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L’arte in tutte le sue forme. Giulia Bocchio dialoga con Vittorino Curci

Arte: la parola singolare più plurale di tutte.
Inutile e probabilmente irrealizzabile riassumerla in una sola forma, in una sola visione (e qualora qualcuno riuscisse nell’impresa, davvero potremmo chiamarla arte?) perché essa somiglia ai moti della sensibilità, che sono tanti, tantissimi. Le potenzialità del pensiero dilatano addirittura i cinque sensi che ci competono, il pensiero sceglie e quando inconsciamente non sceglie si adegua all’atto creativo: è l’atto creativo. Non senza un lato marcatamente estetico e viscerale.
Vittorino Curci è tutto questo.
Artista poliedrico e sensibile, visuale e musicale, nonché poeta, nonché prima persona singolare dedita a tradurre l’insondabile in una maniera plurale, servendosi di un tratto inconfondibile, ad oggi fra i più riconoscibili nel panorama culturale italiano.
Vittorino Curci, nato nel 1952 a Noci (Bari), utilizza la cavalleria della parola, intensa e intramontabile sinestesia capace di contaminare tutto, basta osservare i suoi quadri. Sì, perché in lui anche l’aspetto estetico-figurativo di un determinato messaggio passa attraverso la funzione catartica della mano che, quando non compone versi, quando non danza su note jazz, si perde nel colore, nella tempera, nelle infinite possibilità di un tratto, di una linea, in una danza di codici espressivi in continuo mutamento. E senza dimenticare la spinosa questione del “tempo”: la ragione non è tutto per il poeta, non può essere tutto, e il presente sembra sempre protendersi verso l’immortalità, questo perché l’arte ha un’attitudine alla sopravvivenza che l’artista quasi invidia, anche quando ne è lui stesso il creatore.
Tutto, in fondo, è processo per Vittorino Curci.
Poesia, musica e pittura, la grande cultura classica del passato sarebbe fiera della sua opera. E fiera di lui lo sono i suoi lettori e in special modo la sua terra, Noci, dove ogni origine è meta. E ogni parola trova una sua impronta: da Liturgie del silenzio, a L’ora di chiusura, passando per l’irriverente esposizione Stookatzart (sì provate a leggerlo ad alta voce!).

Vittorino bentrovato. Qual è a tuo avviso il ruolo del poeta in una società che tra frenesia quotidiana e sovraesposizione al superfluo fa i conti con un incantamento artistico la cui potenza è spesso sottovalutata?

Il ruolo del poeta è quello che è sempre stato sin dalle origini della storia umana: essere strumento della parola per consacrare alla vita la potenza e il mistero del linguaggio. Questo ruolo si carica oggi di un’ulteriore responsabilità poiché assistiamo ogni giorno a una programmatica distruzione della verità. Tipica manifestazione di una società agonizzante. Mi tornano in mente tre versi da Composita solvantur di Fortini: «Rivolgo col bastone le foglie dei viali./ Quei due ragazzi mesti scalciano una bottiglia./ Proteggete le nostre verità».

La poesia è un’espressione viva, i social ospitano molte voci emergenti e un quotidiano nazionale come Repubblica ha addirittura aperto in tutte le sue sedi locali una “Bottega della poesia” (tu curi quella di Bari) per promuovere la diffusione e la pubblicazione di versi inediti, anche per avvicinare un pubblico nuovo.

Essendo la poesia, come diceva Pound, «linguaggio caricato di senso al più alto grado possibile», i social sono degli ottimi strumenti per la diffusione della poesia. Diciamo che possono costituire un primo approccio alla parola poetica. La mia esperienza con la “Bottega di poesia” di Repubblica Bari mi sta insegnando molte cose. La prima è che la poesia è viva. Ed è viva perché forse non c’è altro modo oggi per capire a che punto siamo. C’è qualcosa delle nostre vite che ci sfugge continuamente e sentiamo, o quanto meno intuiamo, che solo attraverso la poesia possiamo cogliere ciò che Ungaretti chiamava “il sentimento del tempo”.

Spesso l’arte è una questione di “frattura”, là dove tutto converge, là dove tutto è possibile, là dove tutto è necessario fuggire nasce una narrazione. Una possibile narrazione. Vale anche per le tue opere?

Certo. Se non c’è quella frattura di cui tu parli, l’arte si riduce a niente. Quella frattura è vitale, necessaria. Segna il distacco dalla noia e dalla banalità dei luoghi comuni. Orienta diversamente le nostre vite. Ci mostra quello che prima ci sembrava invisibile. Non ci fa sentire completamente sprovveduti in una società in cui il capitalismo è diventato una religione.

Veniamo alla pittura. Nei tuoi quadri spicca il giocoso e un senso di movimento vivo e pulsante. La potenza del colore e del tratto ha a che vedere, metaforicamente, con un’altra tua grande passione, la musica, il sassofono?

Poesia, pittura, musica, tutto è collegato in quello che faccio. In fondo credo di esprimere la stessa cosa (quelle due o tre idee che non mi abbandonano mai) facendo ricorso a linguaggi diversi. È un’esperienza che consiglio a tutti perché crea una grande apertura mentale, dà una maggiore consapevolezza degli strumenti che si utilizzano e scongiura il rischio di perdersi in operazioni senza opere.

Nella tua arte la musicalità della parola sembra accordarsi al tuo essere musicista e le note libere della tua musica sembrano disegnare le immagini dei tuoi quadri. L’arte in tutte le sue forme conserva secondo te un universo di richiami sempre circolari? In cui tutto si mescola e si rinnova?

Caproni, che aveva un’ottima formazione musicale (suonava il violino e aveva anche studiato composizione) ci ha insegnato che la parola poetica è di per sé musica. Non ha bisogno quindi di accompagnamenti, sottofondi e basi per mettere in risalto quello che ha da dire. Tuttavia le arti creano tra di loro delle relazioni sotterranee e a volte misteriose. È questa la cosa più interessante per me. Prendiamo il caso di una dissonanza. In musica sappiamo cos’è una dissonanza. La domanda è: come si può in poesia ottenere un effetto simile alla dissonanza? Io lavoro molto intorno a questi concetti. E non ho inventato nulla. Satie pendeva dalle labbra di Mallarmé. Cosa cercava nelle parole del maestro? Sì, sono d’accordo con quello che dici implicitamente con la tua domanda: anche se non è immediatamente visibile, l’arte è piena richiami circolari, in essa tutto si rimescola e si rinnova. L’artista può solo mettersi in ascolto e aspettare. Qualcosa prima o poi succede.

2 risposte a “L’arte in tutte le sue forme. Giulia Bocchio dialoga con Vittorino Curci”

  1. Dipingere è un po’ come scrivere versi ed anche la musicalità della parola – specialmente quella rimata- ha a che fare con le trame distese sulle tele. Pittori, poeti e musicisti fanno un po’ le stesse cose e non è che sempre e comunque ne siano coscienti. Si ritorna un po’ all’antico quando tutte codeste Muse abitavano nei luoghi d’Elicona. Una necessaria personalizzazione di quando e come una persona comune possa trarre ispirazione. Direi, infine, che tale condizione artistica abbia a che fare con una spiritualità teologica ed in modo particolare con le religioni monoteiste. Strano, ma vero? Può darsi !!!

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