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Intervista doppia a Francesca Marica e Viviana Fiorentino (prima parte)

Francesca Marica e Viviana Fiorentino si sono incontrate poeticamente nel corso del 2019 e dal vivo a novembre 2019 in una presentazione pubblica a più voci da cui è nata quest’intervista doppia, che sarà proposta oggi e domani pomeriggio sul nostro blog. Da Concordanze e approssimazioni di F. Marica (Il leggio 2019) abbiamo proposto alcuni testi (qui) e da In giardino di Viviana Fiorentino (Controluna edizioni 2019) abbiamo pubblicato una nota di lettura (qui).

Alessandra Trevisan: In che modo la vostra poetica si esprime attraverso i titoli delle vostre raccolte?

Francesca Marica: La domanda chiama subito in causa diverse considerazioni. Da dove iniziare?
Il titolo è stata l’ultima cosa che ho scelto; forse potremmo iniziare da qui.
Cercavo un titolo capace di rappresentare e riassumere, senza bisogno di specificazioni e aggiunte postume, il senso del libro. Volevo qualcosa di immediato e intuitivo.
Minute acrobazie è il titolo a cui avevo pensato in prima battuta, quel titolo nasceva dal verso di una poesia contenuta nella terza sezione, Interstiziale. Il verso era questo: «C’è un tempo che implora di essere chiamato,/ trattenendo il respiro e la salvezza/ come l’ora che vince il momento,/ rivelando i disegni, i paradigmi, le minute acrobazie». Le acrobazie erano quelle del quotidiano e l’aggettivo minute voleva avere una valenza ossimorica.
Il titolo attuale ha fatto la sua comparsa poco prima di andare in stampa e da allora non ci sono stati più margini di ripensamento. Concordanze e approssimazioni è un titolo che mi appartiene e pone l’accento su quella che considero una cifra fondamentale del vivere, del mio vivere almeno: procedere per concordanze e approssimazioni.
Cosa intendo dire? Nella vita cerchiamo chi ci somiglia, coloro ai quali siamo vicini e prossimi.
Similia similibus curantur è la locuzione latina che racchiude splendidamente questo pensiero.
Ho scoperto, dopo aver scelto il titolo, che la locuzione latina viene tradizionalmente collegata al pensiero di Samuel Hahnemann che ne ha fatto il fondamento dell’omeopatia agli inizi del XIX secolo. Ma il concetto che ne è sotteso è ben più antico e affonda le sue radici già nella cultura sanscrita. Nel Cinquecento è stato però Paracelso nel suo Opus Paragranum a dargli notorietà affermando che «nessuna malattia può guarire per contrapposizione ma solo grazie al suo simile, così lo scorpione cura il suo scorpione, l’arsenico il suo arsenico, il mercurio il suo mercurio, il cuore il suo cuore».
Paracelso ha reso evidente un dato per me fondamentale: solo i simili sono destinati a curarsi vicendevolmente. Ergo, solo i simili sono destinati a un incontro.
Come e quando questo incontro si realizzi concretamente e dove possa condurre sarà l’esperienza a insegnarlo ma poco importa. L’importante è rinnovare il mistero che ogni incontro racchiude, per continuare a scoprirsi vivi.
Il filosofo francese Francois Jullien ha elaborato una teoria dell’incontro molto interessante e alla quale aderisco totalmente. In L’apparizione dell’altro – Lo scarto e l’incontro, Jullien sostiene che l’apertura, che si cela dietro a ogni incontro, diviene «effettiva e attiva solo quando un Altro si profila e distacca sufficientemente dal mondo dall’altro anonimo per colpire (nel senso di forzare) la chiusura nella quale si raccoglie l’io».
Ecco allora che quell’Altro diventa una vertigine per il pensiero. E lo diventa in maniera tanto più importante laddove l’incontro «spinge a guardarsi negli occhi, esige la prova di un faccia-a–faccia, obbligando a un bilancio: fino a che punto sono stato in grado di andare incontro o incontrare?».
Un interrogativo quest’ultimo che finisce per abbracciare la vita, le relazioni umane e anche la poesia. Fino a che punto il poeta è stato capace di andare incontro ai suoi versi?
La domanda potrebbe suonare come una provocazione ma non lo è. L’incontro tra il poeta e le parole che compongono i suoi versi non si sottrae alla regola dell’apparizione improvvisa e vertiginosa, semmai ne è una conferma ulteriore.
Le parole sono radici con un domicilio, ha scritto Mariella Mehr.
E se è vero, come Maurice Blanchot ha ipotizzato, che scrivere è scongiurare gli spiriti, scegliere le giuste parole – o meglio, le parole più vicine e prossime ossia più concordanti – diventa per il poeta il modo per liberarsi dal peso di quegli spiriti, lo strumento per resistere all’oblio mettendosi nella condizione di incontrare l’Altro. Se esistiamo come individui solo in quanto siamo capaci di incontrare; l’incontro diventa termometro del vivere, anche del vivere inteso in senso poetico.

Alessandra Trevisan: Qual è il vostro rapporto con il tempo in poesia? E con il ritmo? L’io poetico in che modo si pone quando scrivete?

Francesca Marica: Il tempo ha un ruolo centrale. Nel mio caso, attraversa trasversalmente tutto il libro e le tre sezioni che lo compongono ne sono una testimonianza fin dalle titolazioni. Cercando di semplificare: la prima sezione, Il tempo indietro, rievoca momenti di un passato lontano; la seconda sezione, Dalla parte dell’acqua, prende spunto da un passato recente e lacustre; l’ultima, Interstiziale, è invece quasi interamente dedicata a un presente più prossimo. Le tre sezioni sono in dialogo, costituiscono un trittico e il tempo trascorso è il filo rosso che le lega.
In una delle ultime poesie della terza sezione, un verso recita «Lascia che ti dica di me, di cosa è stato fino a qui», rendendo manifesta l’intenzione di voler raccontare senza menzogne o omissioni il solco che il tempo ha tracciato.
Sono affascinata dal tempo e lo sono da sempre. La sua dimensione inafferrabile rappresenta un motivo di riflessione costante. Non a caso, per la filosofia, il tempo costituisce uno dei grandi quesiti con cui l’uomo è chiamato a confrontarsi, il vero punto di partenza di ogni indagine che voglia davvero dirsi umana: i presocratici hanno descritto un tempo che invecchia in fretta, per Platone il tempo aveva una dimensione cosmica e naturale, per Agostino esisteva un tempo dell’anima, Kant lo considerava una forma a priori della sensibilità, per Hegel il tempo era l’intuizione del movimento, per Reichenbach era ordine delle catene causali e per Heidegger una struttura della possibilità. Il grande Wallace Stevens sosteneva che invecchiare fosse davvero affare di poeti, un continuo confronto con ciò che si diventa nel tempo e questa sua intuizione è probabilmente alla base di questa mia fascinazione così radicata. Il confronto con quello che si diventa del tempo obbliga ancora una volta a un bilancio: in che modo il tempo mi ha trasformato e dove mi ha condotto?
Quanto al ritmo, cito un verso di Paul Verlaine che mi appare perfetto nella sua sintesi: «La poesia è musica prima d’ogni cosa». La musicalità della poesia non si esaurisce tuttavia nelle scelte metriche e stilistiche. La poesia è una questione di sfumature linguistiche e anche le immagini contribuiscono a farsi suono e, quindi, a dare un ritmo al testo. Tanto più è rapida l’escursione tra l’accendersi e l’oscurarsi di un’immagine, tanto più la poesia troverà un suo ritmo, una sua musicalità.
Penso agli studi di Amelia Rosselli in Spazi metrici, dove alla metrica tradizionalmente intesa la poetessa affiancava quella spaziale; in che modo, si chiedeva, le parole possono occupare lo spazio disponibile in una pagina bianca? Persino la combinazione grafica delle parole crea ritmo, musicalità, intonazione.
Nella postfazione di Concordanze e approssimazioni, rispondendo a una domanda della curatrice di collana, ho citato un pensiero di Dylan Thomas: «Spesso lascio che un’immagine si produca in me emozionalmente […] dall’inevitabile conflitto delle immagini che ne derivano cerco di pervenire a quella pace momentanea che è una poesia.» E subito dopo ho aggiunto, come se volessi completare il pensiero di Thomas, una frase di Philip Larkin: «la poesia è un atto di preservazione […] scrivo poesie per preservare le cose che ho visto/pensato/sentito sia per me che per gli altri, sebbene io senta che la mia prima responsabilità è rivolta all’esperienza stessa, che io cerco di far sfuggire all’oblio.»
Mi rendo conto oggi che attraverso queste due citazioni volevo proprio evidenziare l’importanza delle immagini anche sotto il profilo del ritmo, della musicalità del verso. Esiste un doppio binario tra parola-suono e l’immagine con cui questa viene resa; binario ancora tutto da indagare peraltro.
La questione dell’io poetico è, a mio giudizio, fin troppo dibattuta e abusata.
Premesso che l’opera e il suo autore sono in un rapporto di maternità/paternità necessaria, ritengo sia opportuno che le due entità rimangano distinte e autonome. Non è consigliabile, ma neppure utile, un appiattimento dell’una sull’altro. Una poesia travestita da cronaca autobiografica a quale funzione collettiva potrebbe mai assolvere?
Ho avuto modo di discutere di questo tema con un amico qualche settimana fa. Partendo da una serie di premesse che riguardavano un poeta recentemente scomparso, entrambi giungevamo alla conclusione che tra autore e opera non deve esserci proprietà ma mistero. Occorre riuscire a creare un sistema di pensiero – suggeriva in particolare lui – che possa organizzare i dati, anche quelli più strettamente autobiografici, in una macchina celibe (come non pensare a Marcel Duchamp ma anche, e soprattutto, a Gilles Deleuze e Felix Guattari e alle loro forze opposte di repulsione e attrazione?) dove l’io non diventi mai presenza ingombrante e annichilente.
L’esperienza di vita del poeta può legittimamente rappresentare il punto di partenza di una narrazione ma non deve mai cannibalizzare quella narrazione, pena il cortocircuito di un sistema di pensiero che possa realmente dirsi in dialogo con il mondo, con l’altro.
In Concordanze e approssimazioni esiste certamente un elemento autobiografico – talora anche piuttosto evidente – ma non ha mai valore di cronaca, diventa piuttosto pretesto di approfondimento per temi più vasti e generali: l’abbandono, la morte, la malattia, il senso di precarietà e straniamento, le relazioni e l’incontro con l’altro. C’è un’esperienza che tenta di farsi testimonianza prescindendo dall’individualismo di chi scrive.

Alessandra Trevisan: Il rapporto tra partenza e distacco, come si dipana nella vostra poesia?

Francesca Marica: Sosteneva Kant che possiamo conoscere le cose solo come queste ci appaiono.
E mi sento di aggiungere, solo quando ci appaiono. Il come e il quando sono due momenti fondamentali dell’esperienza empirica; il come è legato alla staticità dell’atto del vedere, il quando alla dinamicità della variabile tempo.
Resta da capire cosa siamo realmente capaci di vedere nel tempo. Credo che il tema della partenza e del distacco si inserisca nel solco di quest’ultimo interrogativo.
La mia poesia ha in diverse occasioni approfondito il tema dell’esilio, del confine, del congedo, dell’altrove – tutti elementi intimamente connessi con il concetto di partenza e di distacco.
Cito a riguardo un paio di versi che mi sembrano significativi: «L’esilio è una prova di resistenza.// Tutto sopravvive a una possibilità di traduzione.// Tutto sopravvive a un altrove|; e ancora, |In anticipo sul desiderio di salvezza/ verrà il momento del congedo.// Una stretta silenziosa/ un vociare che intorno si spoglia, lentamente|, e poco dopo,/ Un restare che è un andare, un andare che è un trovarsi//. Decisivi minuti di bianco prima del risveglio/ la ragione che non ha paura di essere contraddetta|, e da ultimo, |Ci fosse stato il tempo/ della lotta e del perdono/ non ci saremmo arresi,/ avremmo continuato a andare».
La partenza e il distacco richiamano, e questi versi lo confermano, il concetto di approdo.
Si parte per raggiungere, almeno nelle intenzioni, un punto fermo (Endlichkeit, direbbe Paul Celan). E mentre scrivo mi rendo conto che, ancora una volta, torna ad essere centrale il momento dell’incontro con l’altro. Approdare significa prepararsi a incontrare, significa farsi carico della componente di imprevisto che l’incontro porta con sé. «Non esiste incontro che non lasci spazio all’indeterminato riaprendo a un possibile futuro», scrive sempre Jullien.
Differire l’approdo, e quindi l’incontro con l’altro, diventa un modo per valutare ciò che il tempo ha determinato nella sua durata, è un modo per smarcarsi dalle difficoltà incontrate nel frattempo. La distanza e l’isolamento, che ogni partenza e distacco implicano, sono un momento di osservazione importante: «l’uomo lasciato solo con se stesso è in compagnia del proprio maiale» – aveva visto giusto, Nietzsche. Quella condizione di isolamento acuisce la percezione della propria individualità e paradossalmente favorisce una maggiore percezione di sé e dell’intorno, una percezione scevra da condizioni e influenze esterne.
Aveva visto giusto anche Simone Weil: «La porta deve aprirsi e lasciare passare il silenzio, solo così la luce lava gli occhi resi ciechi dalla polvere».
Dobbiamo imparare ad aprire le porte, dobbiamo imparare a partire e poi, solo poi, ad approdare.

Francesca Marica è nata a Torino nel 1981.
Ha pubblicato: Concordanze e approssimazioni (Il Leggio 2019, segnalazione Premio di poesia e prosa Lorenzo Montano, XXXIII edizione). Attualmente sta lavorando a due nuovi progetti poetici e a un libro d’artista a quattro mani con una scultrice italiana.
Redattrice e curatrice di riviste e blog letterari, si occupa di critica poetica e poesia visiva.
È anche artista visiva e collagista. Traduce dall’inglese e dallo spagnolo, ha scritto – e scrive – di arte e di teatro. Sue poesie sono apparse su diversi blog, riviste e antologie.
Fa parte della Giuria del Premio letterario Internazionale Franco Fortini e del Premio nazionale Gianmario Lucini.
Vive a Milano, dove esercita la professione di avvocato.

© Francesca Marica e A. Trevisan


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