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L’intelligenza della poesia – l’intuito del poeta. Note a “Dove inizia l’amore. Un viaggio nella Vita Nova di Dante” di Melania Panico

L’intelligenza della poesia – l’intuito del poeta. Note a Dove inizia l’amore. Un viaggio nella Vita Nova di Dante di Melania Panico
di Roberto Gaudioso

Un viaggio implica uno spostamento fisico da un luogo a un altro, eppure inizia: «Nella mia casa c’è posto per ogni cosa» (11). Melania Panico scrive in modo “semplice” del più grande classico italiano: Dante Alighieri.  La lingua e gli esempi ci aiutano ad entrare in contatto con l’opera descritta: «È come quando stiamo guardando un film…» (74). La semplicità abbisogna di un grande sforzo intellettuale. Il grande poeta swahili Euphrase Kezilahabi scriveva nell’introduzione alla sua prima raccolta di poesie Kichomi (“Dolore dilaniante”, 1974) che c’è bisogno che la poesia si estenda a terra come una zucca.

Il momento in cui qualsiasi cosa tocchiamo o guardiamo sembra piangere insieme a noi, accade perché il mondo ci appartiene in un certo senso e noi apparteniamo al mondo. La stessa cosa succede anche al contrario, a esempio quando siamo particolarmente felici tutto il mondo che ci circonda ci appare diverso, felice insieme a noi, riusciamo a scandire più chiaramente i suoni o vediamo quel colore più brillante (25).

L’ambiente napoletano dal quale Melania proviene è fecondo e assai ricettivo a discorsi di natura epistemologica. Senza scomodare filosofi campani del passato, che al riguardo pure avrebbero qualcosa da dire, mi riferisco alla cerchia di poeti che l’autrice frequenta. Farò due esempi. Il primo lo troviamo in Baie; Bruno Di Pietro scrive (2019:33):

come se il sole
calasse ad Oriente
guardo tutto con la schiena
impaziente

L’atto di guardare con la schiena, col corpo, si riferisce ancora alla conoscenza del corpo, il fatto che questa conoscenza sia collegata al tramonto del sole ad Oriente ci dà la cifra di quanto questa idea possa rivelarsi rivoluzionaria per il pensiero Occidentale. Che sia a formularla Di Pietro, accanito lettore di Nietzsche e Merleau-Ponty, non ci può stupire.

Varcare la soglia non è stato rassicurante, non è mai rassicurante rendersi conto che davvero il bello è lo splendore del vero, che non si trova confronto a fare i conti con la luce, così come non è il confronto che ha guidato il nostro autore lungo la strada per la Commedia (82).

Anche in queste parole di Melania sembra riecheggiare l’adagio nietzscheano che la strada della ricerca verso la verità è una strada di sofferenza. Comprendere è prendere con sé il senso delle cose e patire con loro. Guardare con la schiena. L’altro esempio della cerchia napoletana della Panico mi riguarda. Pamusáná in lingua shona, la lingua maggiore dello Zimbabwe, vuol dire “ragione, a causa di, per conto di”, questa parola è costituita dal locativo pa- e dalla parola “schiena”, musáná. È come dire che il luogo della ragione sia sulla schiena. Per questo motivo ho voluto tradurre in swahili la poesia su citata di Bruno Di Pietro[1] (se l’avessi fatto più recentemente avrei scelto la lingua shona). E anche per questo motivo che nella mia poesia sono penetrate le lingue Bantu.[2] Il contesto di Melania è anche questo che condividiamo noi tre. In questo saggio lei ci insegna a leggere Dante con la schiena. Ma cosa vuol dire davvero conoscere qualcosa con la schiena? Lo mostra Melania con le sue continue digressioni tra il saggio e la scrittura artistica (che non dobbiamo confondere immediatamente come privato), le citazioni e le comparazioni giustapposte che richiedono al lettore di completare i passaggi logici, di intuirli.

Mi dicevi non puoi costruire un recinto intorno alla luce
allora l’ho coperta
coperto gli occhi con un panno bianco
un lenzuolo di lino
lasciato tutto nel posto all’ombra
non la panchina sotto la pianta d’alloro
né la strada di congiunzione tra le nostre visioni
è stato un giro lungo
forse è un bene aver dato spazio alle crepe
– eppure domani io sarò ancora qui –
a stendere la lista delle possibilità
o fare il nodo in gola alla notte.

D’improvviso anche questo svanisce
soffio via l’aria
il mio tempo da ferma
l’attesa di una tempesta
o una danza d’acqua ne nostro giorno d’estate.

Avrei mangiato la luna con te
i sorrisi sotto la quercia antica
ora aspetto il gesto della grazia
la dolcezza delle parole mute, la gloria
il percorso nei fili d’erba
tra le nostre cose sepolte. (53-54)

Queste parole mute fanno parte di un altro linguaggio che va esperito più che spiegato. «Questo è il momento in cui ogni lingua umana diventa insufficiente al dire, tranne quella del poeta» (41). Se la poesia è un linguaggio altro che nel suo essere arte attraversa le lingue, allora abbiamo bisogno di una facoltà conoscitiva che ci permetta di ascoltare e comprendere le “parole mute”. «L’estetica (teoria delle arti liberali, gnoseologia inferiore, arte del pensare in modo bello, arte dell’analogo della ragione) è la scienza della conoscenza sensibile»: in questi termini il padre dell’Estetica Alexander Gottlieb Baumgarten (2000: 27) la definisce come disciplina filosofica. Con gnoseologia inferiore Baumgarten teorizza che una parte della nostra facoltà conoscitiva sia sensibile, è in questo modo che per Baumgarten la si conoscono e rappresentano tutte le arti (1999: 39). Questo vuol dire vedere con la schiena, comprendere con i sensi. Il filosofo Abraham Olivier,[3] partendo da studi su Merleau-Ponty e recenti studi di neurologia, dimostra come la percezione sia una facoltà sensibile che fa parte della cognizione non solo di noi stessi, ma anche del mondo che ci circonda, cioè come i sensi partecipino alla costruzione mentale della nostra conoscenza e quindi delle nostre idee.

La percezione trascende i confini del corpo per perdersi negli orizzonti incompleti dell’ambiente percepito. Non c’è modo di mappare completamente tutto questo. Tuttavia, sebbene la percezione non sia di per sé percepibile, ciò non significa che sia non fisica. Quindi, se diciamo che la percezione è una capacità mentale, “mentale” non significa “non fisico”, ma si riferisce alla capacità percettiva, anche se non percepibile in quanto tale, del corpo in quanto tale. […] La percezione non esclude le semplici sensazioni, ma piuttosto le nostre facoltà cooperano: la percezione include la sensazione e la cognizione. Così, la percezione non è confinata all’organo-senso o al cervello, ma è un atto che tutto il corpo compie. (2007: 27, 58; trad. mia)

Come può Melania pensare che questa sia un’introduzione di un saggio e qual è il principio che governa la sua scrittura saggistica? È l’autrice stessa a metterci sulla buona strada:

Beatrice è tale perché dentro e fuori di sé ha tutto, razionale e irrazionale, corpo e anima, saggezza cristiana. Dante diventa il capostipite della nuova poesia europea proprio perché non si accontenta di dare importanza a una semplice visione ma riempie questa visione di corpo e razionalità. (69)

Non ho altra risposta se non l’analogia, è l’analogia che governa questo saggio. Non si tratta di una scrittura saggistica ingenua – lo è solo nella misura in cui può portare meraviglia, Pasolini direbbe scandalo – ma di una scelta consapevole e una rottura consapevole con l’idea di saggio accademico. Questa non è una riflessione di poco conto, ritengo, come ho già avuto modo di scrivere (2019: 13-14), che dovremmo ripensare profondamente al nostro modo accademico di scrivere, al pubblico in modo non paternalistico e al piacere della lettura; la facilità non può essere il nostro orizzonte.[4] Né la scrittura né la lettura del saggio di Melania Dove inizia l’amore non sono facili. Se l’avete già letto vi consiglio di rileggerlo approfondendo i rimandi analogici tra i testi che l’autrice cita, i testi di Dante e le parti dedicate alla sua scrittura creativa. Spesso il senso e racchiuso tra le parole, nel loro transito.
Anch’io forse mi sono perso in troppe digressioni parlando di questo saggio in modo obliquo; ma cos’è la scrittura critica se non servizio a quella? Se non un invito al lettore a leggere o rileggere l’opera di cui si parla? “Cosa è parlare del corpo? […] E ci attacchiamo alla vita come se stessimo scalando una parete di vetro a mani nude” (28).
Un viaggio implica uno spostamento fisico da un luogo ad un altro. Il viaggio della poesia, della letteratura (o come preferisco delle arti verbali), conosce non solo tempi ma logiche e ragioni differenti dall’enciclopedico turismo, è per questo che un’autrice non scissa, donna, poeta, intellettuale, ci accompagna in questo viaggio analogico composto da una costellazione di testi di varia natura dal racconto personale alle citazioni di filologia dantesca, dalla poesia dell’autrice a note critiche e comparate al testo di Dante. Il viaggio è un trasportarsi e trasferirsi a tempo determinato: l’autrice austriaca Ingeborg Bachmann diceva «In mein erstgeborenes Land, in den Süden/ zog ich […] Da ist der Stein nicht tot./ Der Docht schnellt auf,/ wenn ihn ein Blick entzündet» (trad. mia: Nella primogenita mia terra, nel sud/ mi portai […] Lì la pietra non è morta. Lo stoppino balza/ se uno sguardo l’infiamma). In questo viaggio di Melania Panico prende vita anche la pietra o la lapide che qualcuno vorrebbe sui classici.

© Roberto Gaudioso

 


Bibliografia

 


[1] Bruno Di Pietro, Mashairi Mawili Ya.
[2] Si veda la mia ultima raccolta Squittii (Oèdipus 2020). Shona e swahili sono lingue Bantu. La famiglia linguistica Bantu è quella che conta il maggior numero di lingue africane. Lo shona conta 15 milioni di parlanti, è una delle lingue ufficiali dello Zimbabwe. Il swahili conta oltre 100 milioni di parlanti e, oltre ad essere la lingua ufficiale di Kenya e Tanzania, è la lingua franca dell’Africa orientale, lingua d’elezione di diversi organismi internazionali africani. Entrambe le letterature (scritte e orali) in queste lingue sono ricche e vitali.
[3] Abraham Olivier è professore all’Università di Fort Hare in Sud Africa. Si occupa soprattutto di fenomenologia e filosofia africana. È autore di un importante saggio sul dolore, Being in Pain (2007).
[4] Mi riferisco soprattutto del mio campo le letterature in lingue africane che è fortemente legato ai modelli anglosassoni di scrittura accademica. È fondamentale, credo, che le discipline legate alle arti, quindi anche la letteratura, basino o almeno non disconoscano il dettato estetico di Baumgarten. L’estetica è quindi non solo studio del canone, ma conoscenza sensibile sulla quale è possibile basare le ricerche accademiche. Mi sono occupato di questo nel mio lavoro monografico sulla poetica del tanzaniano Euphrase Kezilahabi proponendo un approccio analogico al testo. (2019: 77-106) Si veda anche Gaudioso (2018 e 2020).

Una replica a “L’intelligenza della poesia – l’intuito del poeta. Note a “Dove inizia l’amore. Un viaggio nella Vita Nova di Dante” di Melania Panico”

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