, che lo intervista a proposito del suo romanzo (appunto Lincoln e il Bardo, dove il Bardo è il luogo buddista di intervallo tra la morte e la rinascita), gli domanda come sia riuscito anche lui, da autore, a gestire una contraddizione: quella di poter scrivere su registri commoventi senza perdere mordente negli inserti di ironia. Saunders risponde che dovrebbe sempre essere, nella scrittura, come con la bicicletta: saper pendere da un lato e saper riequilibrare dall’altro. Nel caso di Lincoln aveva cominciato, continua, in un tono troppo tragico, e solo dopo qualche lettura ha deciso di iniettare delle dosi di ironia. Come del resto da giovane, quando «tendevo a togliere ogni passo ironico quando volevo essere tragico e in altri casi a far ridere a ogni costo: non avevo capito che il segreto era l’equilibrio».Parlano molto di scrittura, Saunders e Malvaldi, e del loro essere lettori. Parlano di libri detestati (tutti quelli che hanno protagonisti troppo sfrontati e virili) e libri amati (Le anime morte tra tutti, perché «Dio ci guarderebbe proprio così»). Parlano, soprattutto, di composizione: «Non abbiamo mai davanti il nostro interlocutore, e dobbiamo fare lo sforzo di figurarcelo; ma spesso lo immaginiamo troppo passivo, lo guardiamo dall’alto, e scarichiamo su di lui il contenuto di un camion. Altre volte diventa tutto secco, artificioso, come in quegli appuntamenti in cui siamo nervosi e abbiamo appuntato cosa dire. Immaginiamo di avere in tasca dei foglietti di carta: ecco, sono le sette, è il momento di chiederle un po’ di sua madre».
Tra i libri amati e detestati di Saunders ci sono anche i libri riletti, e di uno di questi parla con Federico Taddia per il suo ciclo, appunto, “Il libro che ho riletto”. Il libro scelto è L’armata a cavallo, resoconto autobiografico in racconti di Isaak Babel’, che provenendo da tutt’altra estrazione sociale (ebreo scampato ai pogrom russi del 1905) si unì durante la sua vita ai cosacchi che pure quei pogrom avevano condotto.
«Ho un’idea rigorista della lettura», dice Saunders. «La uso per rinvigorire la mia scrittura quando la sento infiacchire. Scelgo spesso questo libro: mi basta leggerne due o tre pagine e la mia scrittura si riaccende».
Ricorda il suo incontro con il libro di Babel’, appena trasferito a New York dal Texas e con poche letture alle spalle; un momento della sua vita in cui aveva come maestro solo Hemingway, con la sua perizia nella riduzione all’osso e negli slanci lirici. «Poi ad un tratto Hemingway cita Babel’ come scrittore più capace di lui, e io scopro che assieme alla stringatezza può esserci una grande vena umoristica. I libri di Babel’ sono apparentemente semplici, in realtà la loro orchestrazione è complicata e sono emotivamente molto complessi. L’armata a cavallo parla di storia, violenza, rivoluzione, e nella sua polifonia fa affiorare l’amore per le posizioni non estreme. Oltre a essere molto divertente. Molto umano».
Teresa Ciabatti ed Elisabetta Bucciarelli hanno invece ragionato insieme sulla verità e le verità letterarie. Teresa Ciabatti è stata recentemente nella cinquina per lo Strega con il suo La più amata, in cui ha messo il suo nome e tanti degli avvenimenti della sua vita privata, cosa per la quale le sono capitate delle critiche; Elisabetta Bucciarelli a Mantova presenta in anteprima il suo Chi ha bisogno di te, storia di un legame tra una madre e una figlia. «Più del genere di appartenenza, più di ogni cosa, è il ruolo che ci identifica», dice.
Si parla di fiction e autofiction, di reazioni del lettore davanti alla presunta messa in piazza di questioni personali (c’è chi si scandalizza, chi non ci bada a patto che il libro funzioni); degli ossimori di verità e bugia, invenzione e confessione, pubblico e privato. Teresa Ciabatti si chiede: la voce narrante è garanzia di verità? E se anche fosse, questa verità coinciderebbe con la verità dei fatti? E ancora, Elisabetta Bucciarelli: «Spesso mi chiedono: cosa c’è di tuo? E io rispondo: niente. Ma questo è essere bugiardi? Del resto se costruissimo un personaggio su una persona, senza aggiungere né elaborare, il personaggio suonerebbe falso. Il personaggio è una persona cui sono aggiunte delle ossessioni; il personaggio che ci assomiglia è noi stessi cui sono aggiunti lati che mai avremmo creduto nostri».
«Oltre ogni polemica su quanta verità io ci abbia messo dentro, questo libro» chiude Teresa Ciabatti «è un tentativo di sopravvivenza all’infanzia da parte di qualcuno che altrimenti avrebbe rischiato di rimanere lì. Il romanzo vero è proprio il non accaduto: quello che finalmente, scrivendo, prende una forma».

© Giovanna Amato

 


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