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Stefano Bortolussi, I labili confini, Interno Poesia, 2016

recensione di Carlo Tosetti

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Stefano Bortolussi, I labili confiniStefano Bortolussi, scrittore, poeta e traduttore, dopo Califia (Jaca Book 2014), ritorna nell’amata terra di California (Califia è il nome dato alla California da Cortés) con I labili confini (Interno Poesia Editore, 2016).
Il libro è diviso in due sezioni: la prima, La scelta del plantigrado (un noir in versi) è un atipico poema in ottave, nel quale il protagonista – detective – accetta l’incarico di ritrovare una ragazza scomparsa, tale Gazelle.
La seconda sezione, Di altri spiriti guida, è composta da sei poesie, che trattano di sei animali “in odor di sciamanesimo” (la Velella Velella è una colonia di idrozoi della famiglia Porpitidae), mantenendo l’intero libro immerso nell’atmosfera del culto dei nativi, scintilla e linfa anche al susseguirsi degli eventi narrati nella prima parte.

Lungi da me smentire lo stesso autore, ma la sottotitolazione della prima sezione, come “Un noir in versi” potrebbe disorientare un neofita lettore di Bortolussi: quanto proposto è molto di più. La poesia, a verso libero, narrativa, è una sovrapposizione, una commistione, di diversi mondi (natura, metropoli, mitologia, sciamanesimo), in un unicum fascinoso e fluidamente allucinato.
In alcuni passaggi, per la coloritura del testo, gli ambienti e i ritmi, sorge in me il ricordo del sax impazzito di Ornette Coleman, che musicò con Howard Shore il film Naked lunch di David Cronenberg (1991), trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di William S. Burroughs (1959), a dimostrazione della varietà di riferimenti e spunti condensati e risonanti da e con Bortolussi.
Qui si riversa la profonda conoscenza e passione dell’autore per questa terra, la California, che trova ragione anche nella sua affermata attività di traduttore di grandi scrittori americani (Bill Bryson, Don Carpenter, James Ellroy, Stephen King, per citarne alcuni). Vi sono echi poundiani mediati dal continuo e martellante tema della metamorfosi e, come già nel precedente lavoro, aleggia fra le pagine il nume di Walt Whitman.

Nell’approcciarsi alla lettura, sia la prefazione – a firma Roberto Mussapi (fra i due è vivo un sodalizio artistico) – che la poesia/introduzione dell’autore, ci avvertono che il libro è una germogliazione del precedente Califia:

Le sventurate imprese che di seguito si cantano
hanno un inizio che non è di queste pagine:
affonda le radici in terra di Califia
e nel libro che le è proprio, e narra
l’innato autolesionismo del plantigrado
che da detective e spione d’albergo
negli spenti corridoi del Marmont,
irretito da una rossa di miele d’acacia, 

prese troppo sul serio il proprio incarico […] (I Labili confini, p. 15)

È pacifico: il lettore, se già introdotto nel complesso labirinto intellettuale di Bortolussi, potrebbe avere delle chiavi di lettura utili a gettare luce su alcuni interrogativi, inevitabilmente stimolati dal nuovo lavoro, quando affrontato da digiuni.
Tuttavia, I Labili confini “ha vita propria” e – da certi rispetti – l’alone di mistero che ammanta lo scritto, infonde in esso compiutezza e “aderenza al titolo”; questa è la lettura che propongo, salvo poi invitare a dedicarsi alla precedente fatica, scelta credo consequenziale.
La California narrata da Bortolussi è infatti fortemente connotata da labili confini, nell’accezione più vasta del termine: il protagonista plantigrado è uomo o bestia? Oppure, è uomo che – opportunamente (o inopportunamente) stimolato, aggancia la bestialità, sacra nei culti sciamanici?

[…] facevo spola tra dentatura cariata
e zanna gialla, unghia trascurata
e artiglio curvo, andatura oscillante
e passo rilassato in dirittura, mutando
spesso quando meno lo volevo e almeno
una volta seminando il panico in seduta […]   (p. 17)

[…]  quando ciondolando la testa che mi pesa
poso lo sguardo sulla mia impronta
a pedinarmi, e quasi lancio un grido
ad avvertire me stesso di me stesso,
prima di realizzare non solo che urlo
non avrei bensì ruggito, ma anche che sono
quel che sono, o meglio che sono diventato, […]   (p. 32)

Diana, Dea italica e romana, che è raffigurata anche come protettrice degli animali (e il plantigrado del libro è ursino), che si circonda di ninfe, le usa, e della muta di cani di Atteone, nei pur evidenti aspetti simbolici (Hollywood adesca e sfrutta le ninfe-umane d’America, tenendole a servizio dopo mirata metamorfosi) non ha vincoli dimensionali, come da mitologia; dispone della materia umana e non, a piacimento:

Diana D., regina di notti e sale buie,
padrona di lune e proiettori, dominatrice
di trame, dispensatrice di sogni collettivi:
di lei si dice anche, ricordo mentre studio
il volto miracolato da forme sempre uguali,
che si circondi dei cinquanta segugi
del suo guardacaccia, che mosso da letture proibite
aveva osato affacciarsi alla jacuzzi della diva […]  (p. 29)

[…] prima che la diva ci chiamasse a sé,
illuminandoci di magia riflessa
e lusingando dei nostri sogni i più ingenui
per attirarci nella reggia a suo servizio,
ciascuna la sua nuova favorita a tempo,
scaduto il quale in base a suo capriccio
ci relegava in giardino, trasformate,
per prestare nefaste attenzioni alla seguente”. (p. 35)

E ancora, labili sono i confini naturali fra la foresta – dove i plantigradi schiumano bestialità voltolandosi negli abissi delle forre – e la metropoli, tanto che, concluso il percorso sciamanico in apertura del libro, la prima tappa del protagonista è un sudicio locale, dove il barista:

[…] si accinge
a miscelare whiskey angostura scorza e sudore
per produrre il peggior cocktail a ovest
della foresta di Los Padres […] (p. 20)

E passare dai balzi animali alla guida di un’automobile avviene senza esitazioni e ciò, nell’approccio che propongo, pare un percorrere all’inverso la filogenesi, un ricordo ancestrale di umanità:

Da questo momento all’azione il passo è breve
e naturale, anche per chi non sa bene se a farlo
sarà piede o zampa; di nuovo al volante
della Chiatta, come una fiamma ormai lontana
ribattezzò la mia Olds secolare, chilometraggio
infinito e sete atavica di unleaded, rullo
e beccheggio sul nastro di Mulholland
diretto verso l’atavico destino del detective, […] (p. 24)

Quale che sia il senso del finale, che ovviamente non rivelo, esso ripropone questa miscela d’Europa e America. La mitologia classica che compare, nodo importante del poema, viene dagli europei che approdarono sulle coste del nuovo mondo, e ciò consente di richiamare alla memoria i grandi percorsi iniziatici/poetici/letterari della vecchia Europa, scomodando persino Dante Alighieri, il quale ci insegnò come, per uscire a riveder le stelle, ed intraprendere un cammino di luce, sia necessario il passaggio all’Inferno; al lettore scoprire quale sia l’Inferno secondo Bortolussi, e quale il mondo migliore, se non addirittura il Paradiso.

La seconda sezione del libro, contenente poesie su animali/spiriti, mi vede piuttosto ottenebrato, forse non obbiettivo, per via di una simpatia indotta dal tema: io stesso scrivo spesso di natura, di animali e sovente li descrivo quando pagano il fio dell’incontro con la modernità, con l’uomo e il suo sogno (americano qui, ma universale), che in una tragica doppia identità, diviene incubo per il pianeta.
In questa sezione, il colibrì è ingannato “[…] calando ogni mattina alla fontana/ di pietre riprodotte e carezzate di muschio/ e ignaro prendendole per vere/nell’ombra indecisa della pergola: […]” (Calypte anna, p. 43).
In Odontaspis ferox (p. 48), dove la cernia assume nel tempo l’aspetto di una “[…] vecchia roccia branchiata che ha conosciuto/ mille esche e ha sputato quasi lo stesso numero/ di ami con uno sbuffo da ombroso antenato […]”, fatalmente, il cagnaccio, protagonista, abbocca al “[…] trancio slabbrato di sgombro/ apposto alla fine ricurva della lenza, l’amo/ a cui non appartiene sentimento […] ”.
La testa della renna reca il palco migliore: “[…] foresta/ vellutata e portatile come a riprodurre in minore/il proprio mondo, […]”, fra le teste appese degli ungulati, nella sfilata dei trofei (Ungulata, p. 51).

Riporto per la lettura l’intera Puma concolor (p. 46), una struggente poesia, perché il maestoso e fiero felino, totem del culto sciamanico e dei popoli nativi, cade dinnanzi al nemico nuovo, sconosciuto, sleale, addirittura insensato per la bestia: l’invenzione (il sogno) dell’umano.

                      A P-32

Non ti hanno lasciato diventare adulto,
i bisonti della strada lanciati nell’alba
verso il punto illusorio in cui i due lati
sembrano congiungersi dell’arteria
asfaltata che pompa a ciclo continuo
il sangue necessario alla nostra implacabile
avanzata in questa terra non più tua,
quelle duecento miglia quadrate che hai bisogno
di percorrere marcare reclamare
per incrociare il cervo che sostenta
la polla d’acqua che riflette
la foresta di Los Padres che accoglie,
nasconde e parla le mille lingue degli uccelli.
Travolto dall’acciaio lanciato lungo la mediana
che non ti poteva parlare o intimare la pausa,
l’attesa del passaggio di mandria ignota
e immangiabile, hai messo fine
senza neanche saperlo
alla tua epica di scatti e coraggio
di sfide alle cariche di mostri indecifrabili
di bocche lucenti con zanne tutte uguali
zampe nere roteanti
ruggiti costanti e monocordi:
un conto alla rovescia calcolato da nessuno,
nemmeno da coloro che senza sospettarne l’ironia
ti hanno dato una sigla numerica
che sembra appartenere più a un computo stradale
che animale: dalla 118 che valica il passo
di Santa Susana alla 101 di miti non tuoi,
dalla 26 che termina nel nome del pioniere
alla 23 che riconduce al mare
per incontrare la fine sulla 5
che avrebbe potuto incoronarti re dell’asfalto.
Così non è stato, e del mistero e portento
del tuo andare e venire ora non resta
che il percorso, ridicolo al confronto,
di questa penna sul foglio,
.                                        di questa nostalgia.

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© Carlo Tosetti

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