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Le trame della lingua. Appunti su Michele Mari (di Edoardo Pisani)

Le trame della lingua. Appunti su Michele Mari
di Edoardo Pisani

…vieni, nuotiamo nel poema interiore delle vaste balene…
Michele Mari, La stiva e l’abisso

Il libro più bello di Michele Mari è anche il suo libro meno letto: La stiva e l’abisso. La vicenda del romanzo è semplice: il galeone del capitano Torquemada è bloccato in mezzo al mare da una misteriosa bonaccia, come il capitano stesso, bloccato sul proprio letto da una cancrena alla gamba. Siamo in un periodo imprecisato del sedicesimo o diciassettesimo secolo, nei mari di Melville e del capitano Achab, di Stevenson e di Long John Silver. Creature colorate e affascinanti assurgono ogni notte dalle profondità del mare e si accoppiano con i marinai alla deriva, raccontando loro le storie di tutti gli uomini che hanno posseduto e di cui si sono nutrite. I marinai divengono apatici, disinteressandosi della nave e della navigazione e della bonaccia e vivendo solo di quelle notti, di quelle favole e di quegli incontri fantastici, nell’immobilità di ogni cosa, con l’eccezione del capitano Torquemada e del suo secondo, Menzio, un uomo cinico e sordido che trama alle spalle del capitano, sperando nella sua morte o in un ammutinamento, e che è ignorato dalle creature marine. Il capitano monologa, o meglio tiene mentalmente un impossibile diario di bordo, che poi è il libro stesso, intervallato dai dialoghi dei marinai. Tutto è fermo e quieto, definitivo, finché un pesce coloratissimo – descritto così: «Indaco, carminio, arancione dominavano i fianchi, con striature gagliarde sopra un fondo di perla, mentre azzurro e verde si disputavano il dorso, punteggiato di minuscole chiazze brunite: la pancia dava sul rosa, con riflessi di madreperla cangianti ed un palpito molle che ne rivelava la delicatezza e il tenerume…» – sbalza dal mare nel cabinotto del capitano, sbattendo freneticamente la coda sul pavimento. È notte fonda, quasi l’alba. Il capitano si alza a fatica, attraversando la cabina con la gamba in cancrena, e decide che quel pesce splendido e dignitoso, che rispecchia la sua stessa decaduta magnificenza e dignità di malato, sarà il suo segreto. E allora lo salva, lo bagna, lo abbraccia, si sdraia al suo fianco, fino all’arrivo di Ernestín, uno dei pochi marinai di cui si fida, che lo aiuta a mettere il grosso e maestoso pesce in un bacile pieno d’acqua. Da questo momento il capitano Torquemada comincia a vivere di pensieri non suoi, con parole improvvise che gli attraversano la mente come lampi, planux, velox, tardus, trispondiacus, litote, plinno, marzapinno, purdinno, parole che non sapeva di conoscere, quasi fossero rubate da altre vite, da altri uomini morti annegati e dalle creature marine che li hanno posseduti, che forse li hanno uccisi – dalle favole e dagli orrori di quei pesci meravigliosi e impossibili.
La stiva e l’abisso è il terzo romanzo di Michele Mari, pubblicato da Bompiani nel 1992, dopo Di bestia in bestia e Io venìa pien d’angoscia a rimirarti; Einaudi lo ha ristampato in edizione economica nel 2018. Come sempre in Mari, molti sono i riferimenti librari del testo, per bocca dei personaggi o del narratore esterno e onnisciente, che compare solo nella prima pagina, alternando gli sguardi di un albatros baudelairiano e di un pesce qualunque (che verrà ucciso dall’albatros) di fronte al galeone immobile; molti sono gli omaggi e i rimandi ad altri scrittori e opere, specie ad autori di mare quali Melville, Conrad, Salgari e Stevenson. Il lessico è spesso tecnico, marinaresco, talvolta poetico. La compassione del capitano Torquemada per il pesce nel bacile è la compassione del lettore per il capitano stesso, per la sua quieta malinconia e la sua grazia, per le sue parole.
«Forse ti dovrei ributtare in mare» dice o pensa il capitano, «ma se poi gli altri pesci si accorgono che stai male? Chissà com’erano invidiosi della tua bellezza, loro così comuni e bianchicci, loro così soglioliformi e imbancati, ti guardavano da lontano e ti temevano, il ricamo delle tue lunghissime pinne era la loro vergogna e la loro fascinazione, ma adesso stai male, appena se ne accorgono si fanno più sotto, l’impunità è il coraggio dei vili, poi come rispondendo a un segnale ti si gettano addosso, ti mordicchiano astiosi, lacerano il tuo splendido drappo di scaglie e si portan fra i denti la seta delle tue lunghissime pinne fruscianti…». E ancora: «La nostra vita è stata il mare, ma qualche volta, seppure per poco, io me ne sono allontanato. Tu gli sei stato più fedele, perché ora sei venuto a morire fra gli uomini? Devi dirmi qualcosa?». E comincerà a scrivere, il capitano Torquemada, segnandosi le parole insensate che gli attraversano la mente, termini poetici, letterari, «ormai mere scorze di suono», quali tropo, paranomasia, ipotiposi, zeugma, incocinno, come se le parole dello scrittore Michele Mari stessero invadendo i sogni e la fantasia del capitano, che non è più soltanto un personaggio bensì Mari stesso, o il suo lettore, ossia noi, suoi semblables, che assistiamo con il capitano alla nostra stessa agonia sulla pagina, al nostro indecifrabile dolore di esseri umani. Alla fine, o per essere più esatti a metà del romanzo (molte cose devono ancora accadere), il pesce morirà e sarà ributtato in mare, sempre di notte, avvolto in una camicia del capitano Torquemada, come in un sudario, affinché gli altri pesci non se ne cibino, distruggendo la sua inalterata bellezza. Il cadavere del pesce affonda nell’oscurità.
La stiva e l’abisso è un libro di una bellezza agonizzante e nobile, come il capitano e il mare in bonaccia e i marinai visitati e incantati dai pesci, di notte, che a uno a uno si lasciano morire, distesi sul ponte della nave. È un romanzo di immagini malinconiche e di desolazione, in qualche maniera un epilogo poetico e nostalgico agli autori di mare che Michele Mari ha tanto amato, come già nel racconto Otto scrittori, compreso in Tu, sanguinosa infanzia, con gli autori prediletti di Mari che sfilano uno dopo l’altro davanti a lui, davanti al lettore, contendendosi il suo (il nostro) amore letterario: Conrad, Defoe, London, Melville, Poe, Salgari, Stevenson e Verne.
«Ho sempre avuto una concezione ventriloquesca e manieristica della letteratura» ha detto Mari in un’intervista, «per cui penso che ognuno di noi diventi scrittore perché è stato lettore, e se è stato lettore ha avuto un imprinting fatale per cui certe situazioni, certe topiche, certi temi sono per lui inscindibili dalla maniera e dal tono degli autori che più lo hanno emozionato e convinto». Così i rimandi e gli echi letterari nei suoi libri sono innumerevoli, tanto nel lessico quanto nella narrazione, nei personaggi e nei paesaggi e nelle voci, nei dialoghi, dal gotico Di bestia in bestia al leopardiano Io venìa pien d’angoscia a rimirarti, dal marinaresco La stiva e l’abisso al céliniano Rondini sul filo, dai racconti di Euridice aveva un cane e di Tu, sanguinosa infanzia all’universo letterario e postumo e tragico e suicidario narrato in Tutto il ferro della Torre Eiffel – in cui Mari scrive: «Tu la vedi, questa cosa, e ridi: ma è un pianto; e dici: se la letteratura genera questo, è questo, la letteratura. Ed è la vendetta del mondo, perché la letteratura che non si difenda dal mondo cos’è, se non mondo? E il mondo è qui polimero fuso: ma fuso a forma di letteratura, così, volessimo uscire, sappiamo che non si può, nemmeno ogni tanto…» –, fino a Verderame o Rosso Floyd o Fantasmagonia o Roderick Duddle; insomma ci sono citazioni e rimandi in tutti i libri di Mari, che sono claustrofobici, tanto narrativamente quanto sintatticamente, perché dalla letteratura «non si può uscire» e perché la letteratura, come la lingua, ogni letteratura e ogni lingua, i libri scritti e letti e amati e vissuti e sofferti, è il mondo, diviene il mondo che vuole raccontare o distruggere o salvare, uno dei tanti mondi possibili, o meglio diviene la ricreazione immaginaria (e la vendetta) del mondo contro se stesso – che pure da e nel mondo, dai e nei troppi mondi possibili, letterari e non, reali e non, comunque spaventosi, deve difendersi, per restare viva.
Scrivere di autori amati, ossia fare letteratura, per uno scrittore è un atto al tempo stesso di altruismo e vanità, una prova di affetto letterario nei confronti di opere e voci che ci hanno formato e fatto innamorare e che tuttora ci fanno continuare a leggere e a scrivere, a evolvere nella letteratura. Scrivere di e con altri autori, come fa Mari nelle opere narrative e nei saggi raccolti nel magnifico I demoni e la pasta sfoglia, è la riscossione di un debito o il pagamento dello stesso, una contropartita fra la propria voce e l’autore letto, amato, fra le sue e le nostre opere, un esercizio di ammirazione e di umiltà e talora l’assolvimento di un senso di colpa, cioè di ammirazione, quasi che un vero scrittore non possa gioire delle opere altrui e basta, arricchendosene e fruendone e magari ispirandosene, perché bisogna anche saper servire i libri, specchiarsi nelle proprie letture e passioni e ossessioni (ah, le ossessioni di Mari!) e restituirle al pubblico, agli altri possibili lettori: perché è così che si fa e si tiene in vita la letteratura.
Le opere di Michele Mari sono un omaggio alla letteratura intera, specie a quella marginale, oscura, tanto è particolare e particolarmente maniacale e ossessiva la sua sintassi, il suo scrivere denso di riferimenti colti e di rimandi ad altri scrittori e altre opere, una prosa che tuttavia brilla di una sua perfetta e malinconica unicità. Mari si pone al di là del mondo reale, reinventandolo letterariamente, grazie all’affabulazione della scrittura, opponendo al mondo artefatto della cosiddetta realtà la verità fantastica sognata della letteratura, che è altrettanto se non più reale del mondo a cui si raffronta, che ricrea. La letteratura dunque diventa non soltanto citazione e culto ma anche oggetto, letteralmente, come i famosi puntini sospensivi di Céline, che sono «smagliature di un tessuto», scrive Mari in I demoni e la pastasfoglia, «punture di insetti velenosi, reazioni a un vaccino, punti chirurgici, melanomi, ictus, o qualsiasi altra cosa sia estranea alla nostra idea di salute, di benessere, di conservazione e autoconservazione», e che all’inizio di Tutto il ferro della Torre Eiffel divengono reali, dei veri e propri oggetti, abbandonando la pagina e lo stile e tramutandosi in tre piccole sfere nere conservate in uno scatolino di latta, che un uomo, un nano simile in tutto e per tutto a Karl Fischerle, il personaggio di Auto da fé di Elias Canetti, tenta di vendere a Walter Benjamin. “Ma certo che sono loro!” esclama il nano. «I tre puntini! La più grande invenzione del secolo! Per quel che riguarda la letteratura s’intende, ci si vuol mica allargare!».
Ci si vuol mica allargare, dice il nano a Benjamin, e tuttavia la letteratura di Mari si allarga continuamente, e sfacciatamente, diventando un mondo a sé stante e invadendo l’insopportabile realtà, il mondo fuori dalla pagina, che pure è o sembra essere letteratura, fra giochi linguistici e invenzioni verbali e strutturali e parodie ritmiche e divagazioni estetiche. Tutto il ferro della Torre Eiffel trabocca di personaggi immaginari divenuti reali e viceversa, come lo scarafaggio Gregor e Max Brod, come Celan e Gadda e Klaus e Thomas Mann (con un’evidente predilezione per Mann figlio, da parte di Mari, il futuro suicida Klaus) e Kokoshka e Robert Denoël, l’editore di Céline, e Lucette, la moglie di Céline, e Céline stesso, che pure non compare se non come presenza/assenza, come marionetta e come fantasma e soprattutto come ritmo – il ritmo “céliniano” che si ritrova anche in Rondini sul filo, forse il più oscuro dei libri di Mari, un ritmo che si fa e si disfa in un magma di punti esclamativi e punti sospensivi e termini desueti e arrabbiature e che nondimeno non è del tutto (non è affatto) lo stile di Céline, talmente è maniacale e non istintiva la ricerca linguistica e filologica di Mari, cioè dell’io narrante, del protagonista tormentato e nevrotico del romanzo; un romanzo che, sebbene affascinati, rileggendo più volte diverse pagine, come il brano della Macumba ai danni di N.N., non siamo riusciti a leggere linearmente, cioè a finire – e il libro risponderebbe: «Ci posso far niente l’ossessione è così, ci si è dentro, ci dice più niente il bel mondo, la volta stellata i tramonti…».
Alcuni libri sembrano essere scritti per non lasciarsi leggere, per rendersi insopportabili. Come tutti i veri autori, Mari sa all’occorrenza essere illeggibile, cioè fare della pagina forma e non contenuto, stile e ritmo e non narrazione oppure narrazione soggiogata dallo stile e dal ritmo, talvolta a scapito della chiarezza, della trama, disorientando il pur incantato (proprio perché non capisce) lettore, fino a travolgerlo e incarnarsi nei suoi deliranti personaggi, come in Rondini sul filo, facendo violenza sulla sua stessa voce; e tuttavia Mari non si perde mai completamente, e forse questo è ciò che gli impedisce di essere davvero un grande autore, ciò che in qualche modo gli manca (e la sua letteratura è l’atroce incanto di questa mancanza): l’incapacità di liberarsi della sua stessa prosa, del suo troppo travagliato e ossessivo e compulsivo stile letterario, che è anche una mania e una prigionia e una perversione. D’altra parte lo stile di Michele Mari – il suo suono più puro, come nei paragrafi finali del racconto Euridice aveva un cane o in molte pagine di Tu, sanguinosa infanzia, come nei suoi romanzi migliori o nei saggi letterari o biografici – è anche il segno della sua vibrante unicità: un incanto ulteriore.
Soltanto in Roderick Duddle, il suo ultimo romanzo, la sua opera più estesa e forse strutturalmente più ambiziosa, per quanto dispersiva, Mari sembra tentare, non riuscendoci del tutto, di liberarsi dalle rigidità stilistiche del suo scrivere, a beneficio di una narrazione che sia innanzitutto avventura e trama e non stile, non esasperazione linguistica, rifacendosi ai romanzi ottocenteschi di Dickens e di Stevenson, con il piccolo Roderick, cioè Mari stesso, che vaga fra innumerevoli personaggi e navi e voci e ammutinamenti e tempeste e morti; pure Roderick Duddle ci sembra meno riuscito de La stiva e l’abisso, che è un vero gioiello del genere marinaresco e non solo, un’opera che, per quanto possa essere letta – e non lo è: Mari lo ha definito il meno letto dei suoi libri, oltre che uno dei migliori –, non avrà mai abbastanza lettori, a differenza del vendutissimo Cento poesie d’amore a Ladyhawke («C’è una quota per me misteriosa e incomprensibile del mio pubblico che mi conosce fondamentalmente per le poesie» ha detto una volta Michele Mari).
Continueremo a leggere Michele Mari. Il mare è immobile e spaventoso. Il capitano Torquemada è stato portato fuori dalla cabina. I marinai, con l’eccezione del terribile Menzio, sono tutti morti. È la fine; il mare ribolle di pesci mostruosi e fantastici e l’incanto è al culmine, per un’epifania dell’orrore e del delirio. Menzio ha paura. «Tu sei l’uragano e io sono la notte» dice invece il capitano, con grande dignità e coraggio, rivolto al mare, «l’abisso non conosce tempesta e respinge ogni nome, guarda come sono bello e lucente mentre torno a sfidarlo, un tuffo e l’abisso son io, quali storie sapranno saziarmi, quali ninnenanne sapranno cullarmi?» Ma chi deve guardare? Menzio? Il lettore, noi? L’abisso stesso, il mare, l’oscurità? O Michele Mari che scrive? Il capitano si getta nelle acque, al buio, come il pesce che ha salvato, in un gesto che riassume tutta la nobiltà e lo spavento della scrittura più autentica, tutto l’incanto di ciò che non è possibile se non nella fantasia, in quel luogo misterioso e immemore e nascosto che è la letteratura, e in special modo la letteratura di Michele Mari. 

© Edoardo Pisani

 

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