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Infinite quest: Altre stanze – Other rooms, l’intervista a Vanni Santoni

Domanda e risposta: due entità complementari, eppure l’una genera l’altra, in un interscambio potenzialmente infinito, mai esausto, mai uguale a se stesso. La sintesi dell’incontro, il binomio preferito della conoscenza. E della curiosità.
“Intervista” è solo il nome che ne racchiude l’atto e l’intenzione ma, in questa rubrica, protagonista sarà il dialogo – l’incontro – lo scambio. 
Esseri umani che hanno una visione e che si sono imbattuti nel proprio labirinto personale. Perdersi significa anche attraversarlo. E magari raccontarlo.

Creatività, arte, progetti, riflessioni, esperienze e uno sguardo rivolto al futuro, in quell’orizzonte  magnetico che è la parola.

Giulia Bocchio

 

Mi diceva che la vera poesia fra un po’ non si farà più con le parole. Diceva che la bellezza glaciale della perfetta significazione dei simboli non verbali inventati dall’uomo e della loro relazione attraverso regole su cui ci si è messi d’accordo arriverà pian piano a rimpiazzare prima la forma e poi la materia della poesia. Dice che sta morendo un’epoca, e che lui ne sente il rantolo. Tutto questo ce l’ho scritto nelle lettere che mi ha mandato.

David Foster Wallace, Da una parte e dall’altra

 

 

 

Other rooms / Altre stanze (Le Lettere), di Vanni Santoni, è un progetto particolare, metaletterario e dunque tentacolare. Sarà disponibile online e in libreria dal 3 marzo.
Oggi non è il 3 marzo. Non ancora. E allora come provare a raccontarvi questo labirinto di stanze che si susseguono, l’una dopo l’altra, nell’impossibilità fisica e tattile di poter sostare davvero in ognuna di queste asfittiche e immense rooms?  Le opzioni sono potenzialmente infinite, perché squisitamente personali, ma sono certa che qualcuno potrebbe sentirsi un po’ come doveva sentirsi il capitano Torquemada – protagonista di un certo romanzo di Mari – immobilizzato e per di più nel mezzo di una maledetta bonaccia, lì a farsi raccontare ‘il fuori’, che è poi il dentro di qualcun altro, in base a come te lo (de)scrive.
Non c’è un nocciolo della questione, la poesia – qualsiasi forma tu voglia darle –  è qualcosa di potente se ami generare scorci per il tuo dentro: un’illusione prospettica dopo l’altra ed ecco che, come chiamati a raccolta, i ricordi, i linguaggi, gli autori morti&viventi, gli spettri e gli immaginari danno vita a un intreccio nuovo, come a dire: scegli una stanza e apriti dentro. 

 


Giulia Bocchio: Vanni, bentrovato. Questa volta ci ritroviamo a parlare di poesia e linguaggio. Altre stanze è una raccolta molto particolare: nasce in lingua inglese e trasforma il verso in una sorta di attraversamento onirico di spazi e immagini mentali. Ognuna di queste stanze racchiude un vissuto, un elemento, un universo che potrebbe risucchiarci oppure escluderci del tutto. Pagina dopo pagina ti rendi conto che non stai solo leggendo, stai spiando dal buco della serratura…
Com’è nata quest’idea così metaletteraria?

Vanni Santoni: Buondì, il piacere è tutto mio. L’idea di Other rooms / Altre stanze, o forse è più preciso dire di 999 rooms, questo il nome del progetto originario nato in rete (e ancora in corso d’opera), che prevede appunto 999 stanze, di cui il libro appena uscito per Le Lettere presenta le prime 198, nasce nel marzo 2011, quindi dodici anni fa. In quel momento sentivo che si avviava alla conclusione un altro progetto di testi brevi, sebbene perlopiù non poetici, Personaggi precari, di cui sono uscite tre versioni in volume, rispettivamente nel 2007, 2013 e 2017, e non volevo abbandonare né la forma breve, né l’abitudine, che reputo salubre per uno scrittore, di avere un progetto laterale non vincolato da scadenze o contingenze editoriali. Così passai dalle persone ai luoghi, dalla prosa alla poesia e dall’italiano all’inglese. Se la prima scelta si spiega da sola, le altre due meritano qualche parola. Da ragazzino, quando non immaginavo minimamente che di mestiere avrei scritto, mi appassionai alla letteratura grazie all’antologia d’inglese del liceo, che essendo un volume valido anche per gli anni successivi includeva una selezione molto vasta di testi: avendo la fortuna di sapere già la lingua, mi portai avanti per conto mio e scoprii autori come Blake, Coleridge, Yeats, Owen, Eliot, Plath, Ginsberg Cummings, Walcott (ecc.), che mi fecero esplodere la testa. Fu lì, anche grazie all’immediatezza visionaria di quei testi, che capii quanto la letteratura potesse essere potente. Da allora sono rimasto un lettore affezionato di poesia inglese e americana, e dunque se c’era un modo per me di parlare in versi, non poteva che essere in inglese. 999 rooms nasce quindi come omaggio, nonché come esperimento, visto il largo uso del mash-up, del cut-up, della scrittura automatica, del sogno e della visione – e anche in tal senso, dato che avevo scoperto la visionarietà letteraria in inglese (citerei anche le filastrocche di Carroll, ma pure i “luoghi” dei videogiochi dell’epoca d’oro di PC e Amiga, che erano quasi sempre non tradotti), usare tale lingua è venuto naturale. Poi, come sempre accade con qualunque progetto di scrittura, andando avanti, di blocco in blocco (le rooms si organizzano per blocchi lassamente tematici da 33 stanze), ho “capito” cosa stavo facendo e trovato anche direzioni nuove e più chiare, sottotracce narrative, filoni e leitmotiv vari, come è facile notare leggendo questo volume.

G.B: Tra i latenti riferimenti poetici e letterari che si celano fra una stanza e l’altra, questa tua raccolta mi ha ricordato la misteriosa impresa di un personaggio iconico del romanzo La stiva e l’abisso, di Mari: Emanuele Torriani, la cui testa è il luogo di ogni distanza, e che tra un pesce implicito e l’altro costruisce un mondo inesprimibile all’intero di una Batispecola: me le immagino tutte lì dentro le altre stanze…

V.S.: Non c’è bisogno di essere uno gnostico per sapere che l’universo è anche dentro di noi. Ma non sempre è fatto di mari sognanti, della luna, del sole e delle stelle: a quel “livello” bisogna arrivarci, e la strada che conduce lì è evidentemente un labirinto. Ma i labirinti, o i dungeon, possono includere anche stanze del tesoro e Wunderkammer, non solo covi di mostri o sale di tortura. Ed eccoci già dentro… Nella stiva, appunto, o nell’abisso. 

G.B.: Un aspetto interessante è quello della doppia esistenza di ciascuna stanza: il tuo lavoro di traduzione-specchio non è solo una guida alla lettura: riflettendoci, ha in realtà ampliato le versioni possibili delle rooms. A partire dal suono di certi passaggi. Che ne pensi?

V.S: Su questo aspetto preferisco essere cauto, perché non sono un traduttore di poesia, e so quanto complesso sia quel lavoro. Come è logico (e pure giusto), i curatori della collana novecento/duemila, Diego Bertelli e Raoul Bruni, hanno voluto che per un libro che sarebbe andato anzitutto sul mercato italiano, ci fosse anche il testo italiano a fronte, o ci saremmo giocati due terzi dei lettori; così, hanno chiesto a me di tradurre e l’ho fatto, ma non essendo appunto un traduttore ho scelto di tradurre alla maniera di una “guida di lettura” – ad esempio mantenendo gli a capo originali in italiano anche laddove non si sarebbe mantenuta la metrica, così che il lettore non anglofono avesse maggior facilità di riferimento. Per questo, considero il “vero testo” solo quello inglese, anche se i curatori la pensano in modo diverso da me, e ravvisano (come te, mi pare), una dialettica tra i due testi. Sono felice che ci sia, se c’è, ma da parte mia preferisco il pudore, anche perché ci sono molte cose intraducibili, come i doppi sensi (si pensi, solo per citare due esempi dei più semplici, a bloody, che vuol dire sanguinoso ma è anche un’imprecazione, o a sandbox, che vuol dire sabbiera ma indica anche un tipo di videogioco in cui si possono creare mondi o livelli a piacere), e altre la cui soluzione non è scontata, come le citazioni: quando riporto un verso di Eliot o Plath, nella versione italiana ritraduco io, o riprendo la traduzione italiana di riferimento? Questioni complesse, rispetto alle quali ho preferito l’approccio più trasparente tra quelli a disposizione. A questo scopo riporto qui (chiedendo venia per qualche ripetizione del già espresso) la seconda metà della nota finale che ho apposto nel libro: “La traduzione italiana è mia, e non essendo io un traduttore di poesia, è da intendersi come una sorta di guida alla lettura” per chi non conosce, o conosce poco la lingua inglese. Va da sé che molti elementi – scelte metriche e di suono, doppi sensi, riferimenti intertestuali, citazioni, sono reciprocamente perduti; per chiarezza di riferimento si è altresì scelto di mantenere gli a capo originari a dispetto di quel che imporrebbe una eventuale metrica italiana. Per questo chiedo venia al lettore non anglofono e a quello non italofono, e allo stesso tempo invito entrambi a compiere il proprio percorso, incrociandolo là dove possibile e desiderato”.

G.B.: In queste stanze ci sono le tracce che hanno lasciato alcuni personaggi dei tuoi romanzi?

V.S.: No, come per Personaggi precari, quando lavoro sulla forma breve scelgo deliberatamente di non incrociare niente. Non si può incrociare tutto, e dato che la maggior parte dei miei romanzi sono già intrecciati tra loro – Gli interessi in comune, Muro di casse, La stanza profonda, L’impero del sogno, I fratelli Michelangelo e La verità su tutto formano infatti un’unica continuity, a cui si aggancia pure la saga di Terra ignota – credo sia saggio mantenere separati questi progetti di natura così differente, o si rischia la compiacenza.

G.B.: La descrizione di alcune stanze, fra sintesi e aggettivi mirati, stimola molto l’immaginazione personale di ogni lettore o lettrice. Io, per esempio, ho provato a trasformarle in immagini vere e proprie utilizzando Midjourney…

V.S.: Voglio vederle!

Room 16 + Midjourney : In room 16, mirrors and rags abound.

G.B.: Alcune rooms hanno restituito un risultato suggestivo, perché le loro caratteristiche potrebbero benissimo essere utilizzate come prompt, per una creazione continua di figure e parole possibili. L’interazione fra A.I. e arte è molto interessante e complessa: qual è la tua pozione a riguardo?

V.S.: Midjourney e in generale le A.I. “text to image” mi hanno affascinato da subito, e sono stato tra i primi a pubblicare fumetti così realizzati (in effetti pare che Un romanzo per l’A.I., uscito sul “Corriere della Sera” ai primi d’agosto 2021, sia il primo in assoluto anche fuori dall’Italia), come ad esempio Il destino dell’errante, uscito sull’Indiscreto (rivista da subito attenta al tema, anche grazie al lavoro sia grafico che saggistico del suo direttore Francesco D’Isa) con riscontri interessanti nonostanti i molti glitch dell’A.I. (o forse anche grazie a quelli!), che per coerenza ho deciso di non ritoccare. Certo, lavorare con l’A.I. implica un processo creativo del tutto differente da quello che si ha con un disegnatore umano: Midjourney risulta molto debole se si cerca di “piegarlo” a desiderata molto specifici, come è prassi in una sceneggiatura di fumetto, mentre mostra il suo reale potere lanciandogli suggestioni e divertendosi a guardare cosa esce, cercando insomma l’inaspettato. Così, scrivere una storia con tale strumento assomiglia più a surfare su un’onda che a dare indicazioni a un artista. Per ottenere risultati interessanti si deve sì saper imbeccare l’A.I., ma soprattutto va seguita, cavalcandone i sogni. Ciò detto, per me che sono scrittore e non illustratore (illustratori di cui ben comprendo le preoccupazioni), Midjourney è soprattutto un gioco divertente, non molto di più; e infatti Chat GPT, che vorrebbe invece riprodurre testi, mi ha lasciato piuttosto indifferente. Certo, visti i debiti che il mio progetto ha con l’informatica, la scrittura “generativa” e i primi videogiochi, in cui spesso la forma-labirinto era dettata da limiti tecnici ma non per questo risultava meno evocativa e, a volte, perturbante (penso ad esempio Rogue, a cui non per caso è dedicata una delle rooms più lunghe, la numero 187, quella con le varie lettere dell’alfabeto che indicano i mostri del dungeon), non potevo non far fare una “stanza” a Chat GPT – eccola qua – ma, per quanto coerente, non si può non notare che si tratta di un testo interessante solo perché scritto da una macchina e inserito nel quadro di un lavoro umano più ampio. In effetti, a pensarci, ciò che risulta più affascinante di Midjourney e delle altre A.I. disegnatrici, è il modo in cui “sbaglia”, ovvero il modo in cui, cercando ponti tra le indicazioni, se ne esce con soluzioni inattese e spesso bizzarre: per farci cose davvero interessanti, MJ va piegato all’assurdo (o almeno all’eerie): qualcosa che in un lavoro testuale, stanti i vincoli grammaticali e semantici, risulta evidentemente più complesso. Per il resto, rimando chi è interessato al tema “macchine che scrivono romanzi” (o poesie) a questo articolo di Gregorio Magini che, per quanto vecchio di sei anni, mi pare ancora il più significativo scritto finora in merito. 

 

Infinite quest
una rubrica a cura di Giulia Bocchio

2 risposte a “Infinite quest: Altre stanze – Other rooms, l’intervista a Vanni Santoni”

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