di Luciano Mazziotta
Si è già detto in altre occasioni che il 2013 è stato un anno di grande pubblicazioni e ristampe. Se, per esempio, la Mondadori si è dedicata alla pubblicazione di importanti Oscar, come quello di Nanni Balestrini, case editrici più specialistiche hanno mostrato il mai cessato interesse per il romanzo sperimentale, e soprattutto per quegli atti del convegno di Palermo del 1963, che raccoglievano tutti gli interventi della neoavanguardia nell’ambito della narrativa: per l’Orma infatti è uscito Gruppo 63. Il romanzo sperimentale. Col senno di poi.
A fianco, però, dell’interesse per il dibattito, cosa che ha sempre appassionato tutti gli ammiratori dell’ultima avanguardia storica del Novecento, va rilevata una mancanza di circolazione della letteratura primaria. Ancora introvabili restano i grandi classici della narrativa sperimentale di quegli anni. Vero è che Il giuoco dell’Oca di Sanguineti è rintracciabile, se pure con un po’ di sforzo. E vero è che, grazie, innanzitutto, alla casa editrice DeriveApprodi, anche i romanzi di Nanni Balestrini sono rimasti nel circuito. Pure l’opera di Corrado Costa può essere sfogliata, grazie soprattutto all’interesse di Marco Giovenale e Mariangela Guatteri, che, nell’ambito del gruppo GAMMM, e poi per la casa editrice Benway, hanno ristampato, e (prima, con estrema fatica) trascritto L’educazione sentimentale dello scrittore dell’autore sopraccitato, testo dedicato al “miglior mugnaio”, ovvero Adriano Spatola. È pur vero però che, al momento, a fronte di questi interessi, resta comunque molto difficile avere la possibilità di leggere testi come Partita di Antonio Porta, oppure, cosa di cui si parlerà in particolare in questa pagina L’Oblò di Adriano Spatola. Se “si ristampi” è il titolo della rubrica che abbiamo deciso di inaugurare, l’invito è tautologico: Adriano Spatola, L’Oblò, la cui unica edizione è del 1964 per le Comete Feltrinelli, si ristampi!
Tutta l’opera di Adriano Spatola, differentemente dagli autori della prima ondata dei Novissimi, è difficilmente reperibile. In Italia è uscita l’anno scorso un’edizione semi-pirata che raccoglieva tutte le sue poesie. Ma se si vuole attingere all’opera omnia commentata bisogna andare oltreoceano, dove Beppe Cavatorta e Paul Vangelisti si sono dedicati alla traduzione in inglese di tutte le poesie, con una introduzione che restituisce il senso ed il percorso dell’autore.
L’Oblò nonostante tutto rimane ancora non una Cometa: una chimera, in verità, per chi ha la pazienza di contattare le librerie antiquarie, che, comprensibilmente, trattano questo romanzo come un reperto archeologico di valore incommensurabile: i prezzi dell’unica edizione del romanzo variano dai 70 ai 150 euro. E non si può dare torto a chi con estrema fatica è riuscito a conservare questo capolavoro degli anni ’60.
E parlo di capolavoro, perché Spatola uscì con questo libro a soli 23 anni, anticipando, oppure mettendosi in fila con la grande narrativa sperimentale del secondo dopoguerra. Tutto il libro è un piccolo capolavoro. Dalla copertina, che riproduce l’interesse di quegli anni per le tecniche del montaggio e per la pop-art, alla quarta di copertina, che sbalordisce per la sua cura e profondità: non una summa del libro; non uno spot pubblicitario, con sottinteso un “accattativillo”, degno del prosciutto Parma, ma un vero e proprio saggio-recensione, con tutta la complessità che un genere come questo richiede:
“L’Oblò è una carta geografica priva di uno dei lati, cosicché da una falla che si apre nella diga dell’ordinata rete di meridiani e paralleli (una rete, fra l’altro, che imprigiona il mondo) fuoriescono violentemente i materiali eterogenei che il fiume della storia ha raccolto e ingerito durante il suo corso.”
Addentrandoci nel libro, scopriamo, delle affinità con un’altra grande opera degli anni 60’ l’Hilarotragoedia di Giorgio Manganelli, benché non sia possibile stabilire criteri di filiazione, in quanto probabilmente il Manga aveva già pronto il suo testo nel 1959.
Innanzitutto sbalordisce l’incipit “dispersivo” ed alienante, incluso nel sottoparagrafo “Riassunto delle puntate precedenti”, che si ripeterà nel corso della narrazione, in cui si parla di un ipotetico personaggio che nasce più volte: in una soffitta del XVIII secolo, al margine di un’autostrada, da una madre messa sotto un tram o morta mentre faceva i conti della spesa, o ancora durante la seconda guerra mondiale. Tutto ciò avviene in un percorso a ritroso che inverte tutte le carte della generazione: non dalla vita alla morte, ma al contrario, dalla morte alla vita, o “per partenogenesi”, come lo stesso metodo narrativo.
Sembra che nell’Oblò Spatola abbia voluto utilizzare un metodo narrativo in cui le frasi inseguono le frasi, in una quasi allegoria della contemporaneità. Non c’è conseguenza logica effettiva tra ciò che una proposizione anticipa e la sua prosecuzione. Non c’è linearità. Le frasi si susseguono come nel mondo caotico, evitando ogni tipo di spezzettamento della realtà.
Qui l’importanza del testo anche in relazione al rinato interesse per la prosa in ambito poetico: l’annientamento della linearità e della narrabilità di una storia. Spatola, fingendo la narrazione, in realtà, non racconta nulla. Monta le frasi e le smonta. Facendo allegoria del moderno non tanto l’argomento della narrazione, ma il modo di dire i fatti. O i non-fatti.
Tutti i personaggi, del resto, possono essere una cosa e contemporaneamente un’altra, in un gioco di trasformazioni e mutazioni, come si notava relativamente alle condizioni della nascita di Guglielmo, nome, più che personaggio, che torna in modo ossessivo nel corso testo. Possono nascere mentre muoiono, ma anche al contrario.
“Sarebbe scomparso nel mareggiare degli eventi, nel travaglio della storia: si sarebbe consumato dentro buie cantine allagate, in pozzi neri sventrati, in meandri di fognature sventrate, in canali, in fiumi, in ruscelli, in pozzanghere, in laghi. Sarebbe caduto, pioggia, in trincee del quindicidiciotto, in fosse comuni del quarantatré. Fango, sarebbe stato calpesatato, esarebbe nella lenta evaporazione splendente nube risorto, colomba della luce.”
A fianco di splendidi pezzi lirici come questo, il lettore che volesse, approssimativamente, farsi un’idea del libro, sfogliandolo, viene ingannato dall’autore. In effetti i paragrafi in cui il “romanzo” è suddiviso sembrano riprodurre un’idea di narrazione. Però, nel momento in cui si approfondisce la lettura, questo inganno è svelato: non c’è linearità che tenga. Non ci deve essere narrazione dei fatti. Non c’è inizio e conclusione e i personaggi stessi compaiono e scompaiono nell’arco di tre righe con grandissima scioltezza, perché l’unico interesse sembra quello di svelare la finzione del discorso narrativo.
Come i Novissimi si prefiggevano di superare le, per loro, “indigeste” tensioni “stanco-crepuscolari” della poesia degli anni ’60, la narrativa mostra dunque, più di cinquant’anni fa, che la nostra avanguardia stava sperimentando qualcosa che ci portiamo ancora addosso: la fine della storia, e con essa la fine della sua narrabilità.
L’urgenza di una ristampa dell’Oblò dunque non sarebbe funzionale esclusivamente agli addetti ai lavori. Agli specialisti di critica letteraria come documento. Si tratta di un libro-cardine, piacevole da leggere, nonostante la complessità dell’opera, ma che segna una svolta epocale. Se Retro di Corrado Costa può essere considerata la poesia-cardine che indica la fine del concetto di “necessità” nell’ambito della poesia italiana contemporanea, L’oblò potrebbe avere avuto lo stesso ruolo nell’ambito della narrativa…e della prosa.
2 risposte a “Si ristampi #3: Adriano Spatola “L’oblò””
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[…] post pubblicato in origine il 13/10/2014 a cura di Luciano Mazziotta (per la rubrica “Si […]
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