Dodici racconti di sangue e placenta, di lenzuola zuppe, pance svuotate, fecondazioni non richieste, figli tragici; pagine che raccontano storie di tormento femminile, di tradizioni che spesso non hanno nulla a che fare con con la dignità e la consapevolezza del corpo delle donne.
Donne sempre subordinate al proprio grembo, all’antico patto sociale che prevede per loro un solo ruolo: la gestazione. Guai non desiderarla, sarai maledetta se non ti dimostrerai all’altezza.
Le doglie vere, quelle dell’interiorità più profonda, non si esauriscono con la messa al mondo di un figlio: le speranze, le aspettative, l’amore, l’attaccamento, la sessualità si trasformano in un coagulo di vicende millenarie, cronache private senza tempo che nella forma del racconto esprimono un ampio ventaglio di colori, riferiti all’oscurità di un tema complesso, che ci riguarda tutte, prima o poi.
Mostruosa maternità (Giulio Perrone Editore), di Romana Petri, è un libro feroce e toccante, ma anche malinconico, perché delicato come certe cuffiette battesimali, poste sul capo di un essere umano di cui non sapremo mai nulla davvero.
Di seguito proponiamo uno dei dodici racconti contenuti all’interno della raccolta.
Ringraziamo Giulio Perrone Editore e Romana Petri per la gentile concessione.
Il vino profumato
Campogalliano (Modena), 1963
Lo dissero loro, i dottori. Dissero: «Non parla per volontà sua e per volontà sua non sente».
«Allora non è malata!» gridò l’Esterina mentre correva dietro alle nostre altre tre figlie. «Non è malata e fa finta!».
Si misero a ridere, i dottori, e risposero sbrigativi che era una malattia pure quella, una malattia senza corpo, che se ne stava tutta aggrovigliata nei pensieri della testa.
Offrimmo a quei dottori di passaggio il vino profumato dell’Esterina, e quelli andarono avanti solo per un poco, solo a ricambio di gentilezza, ma dicendo cose che pace non ne davano davvero. Dissero che persone tali e quali a quella figlia nostra ogni tanto ne nascevano, gente che ce l’aveva dentro il taglio con il mondo e che rimedi per farli diventare come tutti gli altri ce ne stavano soltanto nelle storie raccontate all’Assunzione.
«Bene» disse l’Esterina «ci andremo pure noi a sentire una di quelle storie e ce la porteremo dietro così che sarà bella e guarita».
Si fecero cenno tra di loro e poi ridemmo tutti insieme a conclusione di quel breve incontro.
Ciò che fu difficile per me, dopo, fu spiegare all’Esterina che quella storia lì dell’Assunzione era una storia e basta, detta solo per fare allegria al vino profumato che avevamo offerto.
All’epoca, la figlia nostra non era che una bambinella, e l’Esterina già una vecchia legata a lei dalla stranezza di un parto fuori tempo e dal fatto strano del vino profumato che venne fuori per la prima volta con quel sapore forte di molti fiori proprio con la nascita di Antonia.
L’Esterina, dopo essersi sgravata, volle alzarsi già il giorno dopo, per la vendemmia.
Disse: «Non ne ho mai mancata una in vita mia, e non manco nemmeno questa».
Quello era il giorno dell’anno che qualcuno veniva dalle nostre parti, ma erano solo donne, parenti dell’Esterina che saltavano tutte insieme a piedi nudi nella grande tinozza, dove pigiando con i loro piedi storti e callosi si davano a canti lunghi, pieni di passione.
Di donne belle io non ne ho viste mai, l’Esterina è stata sempre brutta e più vecchia di me di quindici anni. Subito sfatta da parti uno dietro l’altro. E quelle parenti che venivano erano tutte della stessa razza, con le bocche sdentate e le rughe profonde scavate nella pelle che sembrava essersi spaccata in un prosciugamento scuro, quasi livido. Le nostre figlie erano tutte come loro già fin da bambine, tutte tranne Antonia che era nata tanto bella da somigliare a quei dipinti che si vedono solo nelle chiese.
Me la ricordo bene quella giornata di cielo limpido, dove la brezza che veniva dal mare correva libera, senza l’ostacolo delle nuvole. Dalle colline nostre il mare si vedeva come fosse una pianura azzurra e immobile.
Quella volta fu una sorella dell’Esterina a indicarlo con una mano interrompendo uno dei loro canti.
«Sembra un deserto!» gridò. «Un deserto azzurro». Si fecero tutte zitte e si unirono tra di loro con le grandi gonne arrotolate intorno ai fianchi, le gambe immerse in quel pastone viola. Poi, d’istinto, si voltarono verso l’Esterna col desiderio di rompere il silenzio per farle
festa. Ci sono cose che il tempo non cancella, quel giorno stavano zitti pure gli uccelli, me lo ricordo bene, volavano con poco movimento d’ali e poi, prendendo quota, sembravano sparire.
Se ne andarono tutte quando calò il sole, e noi restammo in quella strana quiete, l’Esterina con un gran dolore nella schiena per tutto il faticare della giornata, e Antonia nata da poco che dormiva beata, cullata dalle tre sorelle.
Fu un prendere sonno facile in quella bella notte stellata di silenzio, e per respirarne tutta la dolcezza lasciammo la finestra aperta, mentre con ritmo regolare ascoltavamo il poppare placido di Antonia attaccata al seno.
Lo capimmo quando venne il tempo suo che il vino nostro era cambiato in nettare, e fu cosa che apprezzammo con semplicità, senza badarci troppo. Da quel giorno in poi, così come nostra figlia Antonia restò muta e sorda alla pochezza della vita che potevamo offrirle, così
il vino replicò ogni anno il suo profumo che lo rese sempre più simile a smielatura che a vendemmia.
Me ne accorsi io che ero più giovane dell’Esterina e meno stanco. Fu quando Antonia aveva compiuto da poco i quindici anni, durante un inverno tanto tiepido che sembrava primavera. La vidi scendere le scale del casolare e mettersi seduta sui gradini ruvidi e affaticarsi nel respiro come in un’allegria data dall’aria, e poi farsi pallida, ma anche tanto bella. Le andai vicino e a inizio di discorso le sorrisi, un modo nostro per comunicare che non c’era gravità nell’argomento, solo volontà di scambio di pensieri. Le indicai il cielo, e col movimento obliquo di una mano le feci un segno stabilito che per significato aveva la bellezza limpida e tiepida di quell’aria senza tempo. Antonia mi sorrise, e reclinando il capo sulla destra mi fece capire che potevo andare avanti e chiederle quello che avevo in testa. Aiutato da un linguaggio semplice fatto con le mani e contorcimento della bocca, le domandai se aveva mai incontrato qualcuno che non eravamo noi della sua famiglia, e se con tale persona si fosse mai appartata e da simile incontro avesse tratto qualche spavento.
Mi guardò facendosi scura in volto per lo stupore di quanto non capiva, e prese a rispondermi affrettatamente con silenziosi gesti tutti in convulsione che terminarono poi in quello che avevo fatto io per primo, quando volli indicare bellezza limpida e tiepida aria senza tempo, e che lei imitò con tenerezza di intenzione a dimostrare aria uguale a vuotezza dell’incontro che non aveva fatto, assoluta assenza.
Le dissi ancora che presto, però, sarebbe diventata madre, ne ero certo, e che questo accade solo a chi si incontra con qualcuno. Gliene mostrai la prova accarezzandole il ventre e spiegandole che lì dentro c’era un figlio suo e di chissà chi altri. Scosse la testa Antonia e alzò le braccia a indicare nessuna conoscenza delle cose che dicevo.
La lasciai stare e tenni per me il segreto, sperando sempre in un errore mio e nell’età di Antonia che spesso arrotonda le fanciulle per mutarle in donne. Ma quando non vi furono più dubbi e se ne accorse anche l’Esterina, tutto cambiò in quella nostra casa che divenne il luogo del più malvagio dei pensieri. Mi disse che di mostruosità nel mondo dovevano essercene molte e che il nostro vivere appartati era un segno del destino, che a nessuno risparmiava il male. E seguitò per una notte intera accusando me di non aver saputo resistere alla bellezza, anche se di sangue, e mi disse che se non mi ammazzava lei con un’arma bruta era perché di quell’orrore non voleva conoscere il contagio. Non mi scacciò di casa, ma per lei fui come morto e la vita mia, da quel momento, prese a essere quella animalesca di una bestia che porta malattia. Le altre figlie rimaste furono con lei solidali, e rinnegandomi come padre fecero di me il trastullo della loro crudeltà. Mangiavo solo ciò che loro avanzavano e mai nel riparo di un piatto, bensì sulla terra polverosa, e ben lontano dalla casa. Divennero cattive tutte quante e per obbligarmi al male della nutrizione escogitarono la ferocia del dare in abbondanza, ma solo ogni quattro o cinque giorni, affinché nel caldo dell’estate io non sapessi come conservare le mie provviste e fossi costretto a nutrirmene anche nella loro pestilenza.
Antonia non me la fecero mai più incontrare, la chiusero in casa come una prigioniera d’altri tempi e la trattarono con ogni amorosa cura affinché nel bene del loro affetto potesse dimenticare il male che aveva conosciuto.
La intravvedevo solo qualche volta alla finestra ed ero contento per lei che aveva un bell’aspetto, che diventava misteriosamente madre senza sapere della vita. E mai ho cercato in quel tempo di dirmi innocente, ché tanto non sarei stato certo creduto, e poi perché sapevo che tutto intorno a quella storia c’era una stanchezza unica nel mondo, quella che m’aveva dato la convinzione cieca nell’accettare la svagatezza del gesto delle braccia di mia figlia che alle domande mie aveva dato risposte di purezza. Questo per me contava, sapere che tutto quel procedere del suo corpo aveva origini lontane, di spiegazione non terrena. Così, come tutto ebbe origine in tempo di vendemmia, anche lo sgravamento di Antonia ‘affacciò nell’identica stagione, in una notte di pioggia fina fina che lì dove ormai dormivo io mi entrava nelle ossa.
Vidi accendersi le luci nella casa e grande movimento di corpi femminili passare avanti e indietro come ombre.
Lo capii da me che stava avvenendo il male con la stessa semplicità delle cose buone; e me ne stavo lì, sull’uscio dell’asinaia, seduto in terra, i gomiti sulle ginocchia e gli occhi rivolti un po’
verso la casa e un po’ alla luna. Stetti all’ascolto di quel gran silenzio, e seppi da me che se
vento e mare avevano deciso di tacere era per fare coraggio a quella figlia mia, che a differenza di tutti gli altri muti non sapeva emettere nemmeno le mostruose grida del dolore.
Se ne morì cosi, presa da grandi sanguinamenti, insieme al figlio che era venuto al mondo solo per farle compagnia. Tutta la casa si vestì di un grande lutto, e la vendemmia di quell’anno fu senza i canti appassionati delle donne.
Da quella volta il vino perse per sempre il suo profumo e tornò a essere semplice vino, buono, ma come molti altri. Questa sparizione dell’aroma fu la risposta chiara a tutto quell’enigma che per tanti anni mi era stato intorno con le carezze lievi di chi mi diede udienza. Ebbi così la certezza che Antonia non era figlia mia, né di nessuno, ma un angelo venuto a vivere dove vivevo io per essermi di premio per una vita a conduzione semplice e mai arrogante, e che anche tutto quel fraintendimento con la famiglia mia continuava a essere ricompensa, perché tanto solo io sapevo, solo io avevo capito che la presenza angelica di Antonia era pretesto dedicato a me, all’esercitazione lenta verso la santità.
Romana Petri è scrittrice, traduttrice e critica letteraria. Tra le sue opere, Ovunque io sia(2008), Ti spiego (2010), Le serenate del Ciclone (2015, premio Super Mondello e Mondello Giovani), Il mio cane del Klondike (2017), Pranzi di famiglia (2019, premio The Bridge), Figlio del lupo (2020, premio Comisso e premio speciale Anna Maria Ortese-Rapallo), Cuore di furia (2020), La rappresentazione (2021) e Mostruosa maternità (2022). Traduttrice e critico, collabora con “Io Donna”, “La Stampa”, “il Venerdì di Repubblica” e il “Corriere della Sera”. I suoi romanzi sono tradotti in Inghilterra, Stati Uniti, Francia, Spagna, Serbia, Olanda, Germania e Portogallo (dove ha lungamente vissuto).