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Proust, ancora

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La Ricerca, con quell’ordine architettonico tutto suo, frutto di un’infinita elaborazione, di scomposizioni e ricomposizioni continue, è cattedrale poetica per eccellenza. Con un equilibrio trovato infine sull’idea dello stare. Fissando a lungo i giorni ordinari fino a vederli svanire nel loro rumore, il Passato, rinato nel silenzio di un attimo in mezzo al presente, ne prende improvvisante il posto, ed è lì vicino a noi, dopo tutta la distanza che da noi quello stesso silenzio aveva stabilito, seppellendolo nel Tempo.[1]
Un romanzo-pozzo, per così dire, dove non è difficile veder ristagnare, sul fondo, acqua mista a petrolio. Una volta cadutoci dentro, il lettore, come fosse uno sventurato cormorano, dovrà affrontarne l’inevitabile pericolo, divincolarsi, trovare una via d’uscita.
Sappiamo che più di un romanzo è un tout vivant l’opera di Proust: tra scavi e ritrovamenti, anche (e forse soprattutto) violenti, la grazia della sua osservazione, capace di permearne la scrittura, fiorisce sulla ferocia di un fardello che ha voluto implacabilmente assegnarsi, rispondendo così a una vocazione, il cui “racconto” in effetti è il fuoco centrale della Ricerca.[2]
Questo compito, immenso, generatosi in lui tramite un desiderio d’immortalità coltivato nell’arco di tutta una vita, andava assolto. Doveva ridurre, fino a eliminarla, la “distanza d’anima” fra tempo interiore e tutto ciò che fuori di lui (fosse semplice chronos[3] o spicciola materia o rassegna sociale in cui passano le esistenze) si consumava, pulsando con altra meccanica, lontana dal suo cuore.
Lo scrittore (più in generale l’artista, per meglio corrispondere al pensiero di Proust), grazie a un «istinto religiosamente ascoltato in mezzo al silenzio imposto a tutto il resto»,[4] deve essenzialmente creare, fedele soltanto alla sua verità più profonda, un linguaggio nuovo.
E proprio questo è il pozzo, il linguaggio, in cui si trova calato ogni possibile stile, ogni possibilità di visione. Proust ebbe la forza di crearne uno così puro e trasparente da poter “saldare tutti gli esseri”, consapevole che «l’unica cosa che conta è la profondità in cui si è riusciti a discendere anche attraverso le impressioni più frivole».[5] Serve soprattutto delicatezza per entrare nelle pieghe dell’essere, di ogni cosa, di ogni persona. Questo ribollire di “avventure, pettegolezzi, trame”, per riprendere una considerazione del poeta Valerio Magrelli,[6] esalta unicamente la preziosità del dettaglio, di ogni dettaglio che l’autore ha saputo scegliere ed evidenziare con cura. Questa è la via: scendere nel segreto di ogni piega e rappresentandone le infinite ombre svelarne la natura.
Scendere nel pozzo, dunque. Nel saggio Sulla Lettura,[7] Proust scrive: «E in effetti è proprio questa una delle grandi e meravigliose caratteristiche dei bei libri (e che ci farà capire il ruolo insieme essenziale e limitato che la lettura può assumere nella nostra vita), che per l’autore essi potrebbero chiamarsi “Conclusioni” e per il lettore “Incitamenti”. Sentiamo proprio che la nostra sapienza comincia dove quella dell’autore finisce, e vorremmo che ci desse delle risposte laddove tutto ciò che può fare è fornirci dei desideri […] una legge strana, e peraltro provvidenziale, dell’ottica degli spiriti (legge che significa forse che non possiamo ricevere la verità da nessuno e che dobbiamo crearcela da soli)…».[8]
Per Proust la lettura è una forma pura di amicizia, in grado di regalare tranquillità, grazie all’esercizio della pazienza e a un ascolto prolungato, proprio come tra amici che vogliano confidarsi. E aggiunge: «L’atmosfera di questa amicizia limpida è il silenzio, più puro della parola».[9] Ancora Magrelli, riflettendo e scrivendo sul tema della lettura, ricorda una bellissima pagina del V secolo che racconta lo stupore di Sant’Agostino nel trovare il maestro Ambrogio intento a leggere sottovoce, senza pronunciare una parola, mentre all’epoca la lettura a voce alta era di rigore. È la “crudeltà” della lettura: una persona vede un’altra leggere in silenzio, e leggendo la esclude. Tutto il significato del leggere, ossia popolare la solitudine, si concentra in quest’esclusione.[10]
Con la lettura, quindi – e a maggior ragione con la scrittura – si tenta in fondo di riconoscere e superare il limite di se stessi. È il fuori-di-noi a guidarci tra le pagine, per trovare una nuova “possibilità di noi” che potremmo addirittura azzardarci a chiamare “verità”. E ancora una volta Proust viene in soccorso: «[…] la verità, – scrive – concepita ancora come qualcosa di esteriore, è lontana, celata in luoghi non facilmente raggiungibili. E allora sarà magari un documento segreto, delle lettere inedite, delle memorie, a gettare una luce inattesa su certi aspetti difficili da rintracciare. Che felicità, come è riposante per una coscienza stanca di cercare la verità in se stessa, potersi dire che essa si trova all’esterno…».[11] Affondare, approfondire; per trovare, finalmente, e poi risalire.
Ora, ci si chiede: cosa continuerà a vivere di molti Autori? E, addirittura, la lettura stessa continuerà a esistere? La lezione di Proust, a fronte di queste domande, ha valore ancora oggi, è attuale, contemporanea. Oggi che “Viviamo più a lungo,/ ma con minor esattezza/ e con frasi più brevi”, nell’orizzonte di tanto che troppo velocemente si consuma, idee a sciami che sono solo di passaggio e fatti che diventano per un po’ notizia per poi sparire improvvisamente da quello stesso orizzonte da cui si sono affacciati,[12] l’insegnamento più prezioso di Proust è la lunga durata, il “per sempre” nato dalle sue pagine.
Ecco per intero l’inconfondibile ironia di Wisława Szymborska nella poesia intitolata Del non leggere:[13]

In libreria con l’opera di Proust
non ti danno un telecomando,
non puoi cambiare
sulla partita di calcio
o sul telequiz con in premio una volvo.

Viviamo più a lungo,
ma con minor esattezza
e con frasi più brevi.

Viaggiamo più veloci, più spesso, più lontano
e torniamo con foto invece di ricordi.
Qui sono io con uno.
Là, credo, è il mio ex.
Qui sono tutti nudi,
quindi di certo in spiaggia.

Sette volumi – pietà.
Non si potrebbe riassumerli, abbreviarli
o meglio ancora mostrarli in immagini?
Una volta hanno trasmesso un serial, La bambola,
ma per mia cognata è di un altro che inizia con la P.

E poi, tra parentesi, chi mai era costui.
Scriveva, dicono, a letto, per interi anni.
Un foglio dopo l’altro,
a velocità ridotta.
Noi invece andiamo in quinta
e – toccando ferro – stiamo bene.

Grazie alla sua opera, il suo essersi fatto specchio per riflettere la vita, possiamo continuare a leggere noi stessi. Silenzio, sonno, e sogno. Perché la memoria possa tornare e agire, sapendo che ricordare è creare.[14]

Cristiano Poletti

 

[1] Silenzio contrapposto al rumore, come in un sogno tra sonno e risveglio, l’uno pendant dell’altro nel farsi metafora di morte e resurrezione del Tempo. Il contrasto al rumore fu anche strenuamente cercato in vita da Proust: se celebre è la sua camera da letto nell’appartamento al 102 del Boulevard Haussmann, foderata in sughero, si veda anche, a proposito di questo contrasto, Lettres à sa voisine, a cura di Gaudry e Tadié, Gallimard, 2013.
[2] G. Deleuze, L’immanence: une vie…, in Philosophie, n. 47, 1995. Ne Il Tempo ritrovato, sulla soglia della rivelazione che l’opera d’arte è l’unico mezzo per ritrovare il Tempo perduto, Proust scrive: «Così tutta la mia vita sino a quel momento avrebbe e non avrebbe potuto essere riassunta sotto il titolo: Una vocazione». Tra le traduzioni di Proust, si ritiene preferibile quella di Raboni, poeta di cui è ricorso nel settembre di quest’anno il decennale della scomparsa.
[3] In contrapposizione al kairos.
[4] Ne Il Tempo ritrovato; concetto ripreso e allargato in Proust, L’opera, la vita, la critica, di Jean-Yves Tadié, 2003.
[5] Proust, L’opera…, cit., p. 41.
[6] «Fu il primo libro che lessi in vita mia in francese; sono entrato da Proust nella letteratura francese», ha avuto modo di dichiarare Magrelli in un’intervista.
[7] Nell’edizione Passigli del 2007 con titolo Del piacere di leggere. Traduzione di Maria Cristina Marinelli.
[8] Ibidem, pp. 33-34.
[9] Ibidem, p. 49.
[10] V. Magrelli, La lettura è crudele, Edizioni d’if, 2009, di cui una parte è poi confluita ne Il sangue amaro, Einaudi, 2014. “Nel leggere, i suoi occhi correvano sulle pagine e la mente ne penetrava il concetto, mentre la voce e la lingua riposavano”, recita la prima delle due citazioni che introducono l’ipertesto.
[11] Del piacere di leggere, cit., p. 40.
[12] Tornano alla mente questi versi di Eliot, da Choruses from the Rock, del 1934: «Where is the wisdom that we have lost in knowledge? / Where is the knowledge we have lost in information?».
[13] Tratta dalla raccolta Qui, del 2009 (traduzione di Pietro Marchesani).
[14] C. Rozzoni, Ricordarsi è creare, L’essenza estetica della Recherche di Marcel Proust, Mimesis, 2008. Mirabili, ne Il Tempo ritrovato, questi passaggi: «L’arte vera non sa che farsene di tanti proclami, e si compie in silenzio». E ancora: «I veri libri devono essere figli non della luce e delle chiacchiere, ma dell’oscurità e del silenzio».

3 risposte a “Proust, ancora”

  1. Bel pezzo, questo di Cristiano. Il pozzo che contiene tutti gli stili possibili. La struttura reticolare, ipotattica, di Proust somiglia davvero alle strade di Parigi. La limpidita’ complessa, miracolo dell’equilibrio. Gianfranco.

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